Il tentativo di sostenere una dottrina biblicamente insostenibile accusando i copisti di manipolazione del testo biblico fu già tentata dai cattolici riguardo al cosiddetto “comma giovanneo”. Se oggi leggiamo 1Gv 5:7,8 in una Bibbia cattolica, troviamo: “Tre sono quelli che rendono testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono concordi” (CEI). Ma nella traduzione di Giovanni Diodati, del 1607, si legge: “Perciocchè tre son quelli che testimoniano nel cielo: il Padre, e la Parola, e lo Spirito Santo; e questi tre sono una stessa cosa”, passo chiaramente trinitario. Molti misero in discussione l’inserimento di questo passo nella Bibbia, adducendo che il passo mancava nella maggior parte dei manoscritti. Oggi questo passo è stato giustamente tolto da tutte le Bibbie moderne.

   Coloro che volevano mantenere a tutti i costi questo inserimento spurio nella Bibbia agirono come oggi fa la Watchtower con la forma non autentica del tetragramma, ma almeno agirono con qualche base. Essi sostennero l’ipotesi dell’eliminazione del comma giovanneo da parte di Luciano di Antiochia, maestro di Ario. Il comma giovanneo – fecero notare – era presente nella Vetus Latina (2°-3° secolo), nel De Catholicae Ecclesiae Unitate di Cipriano (250 R. V.) e nel Liber Apologeticus di Priscilliano (fine 4° secolo). Citazioni letterali del comma si trovano poi in Eugenio di Cartagine (484), in Fulgenzio di Ruspe (527), in Cassiodoro (583), in Isidoro di Siviglia (636) e in Giacomo di Edessa (700). Il comma giovanneo compare quindi in ben nove manoscritti successivi all’anno mille (catalogati con i numeri 61, 88, ω110, 221, 429, 629, 636, 918, 2318) ed è letteralmente citato nel IV Concilio Lateranense (1215). Nel Medioevo la cristianità inserì infine il comma giovanneo nella Poliglotta Complutense (anno 1514), nella Vulgata Clementina (anno 1592) e nelle varie versioni del Textus Receptus (1516-1551).

   Oggi sappiamo con certezza che il comma giovanneo era solo una nota esplicativa contenuta in alcuni manoscritti ed inglobata nel testo da qualche scriba sbadato, creativo o temerario. Il versetto manca, infatti, in tutti i codici più autorevoli (Sinaitico, Vaticano, Alessandrino), in tutte le copie più antiche della Vulgata latina (Codex Fuldensis e Codex Amiantinus), in tutte le versioni più famose (siriache, copte, Armena, Georgiana, Etiopica, Araba, Slava, Gotica) ed in quasi tutte le citazioni dei cosiddetti Padri della Chiesa. Il comma giovanneo non è poi citato da nessuno dei primi quattro Concili (Efeso nel 325, Costantinopoli nel 381, Efeso nel 431, Calcedonia nel 451), neppure nelle polemiche contro Ario. – Cfr. B. Metzger, A Textual Commentary on the Greek  New Testament, II° ed.,  pagg. 647-49.

   Di fatto, oggi, in tutte le Bibbie moderne, quell’inserimento spurio non si trova più.

   Ora si paragonino le due manovre:

■ Cattolici. Tentarono di sostenere che il comma giovanneo faceva parte delle Scritture Greche. Citarono molte prove

    a favore. Furono smentiti da prove più valide.

■ Watchtower. Tenta di sostenere che il tetragramma faceva parte delle Scritture Greche. Citano solo un’ipotesi molto

    Improbabile, sminuita poi dal suo stesso autore. Sono smentiti dalla mancanza del benché minimo brandello documentale.

   Nel 20° secolo i progressi delle scienze bibliche e la crescente apertura della Chiesa Cattolica alle esigenze della ricerca e dell’esegesi bibliche hanno portato a tutto un fiorire di nuove traduzioni dai testi originali. Fu inevitabile la riscoperta del tetragramma.

