Dio ha un nome? Molte persone semplici risponderebbero: Sì, si chiama Dio. Altre persone, associate a qualche confessione religiosa, sarebbero un po’ più specifiche e risponderebbero: Dio si chiama Eterno. Così, infatti, è per lo più scritto nelle traduzioni della Bibbia che usano. Altri – che hanno seguito forse qualche corso biblico e che hanno un po’ di cultura – risponderebbero: Dio si chiama Javèh. C’è poi qualche presunto saputo che addirittura pronuncia Javèh con j francese. Qualcuno più preciso potrebbe correggere in “Yahvèh”. Ma se la stessa domanda viene posta ad un Testimone di Geova, non avrà dubbi e risponderà sicuro: Il nome di Dio è Geova.
Per i Testimoni di Geova, infatti, il nome di Dio è un cavallo di battaglia. Ne fanno una questione primaria e ne parlano più di chiunque altro. Nel nostro esame biblico sul nome divino sarà quindi utile esaminare le loro argomentazioni e confrontarle con la Scrittura. In questa serie di studi useremo perciò esclusivamente la versione biblica della Watchtower, la società editrice dei Testimoni di Geova. L’uso di altre versioni sarà invece segnalato.
Il loro opuscolo intitolato Il nome divino che durerà per sempre (Watchtower, New York, 1984) inizia a pag. 3 con questa domanda posta come titolo: “‘Sia santificato il tuo nome’: Quale nome?”.
Per avere la risposta giusta, si sa, occorre porre la domanda giusta. Si noti che la domanda dell’opuscolo dà già per scontato che Dio abbia un nome. Infatti, si domanda quale sia. Il ragionamento addotto è semplice: “Tutti gli esseri umani hanno un nome. Molti danno un nome perfino ai loro animali domestici. Non è ragionevole che anche Dio abbia un nome?” (Svegliatevi! del 22 gennaio 2004, pag. 3). A prima vista la dichiarazione appare ragionevole. Una persona semplice potrebbe anche essere d’accordo, non riflettendo sul fatto che nella dichiarazione si parla di nomi che gli uomini si danno e che danno anche agli animali. Ma cosa c’entra Dio con gli uomini e con gli animali? Chi vuole farsi guidare dalla Scrittura, anziché leggere la Scrittura con il proprio bagaglio di mentalità occidentale, deve sempre porsi la domanda giusta. In questo caso – riprendendo la domanda posta dall’opuscolo – quella giusta è: “Sia santificato il tuo nome”: Cosa significa? Non va mai dimenticato – ma proprio mai – che Dio ispirò gli scritti della Bibbia a uomini ebrei che scrissero per ebrei in ebraico con il loro modo di pensare ebraico. I lettori ebrei della Bibbia capivano perfettamente il linguaggio biblico. Il loro era un ambiente semita e mediorientale, perciò noi faremmo davvero un grande errore a leggere la Scrittura, a distanza di 2-3000 anni, interpretandola con il nostro moderno modo di pensare occidentale.
Se vogliamo davvero conoscere e capire, la prima domanda da porci è: Cosa significava il nome presso gli ebrei?
Il valore del nome nella Bibbia
Nel linguaggio semitico (che è quello della Bibbia) il nome indica la realtà della persona, l’essere costitutivo, la sua essenza: “Come è il suo nome, così è lui”. – 1Sam 25:25.
Questo concetto è espresso anche dalla nota frase proverbiale “nomen omen” che potrebbe essere tradotta “il nome è un presagio”, “un nome, un destino”, “il destino è nel nome”, “di nome e di fatto”. Anche gli antichi romani credevano che nel nome della persona fosse indicato il suo destino.
In Is 30:27 (“Ecco, il nome di Geova viene da lontano, ardente con la sua ira e con gravi nubi”) non si allude a chissà quale etimologia del Nome, fatta risalire a tempi lontani, ma alla persona stessa di Dio. Il nome è la realtà di ciò che il nome evoca, si tratti di Dio, di una persona o di una cosa. Questo è il linguaggio della Bibbia.
