Qual è la dottrina dei Salmi? Il contenuto dei Salmi è vario, per cui la loro dottrina va ricercata in frasi staccate, tolte qua e là, dato che vi manca una trattazione sistematica.

   Dio. Dio va identificato con l’Altissimo (eleyòn, עֶלְיֹון) e con l’Onnipotente (shadày, שַׁדַּי). Egli giudica tutte le divinità nel divino concilio degli dèi (elohìm, אֱלֹהִים).

 

“Chi abita al riparo dell’Altissimo [עֶלְיֹון (eleyòn)]

riposa all’ombra dell’Onnipotente [שַׁדַּי (shadày)]”. – Sl 91:1.

 

“Dio sta nell’assemblea divina;

egli giudica in mezzo agli dèi [אֱלֹהִים (elohìm)]”. – Sl 82:1.

 

   Non è come il dio el di Ugarit o il dio mlk della stele di Beisan: il Dio di Israele non invecchia e, non avendo differenziazione sessuale, non ha bisogno di una dea.

   I re sono spaventati quando Dio parla loro nella sua furia: “Egli parla loro con ira, li spaventa nel suo sdegno” (Sl 2:5, CEI). Alla sua presenza tremano come fanno le acque: “Ti videro le acque, Dio, ti videro e ne furono sconvolte”. – Sl 76:16, CEI; in altre versioni può essere in Sl 77.

   Per dimostrare che Dio è una realtà vivente e si trova ovunque, i salmisti non disdegnano di usare degli antropomorfismi che agli occidentali risultano molto urtanti. Egli è come un prode che si risveglia e grida come un ubriaco: “Il Signore si risvegliò come dal sonno, simile a un prode che grida eccitato dal vino” (Sl 78:65). “Risvégliati! Perché dormi, Signore? Déstati” (Sl 44:23). Simile a una “rupe”, è uno “scudo” per quanti confidano in lui: “Il mio Dio, la mia rupe, in cui mi rifugio, il mio scudo” (Sl 18:2). Davide lo invoca come “il mio scudo e il mio corno di salvezza”, come “una roccia” (Sl 18:2,31,47, TNM). Anziché turbarsi religiosamente, l’occidentale deve tenere presente che gli ebrei rifiutavano le astrazioni. I loro simbolismi erano molto concreti. Questi simbolismi rendevano Dio molto vicino all’uomo. Ma non devono essere presi isolatamente. I simbolismi – per sempre concreti – vanno riuniti con gli accenni alla sua sublime trascendenza: “Egli curvava i cieli e scendeva. E sotto i suoi piedi c’era fitta oscurità”. – Sl 18:9, TNM.

   I salmisti non si soffermano a dimostrare l’esistenza di Dio. Per loro è una realtà evidente: “Lo stolto ha detto in cuor suo: ‘Non c’è Dio’”. – Sl 14:1.

   1. Dio è grande in quanto creatore dell’universo. Gli occhi dell’orientale contemplavano Dio nella grandiosità dell’universo: “Quand’io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai disposte, che cos’è l’uomo perché tu lo ricordi? Il figlio dell’uomo perché te ne prenda cura?” (Sl 8:3,4). “I cieli furono fatti dalla parola del Signore, e tutto il loro esercito dal soffio della sua bocca. Egli ammassò le acque del mare come in un mucchio; rinchiuse gli oceani in serbatoi” (Sl 33:6,7). “I cieli raccontano la gloria di Dio e il firmamento annunzia l’opera delle sue mani”. – Sl 19:1.

   2. I salmisti vedono che Dio opera nella natura. Lo vedono nella tempesta che gli fornisce la voce: “La voce del Signore rompe i cedri; il Signore spezza i cedri del Libano. Fa saltellare i monti come vitelli, il Libano e l’Ermon come giovani bufali. La voce del Signore fa guizzare i fulmini. La voce del Signore fa tremare il deserto; il Signore fa tremare il deserto di Cades. La voce del Signore fa partorire le cerve e sfronda le selve” (Sl 29:5-9). Nel Diluvio Dio siede sovrano: “Il Signore sedeva sovrano sul diluvio”. – Sl 29:10.