   La Watchtower, che era stata fondata alla fine del 19° secolo dall’americano C. T. Russell, ha ipotizzato la presenza del tetragramma nelle Scritture Greche, soprattutto nella primitiva presunta redazione aramaica del Vangelo di Matteo (mai ritrovata). Il valore scientifico di tale ipotesi è stato però ridotto sensibilmente dalle pesanti accuse, rivolte a tutta l’antica comunità dei discepoli di Yeshùa, di aver dolosamente eliminato il tetragramma da tutti i manoscritti, da tutti i papiri e da tutti i codici delle Scritture Greche. In verità, tali accuse non sono nuove e pare che risalgano addirittura ai masoreti della scuola di Ben Asher ed al filosofo ebreo Mosé Maimonide (1135-1204). Si tratta di alcune ipotesi, deduzioni ed induzioni che hanno permesso di costruire, nell’arco dei secoli, un vero e proprio teorema. I ragionamenti sono avvincenti e ben collegati, tanto che sembra che perfino I. Newton abbia prestato fede a tali illazioni . – Cfr. Keynes, L’uomo Newton, Bologna, 1978, pagg. 241-252.

   La fragilità dei postulati di base è però facilmente riconoscibile, soprattutto se si considera che:

► Il tetragramma non compare in neppure una delle oltre 5000 copie manoscritte delle Scritture Greche;

► Il tetragramma non compare neppure una volta nei codici più antichi: Chester Betty (P45,46,47), ed autorevoli:

     Sinaitico (א), Alessandrino (A), Vaticano (B);

► In base alle dichiarazioni di Girolamo, di Origène ed altri, si sa solo che fino al 4° secolo E. V. il tetragramma era

     ancora presente in uno sporadico numero di copie della versione greca dei Settanta delle Scritture Ebraiche;

► Non si dispone di una sola testimonianza di autori, padri apostolici, padri della chiesa e scrittori ecclesiastici

     attestante la presenza del tetragramma in qualche copia delle Scritture Greche; alcuni scritti del 1°-2° secolo E. V.

     (come A Diogeneto, la Didaché, la lettera di Clemente Romano ai Corinzi, l’Epistola di Barnaba, il Pastore d’Erma,

     i frammenti di Papia di Gerapoli, le lettere di Ignazio di Antiochia, gli scritti di Policarpo di Smirne) non contengono

     il tetragramma né per le citazioni tratte dalle Scritture Greche né per i versetti richiamati dalle Scritture Ebraiche;

► L’eventualità, peraltro finora non dimostrata, della presenza del tetragramma nella versione aramaica del Vangelo di

     Matteo (mai ritrovata), limitatamente alle citazioni tratte dalle Scritture Ebraiche, non proverebbe:

        1) né che il tetragramma fosse presente nelle altre Scritture che possediamo in greco,

        2) né che sia stato volutamente sradicato (con un lavoro tanto ciclopico quanto improbabile) da tutti i manoscritti,

            da tutti i papiri e da tutti i codici delle Scritture Greche,

        3) né che siano realmente esistite schiere di scribi infedeli, diabolicamente decisi a cancellare ogni traccia del

            tetragramma (e, poi, perché mai?);

► La pratica di occultare il tetragramma (occultare, non togliere) appartiene  all’ebraismo. A tal proposito si pensi:

        1) alla costante sostituzione del tetragramma nella lettura con il nome Adonay;

        2) alla distruzione di tutte le copie della Scrittura non conformi al testo ufficiale da parte dei masoreti dopo l’anno

             mille;

        3) alla distruzione delle scritture “cristiane” da parte degli ebrei narrata nel Talmùd (il Talmùd chiama i libri dei

            discepoli di Yeshùa Minim Aven Gilaion, cioè “libri eretici iniqui”; tutti gli studiosi del Talmùd erano d’accordo

            sul fatto che i libri che avevano a che fare con Yeshùa dovevano essere distrutti. – Cfr. Talmùd, Moed,

            Schabbath,  cap.116;

        4) alla eliminazione dei “nomi di Dio” (come Padre, Cielo, Re, Alto, Potenza e simili) dagli scritti cristiani (nello

            Schabàth sta scritto: “Rabbi Jose dice: ‘Nei giorni di festa i nomi della Divinità dovranno essere strappati dai

            libri dei cristiani e nascosti; ciò che rimane dovrà essere dato alle fiamme.’ Ma il rabbino Tarphon dice: ‘Se quei

            libri dovessero mai cadere nelle mie mani, io li brucerei assieme con i nomi della Divinità che contengono.’”

            – Moed, Schabbath,  cap.116);

        5) l’eliminazione dei nomi divini dagli scritti “cristiani” riportata dal Talmùd non prova la presenza del

            tetragramma. Il Talmùd parla, infatti, di “nomi della Divinità” (sono i nomi usati dai giudei e da Yeshùa per

            riferirsi a Dio senza nominarlo) e non di “tetragramma”.

