Noi oggi non abbiamo la concezione che i semiti attribuivano al nome, perciò spesso non afferriamo bene il valore preciso di certe espressioni bibliche. Per noi occidentali il nome serve solo a identificare una persona presso l’anagrafe civile, ma per gli ebrei e per la Bibbia era qualcosa di ben più importante. Il nome per gli ebrei presentava l’essenza stessa della persona, la sua natura, la sua forza, la sua attività.
Per la Bibbia, chi non ha un nome non esiste. Questo concetto ripreso dalla Scrittura era presente presso i popoli semiti. È interessante al riguardo fare un confronto tra il secondo racconto biblico della creazione e le relazioni sumere antiche. Mentre la Bibbia dice: “Non c’era ancora sulla terra alcun arbusto della campagna. Nessuna erba della campagna era ancora spuntata” (Gn 2:5), gli antichi testi sumeri dicono la stessa cosa affermando che animali e piante non erano ancora “stati nominati”. Dio dal primo capitolo di Genesi fa venire all’esistenza il creato pronunciando il nome dei suoi molteplici elementi: “Dio disse: ‘Sia luce!’ E luce fu” (1:3); “Poi Dio disse: ‘Vi sia […]’” (v. 6); e così via. Anche Giobbe, per indicare la massima abiezione della plebaglia afferma: “Gente da nulla, razza senza nome [vale a dire inesistente], cacciata via dal paese a bastonate” (Gb 30:8). La punizione divina degli empi è espressa dicendo che il loro nome (vale a dire la loro discendenza) che conserva il nome paterno sarà eliminato: “Tu hai rimproverato le nazioni, hai fatto perire l’empio, hai cancellato il loro nome per sempre” (Sl 9:5). I giusti però sussisteranno per sempre, avranno la vita da Dio: “Chi vince sarà dunque vestito di vesti bianche, e io non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma confesserò il suo nome davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli”. – Ap 3:5.
Per la Bibbia, conoscere il nome di qualcuno è conoscerne la natura, è avere un certo dominio su di lui partecipando alla sua potenza. In Mesopotamia e in Egitto (terre pagane) il nome era strettamente associato all’esercizio della magia: conoscere il nome di Dio era disporre in qualche modo della sua potenza divina. Per questo motivo (per non dare adito a pratiche magiche vietate dalla Scrittura) presso Israele gli esseri soprannaturali hanno una certa riluttanza a comunicare il loro nome quando non è necessario: “La donna andò a dire a suo marito: ‘Un uomo di Dio è venuto da me; aveva l’aspetto di un angelo di Dio: un aspetto davvero tremendo. Io non gli ho domandato da dove veniva, ed egli non mi ha detto il suo nome’” (Gdc 13:6). Nel famoso passo di Es in cui Mosè domanda il nome a colui che gli parla dal roveto ardente, questi anziché rivelargli il nome rifiuta dapprima di manifestarglielo. Il passo non va inteso nel senso di ‘Io sono colui che è’, ma nel senso di “Io sono chi sono” ovvero: Non ti deve interessare il mio nome, io sono chi sono. La TNM traduce: “IO MOSTRERÒ D’ESSERE CIÒ CHE MOSTRERÒ D’ESSERE” (Es 3:14, il maiuscoletto è loro), e la nota in calce recita tra l’altro: “Qui non si fa riferimento all’autoesistenza di Dio, ma a ciò che egli ha in mente di divenire nei confronti di altri”. È senz’altro molto rincuorante immaginare che Dio dica che sarà o diverrà quello di cui abbiamo bisogno (Hai bisogno di un padre? Sarò padre. Hai bisogno di un amico? Sarò amico. E così via). Tuttavia, pur mostrando all’uomo amore infinito, Dio rimane Dio, e la spiegazione indicata da TNM non è biblica. Non è Dio che deve diventare ciò che noi vorremmo, ma siamo noi che dobbiamo diventare come Dio vuole che siamo. Inoltre, nel testo il soggetto e l’argomento è il nome di Dio, non il suo modo di agire. Infine, non è affatto vero che la risposta di Dio a Mosè sia “l’espressione con cui Dio chiama se stesso” (nota in calce di TNM a Es 3:14). La risposta di Dio a Mosè è quello che è: la risposta di Dio alla domanda precisa di Mosè. Come dire: ‘Perché mi domandi il nome? Io sono chi sono’. O, per essere più chiari: ‘Perché mi domandi il nome? Che t’interessa? Io sono chi sono! Tu va dal faraone e parlagli a mio nome’. Che questa sia l’interpretazione giusta è evidente dal fatto che poi il nome viene cambiato: a Mosè Dio dice “Io sono quel che sono”, ma al faraone Mosè dovrà dire: “Colui che è quel che è” (יהוה, YHVH). Ora i nomi rimangono tali quali sono e non si modificano dalla prima alla terza persona. Si rammenti che nell’ambiente egiziano in cui Mosè avrebbe dovuto parlare, conoscere il nome divino era come possedere una potenza magica. Perciò proprio il faraone (che avrebbe chiesto il nome di Dio a tale scopo) non lo doveva sapere. Anche Yeshùa, che avrà la potenza di Dio per portare l’universo sotto la sovranità di Dio, ha un nome particolare che nessuno può conoscere:
“Vidi il cielo aperto, ed ecco un cavallo bianco;
colui che lo cavalcava si chiamava Fedele e Verace:
egli giudica e combatte con giustizia.