   3. Dio è il re della storia e la dirige a vantaggio di Israele. – Cfr. Sl 124 e 44.

   4. Dio è dovunque. La sua potenza non è limitata alla terra palestinese (Sl 139:7-12;33:13,14). È una bestemmia l’affermazione del direttivo della Watchtower: “Com’è possibile che Dio sia presente in ogni luogo nello stesso tempo? […]. Essendo un individuo, una Persona con un corpo spirituale, Dio risiede in un luogo, per cui non potrebbe essere contemporaneamente in nessun altro luogo” (La Torre di Guardia del 15 agosto 1981, pag. 6). Questa affermazione offende profondamente l’onnipotenza di Dio, riducendolo ad “un individuo” che se sta in un posto non può essere in un altro. Chi ha fatto questa affermazione dovrebbe vergognarsi: sta parlando di Dio. Per sostenere la loro assurda idea, i dirigenti dei Testimoni di Geova così ragionano: “In I Re 8:43 leggiamo che i cieli sono lo ‘stabilito luogo di dimora’ di Dio” (Ibidem, il corsivo è loro). Con questa ingenua citazione dimostrano di prendere la Bibbia alla lettera: Dio starebbe, secondo loro, davvero nei cieli. Come se non bastasse, fanno pure un paragone che peggiora la situazione: “Possiamo illustrare questi fatti paragonando Dio a una centrale elettrica. È ubicata in un certo luogo in una determinata strada di una città. Ma l’elettricità viene distribuita in tutta la città, provvedendo luce ed energia. E avviene la stessa cosa con Geova Dio. Egli ha un luogo nel più alto dei cieli, ma la sua forza attiva, il suo spirito santo, fornisce luce e può far sentire la sua forza ovunque, in tutto l’universo” (Ibidem). Il direttivo stesso sembra avere un barlume di intendimento quando si rende conto che la Bibbia usa solo degli antropomorfismi, ma poi cade in pieno nella trappola di intenderli come reali: “La Bibbia usa antropomorfismi, cioè attribuisce a Dio caratteristiche umane. […]. Naturalmente tale linguaggio descrittivo non significa che il suo corpo spirituale abbia lo stesso tipo di membra dei corpi umani” (Ibidem). Si noti: prima si riconosce che l’antropomorfismo è solo descrittivo, ma poi si afferma che Dio ha un “corpo spirituale”. Gli angeli sì, hanno un corpo spirituale. Gli eletti sì, avranno un corpo spirituale: “È seminato corpo fisico, è destato corpo spirituale. Se c’è un corpo fisico, ce n’è anche uno spirituale” (1Cor 15:44, TNM). Ma da nessuna parte è scritto che Dio ha un corpo spirituale. “Dio è uno Spirito” (Gv 4:24, TNM), non un corpo spirituale. Attribuendo – in modo blasfemo – a Dio un corpo (seppure spirituale), lo si immette nella sua stessa creazione. Dio non fa parte della sua stessa creazione. I cieli spirituali sono creazione di Dio e in quella dimensione vivono gli angeli. Ma Dio ne è ben al di sopra. La Bibbia non dice: “Mediante lui [Dio] abbiamo la vita e ci muoviamo ed esistiamo”; questo lo dice la TNM. La Bibbia invece dice: “In lui [ἐν αὐτῷ (en autò)] viviamo, ci moviamo, e siamo” (At 17:28). Cosa significa allora che i “cieli” sono lo “stabilito luogo di dimora” di Dio? Bisognerebbe riflettere su questa espressione di Dio: “I cieli sono il mio trono, e la terra è lo sgabello dei miei piedi” (Is 66:1, TNM). Proprio come la terra-sgabello è un simbolo, esattamente così i cieli-trono sono un simbolo. Non si può prendere mezzo versetto letteralmente e l’altro mezzo simbolicamente. È una regola elementare, molto elementare, dell’ermeneutica biblica. Tornando all’onnipresenza di Dio, il direttivo americano farebbe bene – anziché fare paragoni blasfemi con le centrali elettriche – a riflettere su quanto la Scrittura dice e che loro stessi hanno tradotto: “Dove posso fuggire dalla tua faccia? Se ascendessi al cielo, là saresti; e se stendessi il mio giaciglio nello Sceol, ecco, [saresti là]”. – Sl 139:7,8, TNM; la frase “[saresti là]” è aggiunta dai traduttori stessi della Watchtower.