   È pertanto ragionevole pensare che in quasi tutte le versioni greche della Bibbia dei Settanta, da cui gli scrittori delle Scritture Greche hanno tratto le loro citazioni, il tetragramma non fosse presente. In rari casi lo era – ma riportato in caratteri paloebraici. Del resto, se si ammettesse anche solo per assurdo l’ipotesi di una massiccia falsificazione del testo biblico da parte dei copisti “cristiani”, tutta la parte della Bibbia scritta in greco (Scritture Greche) diventerebbe inattendibile e si potrebbe concludere che né la congregazione di Yeshùa né Dio stesso hanno esercitato alcuna forma di protezione per salvaguardare l’integrità delle Sacre Scritture. Il che va decisamente respinto. È quindi decisamente meglio che la Watchtower smetta di usare questo argomento.

 

Appendice


Il presunto Vangelo aramaico di Matteo

 

   Il Vangelo aramaico di Matteo – finora mai ritrovato – è un teorema fondato su indizi ragionevoli.

   Sulla primitiva redazione aramaica del Vangelo di Matteo esistono testimonianze autorevoli. Secondo Origène “Matteo pubblicò il suo scritto in lingua ebraica per i credenti venuti dal giudaismo” (Eusebio, Storia Ecclesiastica, VI, 25). Ireneo poi afferma che “Matteo, fra gli ebrei nella loro lingua, compose un vangelo scritto, mentre Pietro e Paolo evangelizzavano Roma e fondavano la chiesa” (Ireneo, Contro le eresie, III). Papiadi Gerapoli sostiene che “Matteo ordinò i detti del Signore in lingua ebraica” (Eusebio, Storia Ecclesiastica, III, 24).  Secondo Eusebio di Cesarea, Matteo, dopo aver predicato la buona notizia agli ebrei, compose nella lingua madre il proprio Vangelo prima di andare a predicare presso altri popoli (Eusebio, Storia Ecclesiastica, III, 24). Eusebio di Cesarea riporta anche la testimonianza del filosofo stoico Panteno che, convertitosi con grande entusiasmo alla fede in Yeshùa, decise di recarsi in India a predicare il Vangelo. Scoprì che il Vangelo di Matteo lo aveva preceduto, grazie all’opera dell’apostolo Bartolomeo che aveva lasciato là l’opera di Matteo scritta in ebraico (Eusebio, Storia Ecclesiastica, V, 10). Degna di nota è anche la testimonianza di Girolamo, secondo il quale “Matteo, detto anche Levi, da pubblicano fattosi apostolo, fu il primo in Giudea a scrivere il vangelo di Cristo nella lingua degli ebrei per quelli che si erano convertiti provenendo dal giudaismo . . . lo stesso originale si trova tuttora nella biblioteca di Cesarea . . . I nazarei che fanno uso di quel libro …. permisero anche a me di ricopiarlo”. – Girolamo, Gli uomini illustri, III.

   Va detto che la moderna critica testuale ha comunque avanzato non pochi dubbi sull’esistenza di un Vangelo di Matteo in lingua aramaica: secondo molti Girolamo non ebbe modo di consultare il vero originale ma il cosiddetto Vangelo apocrifo degli ebrei, documento custodito dalla setta giudaico-cristiana degli ebioniti. Epifanio di Salamina distingue però chiaramente tra gli ebioniti apostati e filo-giudaici ed i nazareni cattolici (Contro tutte le eresie, XXIX-XXX). Giustino martire parla poi sia di una setta giudaico-cristiana, osservante la legge di Mosé ma ancora ortodossa e tollerante nei confronti dei gentili, sia di una setta deviante fedelissima alla legge di Mosé ma caduta nell’apostasia e nell’intolleranza verso i gentili (Dialogo con Trifone, XLVII). Della comunità degli ebioniti parlano poi diffusamente sia Ireneo (Contro le eresie, I, 26) sia Eusebio (Storia Ecclesiastica III, 27), ricordando come tale setta fosse molto ligia alle usanze ed alle leggi giudaiche e riconoscesse come ispirato solo il Vangelo di Matteo, rigettando in blocco tutti gli insegnamenti e le lettere di Paolo. Sempre secondo Ireneo la comunità degli ebioniti rifiutava anche la nascita verginale di Cristo, non considerando Gesù figlio di Dio ma figlio di Giuseppe (Contro le eresie, III, 21). Per un’analisi critica dell’argomento consigliamo, comunque, di vedere J. Lagrange, Revue Biblique, 1922, pagg.161-181 e pagg. 327-349.