Invocare il nome, è invocare la persona: “Tu stesso sei in mezzo a noi, o Geova, e su di noi è stato invocato il tuo proprio nome” (Ger 14:9). Nella traduzione di questo passo viene perso il parallelismo, così caro agli ebrei, che il testo biblico ha. Ecco l’originale, in cui evidenziamo il primo parallelo e il secondo:
בקרבנו יהוה ושמך עלינו נקרא ואתה
veatàh veqirbènu yhvh veshimchà alènu niqrà
e tu tra di noi Yhvh e nome di te su noi è invocato
Il passo, messo in bell’italiano, suona: “E tu sei tra di noi, Yhvh; e il tuo nome su di noi è invocato”.
Qui si ha quello che nello stile di composizione è chiamato un chiasmo (dalla lettera greca χ – chi – in cui la prima parte della frase in alto si collega alla seconda parte della frase in basso e la seconda parte della frase in alto si collega alla prima parte della frase in basso). Non si dimentichi che il brano di Geremia è scritto in poesia. Qui il chiasmo è perfetto. Nel secondo dei due paralleli, che iniziano tutti e due con la congiunzione “e”, le parole seguono un ordine inverso rispetto al primo. Lo si noti nello schema:
Oltre al chiasmo qui si ha anche una tipica figura ebraica di composizione: la frase del primo parallelo (“Tu sei tra di noi, Yhvh”) è ripetuta con parole diverse nella frase del secondo parallelo (“Il tuo nome su di noi è invocato”). Nel primo parallelo si ha perciò l’identificazione “tu”-“Yhvh”, che nel secondo parallelo assume il sinonimo di “il tuo nome”. In pratica, “il tuo nome” significa “tu”-“Yhvh”. Il nome è la persona stessa.
Questo concetto ebraico è presente in tutta la Scrittura. Noi (concetto occidentale) diciamo che una persona ha un nome; l’ebreo (concetto biblico) dice che la persona è il suo nome.
Nella Scrittura il nome indica la natura stessa della persona. La Bibbia dice che “Adamo mise a sua moglie il nome di Eva, perché doveva divenire la madre di tutti i viventi” (Gn 3:20). Il nome ebraico חוה (Khavàh), da cui il nostro “Eva”, significa “vivente”. Già dal primo nome che sia mai stato assegnato da un essere umano ad un altro essere umano si apprende il valore che il nome assume nella Bibbia. “Questa sarà chiamata Donna [אשה (ishàh); “uomo-femmina”; come dire “uoma”, se ci si passa il termine], perché dall’uomo [איש (ish)] questa è stata tratta” (Gn 2:23). Dio cambia il nome ad Abramo: “Il tuo nome dovrà divenire Abraamo [אברהם (avrahàm), “padre di popoli”], perché di sicuro ti farò padre di una folla di nazioni” (Gn 17:5). Il nome indica quindi la natura e il destino di vita della persona. Ad Abraamo Dio dice: “In quanto a Sarai tua moglie, non la devi chiamare col nome di Sarai, perché il suo nome è Sara [שרה (Saràh); “signora”, “principessa”]. E certamente la benedirò”. – Gn 17:15,16.
Così è in tutta la Bibbia, anche nelle Scritture Greche. Un angelo dice a Giuseppe (lo sposo della madre del Messia) circa il figlio che lei avrà: “Tu gli dovrai mettere nome Gesù, poiché egli salverà il suo popolo dai loro peccati” (Mt 1:21). Si noti qui non solo l’imposizione del nome, ma la ragione per cui tale nome è imposto: “Poiché egli salverà il suo popolo”. Ma non poteva chiamarsi Beniamino o Amos o Simone e salvare lo stesso il popolo? Per la mentalità occidentale ciò sarebbe stato indifferente. Per la mentalità biblica, no. Perché nel nome c’è il destino della persona. Il nome imposto al Messia doveva essere proprio יהושע (Yehoshùa), che significa “Yah salva”. Questo nome sarebbe stato il programma di vita del Messia: attraverso di lui Dio avrebbe recato la salvezza. Nel testo greco il nome Yehoshùa è tradotto con Ỉησοῦς (Iesùs), già usato dalla LXX greca per tradurre il nome ebraico “Yehoshùa”, Giosuè, il successore di Mosè.
Nella Scrittura, quindi, il nome rappresenta l’autentica personalità della persona e, in certo senso, il suo destino o programma di vita.