   L’uomo e il peccato. Per i salmisti l’essere umano è fragile come “carne” e passa come un “soffio” (Sl 78:39). È come la polvere, la sua vita è come l’erba, e basta un soffio per annientarlo: “Siamo polvere. I giorni dell’uomo son come l’erba; egli fiorisce come il fiore dei campi; se lo raggiunge un colpo di vento esso non esiste più” (Sl 103:14-16). La fragilità umana è quindi davvero grande. Nessun essere umano può vivere senza “vedere” la morte: “Qual è l’uomo che viva senza veder la morte?” (Sl 89:48). Per questi motivi non serve a nulla confidare nell’uomo e solo Dio ci può aiutare: “Dacci aiuto per superare le difficoltà, poiché vano è il soccorso dell’uomo. Con Dio noi faremo prodigi” (Sl 60:11,12). “Qualora straripino le grandi acque, esse, per certo, non giungeranno” a danneggiare chi confida il Dio. – Sl 32:6.

   È bene per l’uomo lavorare (Sl 104:23) ed avere compassione del prossimo (Sl 112:5). Purtroppo il peccato è retaggio dell’uomo: “Chi conosce i suoi errori? Purificami da quelli che mi sono occulti. Trattieni inoltre il tuo servo dai peccati volontari, e fa’ che non prendano il sopravvento su di me”. – Sl 19:12,23.

   Occorre perciò purificarsi dalle colpe. L’essere umano brama la purezza e la liberazione che può venire solo da Dio:

 

“Io confesso il mio peccato,

sono angosciato per la mia colpa”. – Sl 38:18.

“Lavami da tutte le mie iniquità

e purificami dal mio peccato;

poiché riconosco le mie colpe,

il mio peccato è sempre davanti a me.

Ho peccato contro te, contro te solo,

ho fatto ciò ch’è male agli occhi tuoi.

Perciò sei giusto quando parli,

e irreprensibile quando giudichi.

Ecco, io sono stato generato nell’iniquità”. Sl 51:2-5.

“Vedi la mia afflizione e il mio affanno,

perdona tutti i miei peccati”. – Sl 25:18.

“Davanti a te ho ammesso il mio peccato,

non ho taciuto la mia iniquità.

Ho detto: ‘Confesserò le mie trasgressioni al Signore’,

e tu hai perdonato l’iniquità del mio peccato”. – Sl 32:5.

 

   Dio è giusto e non lascia impunito un delitto, ma fa trionfare la giustizia: “Vi è una ricompensa per il giusto; certo, c’è un Dio che fa giustizia sulla terra!”. – Sl 58:11.

   Pur essendo giusto, Dio non è un giustizialista. Dio è bontà. È per questo che si diletta a perdonare. “Egli, che è pietoso, perdona l’iniquità e non distrugge il peccatore”. – Sl 78:38.

 

“Il Signore è pietoso e clemente,

lento all’ira e ricco di bontà.

Egli non contesta in eterno,

né serba la sua ira per sempre.

Egli non ci tratta secondo i nostri peccati,

e non ci castiga in proporzione alle nostre colpe.

Come i cieli sono alti al di sopra della terra,

così è grande la sua bontà verso quelli che lo temono.

Come è lontano l’oriente dall’occidente,

così ha egli allontanato da noi le nostre colpe.

Come un padre è pietoso verso i suoi figli,

così è pietoso il Signore verso quelli che lo temono.

Poiché egli conosce la nostra natura;

egli si ricorda che siamo polvere”. – Sl 103:8-14.

 

“Per amor del tuo nome, o Signore, perdona la mia iniquità, perché essa è grande”. – Sl 25:11.