I suoi occhi sono come una fiamma di fuoco, ha sul suo capo molti diademi;
porta scritto un nome che nessuno conosce all’infuori di lui”. – Ap 19:11,12.
Nella Bibbia il nome agisce come se avesse una forza propria, può stare a sé come sinonimo della persona. Geremia, ripetendo due volte (secondo il parallelismo poetico) lo stesso concetto, parla prima di Dio e poi del suo nome: “Tu stesso sei in mezzo a noi, o Geova [Yhvh nel testo ebraico], e su di noi è stato invocato il tuo proprio nome” (Ger 14:9, TNM). Chi conosce il “nome” di Dio, ovvero Dio stesso, deve avere fiducia in lui poiché Dio non lo può abbandonare: “Confidino in te quanti conoscono il tuo nome, perché non abbandoni chi ti cerca, Signore”. – Sl 9:11, TNM.
In Israele il culto del nome di Dio è andato via via sempre più sviluppandosi, sia presso il rabbinismo che presso la prima congregazione dei discepoli di Yeshùa. Il nome diviene una specie di ipostasi (la sostanza che sta sotto i fenomeni), analogo allo spirito santo di Dio e alla sapienza di Dio. Israele conosce il nome di Dio e lo porta, a benedizione e a protezione: “Lo salverò, perché a me si è affidato; lo esalterò, perché ha conosciuto il mio nome” (Sl 90:14). Israele celebra la gloria del nome di Dio nel Tempio: “Alzatevi e benedite il Signore vostro Dio ora e sempre! Si benedica il tuo nome glorioso che è esaltato al di sopra di ogni benedizione e di ogni lode!” (Nee 9:5). Israele deve manifestare questo nome ai pagani che ancora lo ignorano: “Riversa il tuo sdegno sui popoli che non ti riconoscono e sui regni che non invocano il tuo nome” (Sl 78:6); “Copri di vergogna i loro volti perché cerchino il tuo nome, Signore” (Sl 82:17); “I popoli temeranno il nome del Signore e tutti i re della terra la tua gloria” (Sl 101:16); “Lodate il Signore e invocate il suo nome, proclamate tra i popoli le sue opere” (Sl 104:1). Il libro di Malachia sviluppa questi temi: “Se non mi ascolterete e non vi prenderete a cuore di dar gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su di voi la maledizione e cambierò in maledizione le vostre benedizioni. Anzi le ho già maledette, perché nessuno tra di voi se la prende a cuore” (2:2): “Allora parlarono tra di loro i timorati di Dio. Il Signore porse l’orecchio e li ascoltò: un libro di memorie fu scritto davanti a lui per coloro che lo temono e che onorano il suo nome […] Per voi invece, cultori del mio nome, sorgerà il sole di giustizia con raggi benefici (3:16,20). Ancora oggi i rabbini e gli ebrei devoti al posto di “Dio” dicono “Il Nome” (השם, hashèm).
