“Molte sono le afflizioni del giusto”. – Sl 34:19.
Molti mali sono indubbiamente conseguenza di errori umani o di scelte sconsiderate. Tuttavia, ci sono mali tremendi che sono indipendenti dalla cattiva condotta umana, come quelli che colpiscono bambini che s’ammalano, soffrono atrocemente e muoiono, come i terremoti e le catastrofi. Di fronte all’inspiegabilità di tanto male che piomba sull’umanità, i popoli antichi immaginarono una divinità del bene e una del male. Questa idea s’insinuò anche nel cosiddetto cristianesimo, vedendo in satana il dio del male opposto al Dio del bene. Non bisogna fraintendere 2Cor 4:4 che parla di satana come del “il dio di questo mondo”: è il mondo a farne un dio. “Non c’è che un Dio solo”. – 1Cor 8:4; cfr. Dt 6:4;32:39; Ef 4:6.
Chi non è credente, pare diventarlo quando attribuisce a Dio tutti i mali del mondo. Il credente stesso, di fronte a un male che lo colpisce, può chiederne amaramente conto a Dio, domandandosi perché permette tanta sofferenza. Giobbe, piagato da un’atroce sofferenza, sbottò: “L’Onnipotente mi risponda!” (Gb 31:35). E se non ci pensa il credente sofferente a chiamare in causa Dio, lo fanno gli altri, come la moglie di Giobbe che disse sarcasticamente al marito: “Benedici Dio e muori!” (Gb 2:9, CEI), intendendo: “Maledici Dio e muori!”. – TNM.
Il grande dramma della sofferenza e del male non è qualcosa che riguarda solo l’essere umano. Dio stesso è coinvolto nelle nostre sofferenze. Il dramma è vissuto anche da Dio. Questo è ciò che emerge dal libro biblico di Giobbe. In esso appare che Dio sia come costretto a lasciare che le cose accadano e che facciano il loro corso. Nel dialogo iniziale tra Dio e satana, che la parabola di Giobbe costruisce, “il Signore disse a Satana: ‘Ebbene, tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona [ovvero su Giobbe]’” (Gb 1:12). Dopo aver tolto a Giobbe tutto ciò che gli è caro, compresi i suoi figli, satana prosegue nella sua subdola accusa che Dio sia un tiranno circondato da cortigiani che lo riveriscono solo per convenienza: “’L’uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita; ma stendi un po’ la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia’. Il Signore disse a Satana: ‘Ebbene, egli è in tuo potere; soltanto rispetta la sua vita’” (Gb 2:4-6). Non si tratta di un gioco perverso. E neppure, come pensano scioccamente alcuni, di una sfida di satana che Dio accetta. Il racconto ci mostra la verità, dolorosa quanto inquietante, del rapporto indecifrabile di Dio con l’universo. La storia, iniziata così bene con la creazione, alla fine di cui “Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono” (Gn 1:31), è diventata tragedia e la situazione dolorosa.
Il libro di Giobbe afferma che anche gli innocenti soffrono. I presunti amici di Giobbe tentano delle spiegazioni, a turno, che sono esposte nel lungo poema della parabola. Tentano di consolarlo, ma soprattutto lo rimproverano: se è stato colpito, qualche colpa deve pur averla e merita il castigo. La loro conclusione sa molto di religioso: si penta, e Dio lo perdonerà. Giobbe rifiuta la loro spiegazione: “Lungi da me l’idea di darvi ragione! Fino all’ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità. Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni”. – Gb 27:5,6.
Giobbe sa riconoscere che “la terra è data in balìa dei malvagi” (Gb 9:24; cfr. 12:6). Per usare le parole del Congregatore: “Sulla terra si ha questa delusione: vi sono giusti ai quali tocca la sorte meritata dagli empi con le loro opere, e vi sono empi ai quali tocca la sorte meritata dai giusti con le loro opere” (Ec 8:14, CEI). La dottrina religiosa della teoria retributiva è così concretamente smentita dalla Bibbia. Giobbe si dimostra consapevole dei limiti umani e intuisce che ci sono misteri che l’uomo non sa indagare: “Come può un uomo aver ragione innanzi a Dio? Se uno volesse disputare con lui, non gli risponderebbe una volta su mille” (Gb 9:2,3, CEI). Giobbe sa andare oltre la sofferenza attuale, che non comprende: “Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, e i miei occhi lo contempleranno”. – Gb 19:25,26, CEI.