   Non è annientando il malvagio con un atto di forza che si stabilisce la rettitudine; Dio desidera che il peccatore si converta dalle proprie vie malvagie perché possa vivere. Questo di certo è più difficile dell’uso della forza. Sotto questo aspetto nessun libro delle Scritture Ebraiche è più vicino alle Scritture Greche quanto il Salterio.

   La punizione non è frutto del capriccio divino. Questo era il pensiero dei mesopotamici, non degli ebrei. L’ira del Signore non è mai capricciosa. Può essere rimossa, ma solo con un cambiamento morale della propria vita. Ci sono sette salmi penitenziali in cui si piangono i propri peccati, ma si potrebbe includerne anche altri, come i Sl 19, 25, 40 e 69.

 

Salmi penitenziali

6, 32, 38, 51, 102, 130, 143

 

   Anche se gli ebrei nel loro rituale non si curavano tanto della mutazione della loro condotta (per loro bastava adempiere bene il sacrificio), tuttavia, in questi salmi essi mostrano di provare un vivo senso di colpa. Non possiamo essere ben sicuri se si trattasse di sentimenti di colpa individuali o nazionali, se il salmista si proclamasse colpevole solo perché membro della società corrotta. In ogni caso la colpa è presentata come colpa, e se ne avverte tutta l’odiosità.

   Il salmista, è vero, chiede perdono a Dio solo perché la malattia o il castigo materiale non gli piombi addosso, ma ciò testimonia la sua umanità. Non v’è nulla di meglio – talvolta – della malattia per suscitare il senso di colpevolezza. Come affermava Eschilo, la sofferenza è educativa. La Bibbia dice: “Il Signore corregge quelli che egli ama, e punisce tutti coloro che riconosce come figli”. – Eb 12:6; citato da Pr 3:12.

   Va poi ricordato che mentre per i mesopotamici la colpa si considerava rimossa solo con il cambiamento delle circostanze, per gli ebrei no! Facendo un paragone moderno, per gli ebrei il peccato era come una bomba nucleare che turbava l’ordine cosmico. Per cui, anche dopo il perdono, potevano rimanere le conseguenze dell’azione colpevole. Il ravvedimento e il perdono non potevano alterare il corso degli eventi scatenati dal peccato. Davide ha commesso adulterio con Betsabea: il neonato è ammalato. Davide ha già ottenuto il perdono da Dio, perciò digiuna nella speranza che il bimbo non muoia. Ma il bambino muore. Davide allora cessa il digiuno e il cordoglio tra la meraviglia dei vicini: ora che il castigo è giunto, le austerità non servono più. Delitto e castigo sono due cose distinte. Dopo il suo adulterio, la vita di Davide passò da un successo continuo ad una serie di disastri. – 1Sam 11:2-12:23.

   Il male è un seme che ineluttabilmente porta i suoi frutti deleteri. È così che si spiegano i fatti, senza per questo dovervi vedere a forza il castigo diretto da parte di Dio. Gli ebrei parlavano di castigo perché, eliminando le cause seconde, lo vedevano come conseguenza del volere divino che così era deciso (si veda Gv 9:2). Questo rimane vero, in un certo senso, ma oggi noi sappiamo che è vero solo in senso lato. Se per la propria condotta dissoluta qualcuno si ammala gravemente o muore, non è per castigo diretto di Dio; si tratta di un castigo indiretto che la persona ha attratto da sola su di sé. Dio ha creato l’uomo perché faccia il bene e viva bene. Se poi fa il male, raccoglie quello che ha seminato da solo. Comunque, il problema del male sarà meglio esaminato nell’esegesi che riguarda il libro di Giobbe.