La conoscenza del nome come potere
Presso gli ebrei (e, quindi, nella Bibbia) c’era l’idea che conoscendo il nome di qualcuno si poteva esercitare un certo potere su di lui. Ciò appare da subito. Dopo che il primo uomo fu creato, Dio gli fece passare in rassegna tutte le bestie: “Le conduceva all’uomo per vedere come avrebbe chiamato ciascuna; e in qualunque modo l’uomo la chiamasse -ciascun’anima vivente – quello era il suo nome. L’uomo dava dunque i nomi a tutti gli animali domestici e alle creature volatili dei cieli e a ogni bestia selvaggia del campo” (Gn 2:19,20). In questo modo Adamo poneva la sua autorità sugli animali, conformemente al piano divino: “Tenete sottoposti i pesci del mare e le creature volatili dei cieli e ogni creatura vivente che si muove sopra la terra”. – Gn 1:28.
Questo concetto risulta chiaro in Is 43:1, dove Dio dice ad Israele: “Non aver timore, poiché io ti ho ricomprato. [Ti] ho chiamato per nome. Sei mio”. Si noti il parallelismo: “[Ti] ho chiamato per nome” = “sei mio”.
Israele, orgogliosa della sua appartenenza a Dio, dice: “Ascoltatemi, o isole, e prestate attenzione, gruppi nazionali lontani. Geova [Yhvh] stesso mi ha chiamato fin dal ventre. Dalle parti interiori di mia madre ha menzionato il mio nome”. – Is 49:1.
Proprio perché c’era l’idea che conoscendo il nome di una persona si poteva in certo qual modo padroneggiarla, gli esseri spirituali nascondono il proprio nome. All’angelo che ha lottato con Giacobbe, costui chiede: “Dichiarami, ti prego, il tuo nome”. L’angelo capisce, e controbatte: “Perché domandi il mio nome?”. E non glielo rivela, limitandosi a benedirlo: “E lì lo benedisse” (Gn 32:29). La donna di Gdc 13:6, che ha ricevuto la visita di un angelo, dice poi che l’angelo non le “ha dichiarato il suo nome”. Quando Manoa domanda il nome di un angelo, questi gli risponde: “Perché devi chiedere del mio nome, quando esso è meraviglioso?” (Gdc 13:18); più che “meraviglioso”, la Bibbia dice פלאי (fèliy): “misterioso”. Per i soli due casi in tutta la Bibbia in cui si conosce il nome di un angelo, si veda l’appendice alla fine di questo studio.
Se degli angeli reagirono così riguardo al proprio nome, come doveva – a maggior ragione – reagire Dio quando Mosè gli domandò il suo nome? Prendendola molto alla larga Mosè disse: “Supponiamo che ora io sia andato dai figli d’Israele e realmente dica loro: ‘L’Iddio dei vostri antenati mi ha mandato a voi’, ed essi realmente mi dicano: ‘Qual è il suo nome?’ Che dirò loro?”. – Es 3:13.
Il momento è cruciale.
Appendice
I due soli angeli chiamati per nome
In tutta la Bibbia solo due angeli sono menzionati per nome.
L’angelo Gabriele apparve a Daniele (Dn 8:15-17;9:20-23), a Zaccaria (Lc 1:11-20) e a Miryàm (Lc 1:26,27). Si tratta di uno dei due soli angeli che dichiararono il loro nome. Il fatto è eccezionale. In Lc 1:19 Gabriele si identifica così: “Io sono Gabriele, che sto dinanzi a Dio”. Lo stare in piedi davanti a un’autorità denotava favore e riconoscimento ufficiale, dato che per entrare alla presenza di un re ci voleva un permesso (Pr 22:29; cfr. Lc 21:36). Si tratta quindi di una figura speciale. Gabriele, va chiarito, è un angelo, non un arcangelo (come erroneamente denominato dai cattolici): “L’angelo [greco ἄγγελος (ànghelos)] Gabriele”. – Lc 1:26, CEI, versione ufficiale della Chiesa Cattolica.
Speciale è anche la posizione di Michele, l’altro solo angelo di cui si sa il nome. Si tratta di un arcangelo (Gda 9). Nelle parole rivolte a Daniele, Michele è chiamato “il vostro principe”, “il gran principe che sta a favore dei figli del tuo popolo” (Dn 1013,20,21;12:1). Dato questo titolo, c’è motivo di pensare che Michele fosse l’angelo che guidò gli israeliti nel deserto (Es 23:20,21,23;32:34;33:2). Questa conclusione sembra confermata dal fatto che “l’arcangelo Michele ebbe una controversia col Diavolo e disputava intorno al corpo di Mosè”. — Gda 9.