Le spiegazioni dei tre presunti amici di Giobbe, così religiose da somigliare a certe vuote prediche domenicali, sono respinte da Dio: “Il Signore disse a Elifaz di Teman: ‘La mia ira è accesa contro di te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe”. – Gb 42:7.
Un altro interlocutore entra in scena: il giovane Eliu, che tenta una nuova spiegazione: Dio dà “degli ammonimenti, per distogliere l’uomo dal suo modo di agire e tenere lontano da lui la superbia; per salvargli l’anima dalla fossa . . . L’uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall’agitazione incessante delle sue ossa” (Gb 33:16-19). Sebbene Eliu non sia arrogante e sebbene la sua spiegazione contenga barlumi di verità, non è ancora la risposta che spiega la sofferenza e il male. Paolo esprimerà un’idea simile a quella di Eliu: “Ci gloriamo anche nelle afflizioni, sapendo che l’afflizione produce pazienza, la pazienza esperienza, e l’esperienza speranza” (Rm 5:3,4). Questa è indubbiamente una verità, ma rimane il problema di capire se la sofferenza è stata voluta da Dio per educarci oppure se, una volta che ormai è entrata nel mondo, è recuperata nel suo ruolo utile.
Possiamo davvero dire che Dio avrebbe concepito la sofferenza per migliorarci? No, perché – se così fosse – la sofferenza dovrebbe essere riservata, in tal caso, solo ai malvagi. Nel caso di Giobbe, poi, sarebbe stata davvero inutile perché lui non era colpevole di nulla. E che dire di Yeshùa, che “non commise peccato” (1Pt 2:.22)? Yeshùa non solo la subì innocentemente, ma cercò di alleviarla guarendo i malati. Se la sofferenza fosse uno strumento di santificazione, non l’avrebbe combattuta ma raccomandata. No, sebbene la spiegazione di Eliu contenga una verità sull’utilità della sofferenza come mezzo correttivo, essa non dà una risposta esauriente al problema del male. Tentare di giustificare la presenza del male come precisa volontà correttiva di Dio non convince. Il semplice buon senso respinge l’idea che Dio possa usare terribili malattie, catastrofi e morte per disciplinare i suoi figli, “poiché con i mali Dio non può essere provato né egli stesso prova alcuno”. – Gc 1:13, TNM.
Nella vicenda di Giobbe, alla fine, Dio stesso si esprime. Rimarremmo, però, delusi se ci aspettassimo che egli spieghi che tutto il dramma è accaduto per una macchinazione satanica che ha consentito. Nel suo primo intervento, Dio descrive come le meraviglie della sua creazione siano insondabili, mostrando a Giobbe che nulla sa della complessità della vita e che ciò è oltre la sua capacità di comprendere. “C’è ancora qualcuno che vuole fare discussioni con me, l’Onnipotente? Chi vuole mettersi contro di me, mi risponda”. – Gb 40:2, PdS.
Giobbe accusa il colpo: “Io non sono niente, non posso risponderti, anzi, mi tappo da bocca” (Gb 40:4, PdS). Giobbe rimane senza parole, ma poi vacilla quando Dio gli descrive due mostri che sono espressione del male: Beemot (Gb 40:15, TNM) e Leviatan (Gb 41:1, TNM). Dio li ha creati, ma ha potere su di loro. Giobbe si arrende: “Io so che puoi tutto. Niente ti è impossibile . . . È vero, ho parlato di cose che non capivo, di cose al di sopra di me, che non conoscevo . . . Quindi ritiro le mie accuse e mi pento, mi cospargo di polvere e di cenere per la vergogna”. – Gb 42:2-6, PdS.
La realtà della dolorosa presenza del male, evocata dai mostri Beemot e Leviatan, non scompare, ma è confinata nella misteriosa e impenetrabile grandezza di Dio. La Legge di Dio determina il bene e il male nella misura in cui è osservata o trasgredita (Dt 30:15-20). La trasgressione, la disubbidienza alla Legge di Dio, crea disordine; lo creò da subito, dopo la disubbidienza della prima coppia umana, sconvolgendo l’intera terra.