   Vita ultraterrena nei Salmi. Tutti i morti si trovano nel “soggiorno dei morti” (שְׁאֹול, sheòl). Il credo cattolico traduce malamente la parola sceòl con “inferno”. Da questa cattiva traduzione dei cattolici nasce il controsenso che Yeshùa andò all’inferno (inteso secondo la dottrina cattolica). Nella Bibbia troviamo due parole – una ebraica e una greca – che indicano il “soggiorno dei morti”. La Vulgata latina le tradusse con “infernum”. Infernum è il neutro sostantivato dell’aggettivo latino infernus che significa “inferiore / di sotto / che si trova in basso / posto sotto”. Originariamente il termine latino corrispondeva bene a quelli ebraico e greco: dava l’idea di qualcosa posto sotto terra. Lo sceòl o àdes (come “inferi”) designano essenzialmente la tomba. L’idea di “inferno” come luogo di tormento riservato ai peccatori morti è qualcosa che è del tutto estranea alla Scrittura.

 

Scritture Ebraiche

שְׁאֹול (sheòl)

Scritture Greche

ᾅδης (àdes)

 

La descrizione che la Bibbia fa dello sheòl è simile a quella degli orientali in genere, come appare da due citazioni di Giobbe:

 

“Prima che me ne vada, per non più tornare,

nella terra delle tenebre e dell’ombra di morte:

terra oscura come notte profonda,

dove regnano l’ombra di morte e il disordine,

il cui chiarore è come notte oscura”. – Gb 10:21,22.

 

“Là cessano gli empi di tormentare gli altri.

Là riposano gli stanchi,

là i prigionieri hanno pace tutti insieme,

senza udir voce d’aguzzino.

Piccoli e grandi sono là insieme,

lo schiavo è libero dal suo padrone”. – Gb 3:17-19.

 

   La morte è presentata in quest’ultimo passo (che la Chiesa Anglicana canta nei suoi uffici funebri) come una livellatrice di tutte le differenze umane. Si rammenti anche la brillante descrizione fatta da Isaia: il tiranno muore, scende nello sheòl e viene accolto con esultanza dagli altri re che si rallegrano perché anche lui è morto.  “Il soggiorno dei morti, laggiù, si agita per te, per venire a incontrarti al tuo arrivo; esso sveglia per te le ombre, tutti i prìncipi della terra; fa alzare dai loro troni tutti i re delle nazioni. Tutti prendono la parola e ti dicono: ‘Anche tu dunque sei diventato debole come noi? Anche tu sei divenuto dunque simile a noi?’” (Is 14:9,10). Questo di Is è però un brano poetico. Spesso le apparenze esterne dello sheòl – polvere, tenebre, porte, chiavistelli – che la Bibbia descrive sono le apparenze esteriori della tomba stessa. La Scrittura presenta lo sheòl come una vasta tomba in cui i morti stanno tutti insieme. Lì ogni distinzione viene meno, esattamente come non c’è distinzione alcuna quando si tratta di morire.

   Qual è la situazione dei morti secondo la Bibbia? Dopo la morte le persone non fanno più nulla, non possono esercitare il culto né dare lode a Dio (Sl 88:4-6, 10-12). In poche parole, non esistono semplicemente più.

   Biblicamente, la retribuzione si attua sulla terra (Gb 8:11-22). Gli empi, dopo una breve gioia, se ne vanno nel soggiorno dei morti. I giusti, dopo una breve prova, ricevono la felicità nella loro stessa vita terrena. Così in Sl 37:1,2,10,11,25:

   “Non adirarti a causa dei malvagi; non aver invidia di quelli che agiscono perversamente; perché presto saranno falciati come il fieno e appassiranno come l’erba verde . . . Ancora un po’ e l’empio scomparirà; tu osserverai il luogo dove si trovava, ed egli non ci sarà più. Ma gli umili erediteranno la terra e godranno di una gran pace . . . Io sono stato giovane e son anche divenuto vecchio, ma non ho mai visto il giusto abbandonato, né la sua discendenza mendicare il pane”.

    Spesso nei Salmi si legge che Dio può rendere vivi i morti e far entrare e uscire dallo sheòl: “Tu mi hai messo nella fossa più profonda, in luoghi tenebrosi, negli abissi” (Sl 88:6), “O Signore tu hai fatto risalir l’anima mia dal soggiorno dei morti, tu m’hai ridato la vita perché io non scendessi nella tomba” (Sl 30:3). In questi passi non si tratta di vera resurrezione, ma di un’iperbole in cui chi prega, ridotto in fin di vita, già si considerava nel soggiorno dei morti, ma per grazia divina fu guarito.