Nella cultura biblica pronunciare il nome di una persona significa acquistarne la protezione. Perché la benedizione sacerdotale avesse effetto, doveva esserlo nel nome di Dio, altrimenti sarebbe stata nulla. Il sacerdote non aveva alcun potere, è Dio che benedice (dona cioè del bene). Pronunciando del bene (dire del bene, benedire) esso si compie in virtù della potenza del nome divino:
“Ti benedica il Signore
e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te
e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto
e ti conceda pace. Così porranno il mio nome sugli Israeliti
e io li benedirò”. – Nm 6:24-27.
Il salmista afferma: “Il nostro aiuto è nel nome del Signore” (Sl 127:8). Quando la mortalità infuria per l’ira divina, non si osa neppure pronunciare il nome divino: “Quegli dirà: ‘Zitto!’: non si deve menzionare il nome del Signore”. – Am 6:10.
Anche gli apostoli quando cacciano i demòni e guariscono le malattie, lo fanno nel nome di Yeshùa (At 3:6). Yeshùa, in virtù della sua ubbidienza, ha ricevuto “il nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Flp 2:9), come dire: Yeshùa è stato esaltato al di sopra di tutte le creature. È per questo che egli ha una potenza che si estende a tutto l’universo, descritto nelle sue tre parti cosmiche: uomini (terra), angeli (cielo), demòni e morti (sottoterra). Tutti quindi si prostrano davanti a lui in segno di omaggio:
“Nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
e ogni lingua proclami che
Gesù Cristo è il Signore,
a gloria di Dio Padre”. – Flp 2:10,11.
Ecco il nome potente che gli dà tutta l’autorità che Dio stesso gli delega: con la resurrezione egli è divenuto Signore:
“Un nome porta scritto sul mantello e sul femore:
Re dei re e Signore dei signori”. – Ap 19:16.
Yeshùa è, dopo Dio, il più alto in grado: è re dei re.
Nella Bibbia il nome è anche segno di appartenenza a qualcuno. Avere il nome da qualcuno è essere a lui sottoposto, appartenergli. Uno appartiene a chi gli impone il nome. Chi conquista una città sente pronunciare il suo nome dagli abitanti, che perciò appartengono a lui. Ioab, prima di espugnare una città, manda a dire a Davide: “Raduna il resto del popolo, accàmpati contro la città e prendila, altrimenti se la prendo io, porterebbe il mio nome” (2Sam 12:28). Per indicare il dominio assoluto del sovrano sopra il re di Giuda vinto, il faraone Necao gli cambia il nome in Ioiakìm: “Il faraone Necao nominò re Eliakìm figlio di Giosia, al posto di Giosia suo padre, cambiandogli il nome in Ioiakìm” (2Re 23:34). La gente pagana e straniera nel tempo messianico sarà aggregata alla fede giudaica mediante il nome: “Questi dirà: Io appartengo al Signore, quegli si chiamerà Giacobbe; altri scriverà sulla mano: Del Signore, e verrà designato con il nome di Israele” (Is 44:5). Anche il discepolo di Yeshùa porta un nome nuovo: Pietro spiega che sebbene i non credenti chiamino i discepoli con l’appellativo denigratorio di “cristiano”, tuttavia dietro questo appellativo c’è il nome del cristo o consacrato di Dio: “Se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome” (1Pt 4:16). Il discepolo non appartiene più a sé, ma al Cristo; non intende più seguire la propria volontà, ma quella del Cristo.
Presso gli ebrei il nome era imposto a un bimbo durante la sua circoncisione, per cui anche Yeshùa fu allora chiamato con il nome impostogli da Dio. Il nome di Yeshùa indicava la sua natura: essere cioè lo strumento scelto da Dio per salvare l’umanità. Yeshùa indica appunto che “Yah salva” ovvero “Dio salva”. Il suo nome imposto, essendo stato dato da Dio mediante un angelo, significava che Yeshùa non apparteneva a se stesso, ma a Dio. È per questo che il suo “cibo” era quello di compiere la volontà di Dio (Gv 4:34). Essendo il suo nome un nome divino di salvezza, aveva una potenza straordinaria che si sarebbe palesata in modo particolare dopo la sua resurrezione e la sua gloriosa assunzione al cielo, dove ora siede alla destra di Dio.
Alla luce del profondo significato che i nomi hanno nella Scrittura, si vede quanto poco e male i Testimoni di Geova abbiano compreso della Bibbia, insistendo sulla conoscenza del nome di Dio intesa letteralmente e in maniera occidentale, anagrafica, cosa lontanissima e del tutto estranea alla Scrittura.