   Le rianimazioni dei morti di cui si parla sia nelle Scritture Ebraiche che nelle Scritture Greche non sono delle vere resurrezioni, ma dei ritorni all’esistenza terrena. Ci spieghiamo. Eb 11:35 dice: “Ci furono donne che riebbero per risurrezione i loro morti”. Una di queste donne fu una vedova di Zarefat, cui Dio resuscitò il figlio per intercessione di Elia (1Re 17:8-24). Un’altra di queste donne fu una sunemita cui fu resuscitato il figlio (2Re 4:8-37;8:1-6). Yeshùa resuscitò il figlio unico di una vedova (Lc 7:11-15). Ben nota è la resurrezione di Lazzaro ad opera di Yeshùa (Gv 11:1-45). Ma tutte queste persone resuscitate morirono di nuovo. Questi episodi mostrano che Dio è davvero padrone della vita e della morte. Finora l’unico vero resuscitato è Yeshùa. “Cristo, risuscitato dai morti, non muore più” (Rm 6:9). Per il mutamento escatologico che comporta la vera resurrezione occorre attendere la fine dei tempi. “Cristo è stato risuscitato dai morti, primizia di quelli che sono morti . . . ma ciascuno al suo turno: Cristo, la primizia; poi quelli che sono di Cristo, alla sua venuta”. – 1Cor 15:20,23.

   Il problema del male apre nuove prospettive sull’aldilà. Non sempre la situazione terrena è così rosea da lasciarci vedere su questa terra il trionfo del bene sul male. Lo constata amaramente Giobbe di fronte ai suoi amici o presunti amici che vorrebbero sostenere il contrario. Questo stesso concetto riappare in molti passi dell’Ecclesiaste, dove si afferma la fine identica sia dei giusti che dei malvagi. Lo attesta anche il Sl 39 in cui il salmista sospira sotto il peso della sofferenza, colpito dalla prosperità dei colpevoli. Se non lo dice più chiaramente è solo per il fatto che non vuol scandalizzare il prossimo: “Metterò un freno alla mia bocca . . . Come un muto sono stato in silenzio . . . Sto in silenzio, non aprirò bocca, perché sei tu che hai agito” (vv. 1,2,9). Egli si accontenta di chiedere a Dio almeno un po’ di sollievo: “Distogli il tuo sguardo, perché io respiri, prima di andarmene e scomparire” (v. 13). Vuole rimanere unito a Dio nonostante la situazione dolorosa in cui si trova: “La mia speranza è in te” (v. 7). Però a volte l’intuizione del salmista o del profeta va oltre: egli sembra intravedere un tempo in cui il bene trionferà sul male. Questo concetto riappare in prima linea come resurrezione del popolo d’Israele castigato con l’esilio. Tale concetto è espresso nella visione di Ezechiele. “Il Signore mi trasportò mediante lo Spirito e mi depose in mezzo a una valle piena d’ossa. Mi fece passare presso di esse, tutt’attorno; ecco erano numerosissime sulla superficie della valle, ed erano anche molto secche. Mi disse: ‘Figlio d’uomo, queste ossa potrebbero rivivere?’” (Ez 37:1-3). Gli scheletri vivificati non costituiscono una vera resurrezione in quanto hanno solo un carattere simbolico: significano che il popolo ebraico giacente nella morte dell’esilio risorgerà mediante il suo ritorno in patria. Va tuttavia evidenziata la risposta che Ezechiele dà a Dio quando gli domanda se quelle ossa potrebbero rivivere: “Signore, Dio, tu lo sai” (v. 3). Solo Dio può saperlo: solo lui, infatti, potrebbe farlo. Si rammenti che la “conoscenza” nella Scrittura è sempre di carattere esperienziale. L’occidentale, sbagliando, intende: Tu nella tua mente conosci. Per la Bibbia il senso della risposta è: Tu lo sai fare.

   Anche in Osea il “ci rimetterà in piedi” che diventa “ci farà rivivere” per TNM non si riferisce alla resurrezione, ma al ristabilimento di Israele come nazione. “La vergine d’Israele è caduta e non risorgerà più; giace distesa al suolo e non c’è chi la rialzi” (Am 5:2). L’espressione di Os 6:2 citata ha lo stesso valore di quella di Am 5:2, solo che indica un periodo più lungo in cui Israele sarebbe stata oppressa, periodo cui seguirà il suo ristabilimento: “In due giorni ci ridarà la vita; il terzo giorno ci rimetterà in piedi, e noi vivremo alla sua presenza”. Non si tratta affatto di una profezia sulla resurrezione di Yeshùa.

   La letteratura didattica di Israele segna un progresso in quanto presenta l’aspirazione ad una comunione così intima con Dio che non può fermarsi alla soglia della morte, ma sembra perdurare al di là di questa vita. L’unione con Dio non è spezzata dalla morte. Questa unione con Dio è qualcosa di più della semplice partecipazione liturgica, come traspare dalla bella invocazione del Sl 42:

“Come la cerva desidera i corsi d’acqua,

così l’anima mia anela a te, o Dio.

L’anima mia è assetata di Dio,

del Dio vivente;

quando verrò e comparirò in presenza di Dio?”. – Vv. 1,2.

 

Anche il Sl 63 parla della celebrazione liturgica nel Tempio:

 

“O Dio, tu sei il mio Dio, io ti cerco dall’alba;

di te è assetata l’anima mia, a te anela il mio corpo

languente in arida terra, senz’acqua.

Così ti ho contemplato nel santuario,

per veder la tua forza e la tua gloria.

Poiché la tua bontà vale più della vita,

le mie labbra ti loderanno”. – Vv. 1-3.

 

   Questo anelito non sembra tuttavia esaurirsi nel culto liturgico. Sembra che brami qualcosa di più duraturo.

   Una intuizione più profonda si ha nel Sl 49 dei figli di Core, che si apre con una notizia sensazionale che è degna di essere annunciata a tutte le genti:

 

“Ascoltate, popoli tutti; porgete orecchio, abitanti del mondo, plebei e nobili,

ricchi e poveri tutti insieme” . – Vv. 1,2.

 

   Ed ecco la grande notizia … I malvagi – e questo lo si sapeva – sono “cacciati come pecore nel soggiorno dei morti; la morte è il loro pastore; e al mattino gli uomini retti li calpestano. La loro gloria deve consumarsi nel soggiorno dei morti, e non avrà altra dimora” (v. 14), “ma Dio riscatterà l’anima mia dal potere del soggiorno dei morti, perché mi prenderà con sé” (v. 15). Qui non si ha solo l’opposizione solita tra la sorte degli empi e quella dei giusti. C’è molto di più. Analizziamolo bene.

 

יִקָּחֵנִי

yiqakhèniy

prenderà me

 

   Si tratta del verbo tecnico laqàkh, “prendere”, già usato a proposito della traslazione di Enoc: “Enoc camminò con Dio; poi scomparve, perché Dio lo prese [לָקַח (laqàkh)]” (Gn 5:24). Il “prendere” da parte di Dio mostra l’evidenza che c’è un bene dopo la morte: una vita trascorsa presso Dio, ben lontana da quella inconscia trascorsa nel soggiorno dei morti.

   La stessa conclusione riappare nel Sl 73 di Asaf, dove la messa in scena è ancor più drammatica. Il salmista afferma:

“Quasi inciamparono i miei piedi; poco mancò che i miei passi non scivolassero. Poiché invidiavo i prepotenti, vedendo la prosperità dei malvagi”. – Vv. 2,3.

 

   Il salmista sta quasi per soccombere alla tentazione: invidiava i prepotenti, attratto dalla loro prosperità. Per lui è mistero di cui non comprende alcunché: “Ho voluto riflettere per comprendere questo, ma la cosa mi è parsa molto ardua” (v. 16). La difficoltà perdura finché non entra nel segreto divino e non osserva la fine dei peccatori: “Finché non sono entrato nel santuario di Dio, e non ho considerato la fine di costoro” (v. 17). Essi scompaiono e non c’è alcun benessere per loro dopo la morte. “Ma pure, io resto sempre con te; tu m’hai preso per la mano destra; mi guiderai con il tuo consiglio e poi mi accoglierai [תִּקָּחֵנִי (tiqàchny): “mi prenderai”] nella gloria” (vv. 23,24). E di nuovo troviamo il verbo tecnico “mi prenderai”, tradotto male con “mi accoglierai”. Ma non solo. La frase ebraica precisa è:

 

כָּבֹוד תִּקָּחֵנִי

kavòd tiqakhèniy

peso mi prenderai

 

   Il salmista letteralmente dice: “Mi prenderai (come) peso”. Per capire il senso che qui “peso” ha, occorre probabilmente riferirsi al suo opposto: רְפָאִים (refaìm), “ombre”. Questa parola si trova in Sl 88:10, dove TNM fa un lungo giro di parole per evitare la parola “ombre” riferita ai morti: “Per quelli che son morti farai una meraviglia? O quelli impotenti nella morte [רְפָאִים (refaìm), “ombre”] si leveranno essi stessi, ti loderanno?”. – TNM.

   Il bene di essere sempre con Dio è il più gran bene che una persona possa desiderare: “Il mio bene è stare unito a Dio; io ho fatto del Signore, di Dio, il mio rifugio” (Sl 73:28). Questa ricompensa per l’ubbidienza è il pensiero che deve dare sollievo in questa vita. “Dio è la ròcca del mio cuore e la mia parte di eredità, in eterno”. – Sl 73:26.

   Come Dio “prenda” il giusto e lo liberi dallo sheòl non è indicato: è lasciato alla potenza divina. Qui nel salmo vi è solo un’indicazione che appare all’improvviso, come un balenìo fuggente, ma che pur sempre esiste.

   Vediamo ora le intuizioni di Giobbe, del deutero-Isaia e del Sl 16.

 

Gb 19:25-27

“Ma io so che il mio Redentore vive

e che alla fine si alzerà sulla polvere.

E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo,

senza la mia carne, vedrò Dio.

Io lo vedrò a me favorevole;

lo contempleranno i miei occhi,

non quelli d’un altro;

il cuore, dal desiderio, mi si consuma!”.

 

   Il testo è incerto, quindi non si può insistervi troppo. Alcuni pensano che vi si affermi la visione di Dio dopo la morte con la sola anima. Questo fa intendere VR da cui abbiamo citato: “Distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Dio”. Ma questo è contrario a tutto il pensiero biblico sia nelle Scritture Ebraiche che nelle Scritture Greche. Altri vi vedono indicata la resurrezione con la conseguente visione divina. Ma forse il testo vuol solo dire che Giobbe, pur essendo allo stremo delle sue forze, è sicuro di vedere Dio che lo giustificherà prima di morire, come di fatto avvenne con l’apparizione divina narrata alla fine del libro (ovviamente il “vedere” Dio è in senso relativo, giacché ‘l’uomo non può vedere Dio e vivere’ – Es 33:20).

Deutero-Isaia (Is 53:10-12)

“Ma il Signore ha voluto stroncarlo con i patimenti.

Dopo aver dato la sua vita in sacrificio per il peccato,

egli vedrà una discendenza, prolungherà i suoi giorni,

e l’opera del Signore prospererà nelle sue mani.

Dopo il tormento dell’anima sua vedrà la luce, e sarà soddisfatto;

per la sua conoscenza, il mio servo, il giusto, renderà giusti i molti,

si caricherà egli stesso delle loro iniquità.

Perciò io gli darò in premio le moltitudini,

egli dividerà il bottino con i molti,

perché ha dato sé stesso alla morte

ed è stato contato fra i malfattori;

perché egli ha portato i peccati di molti

e ha interceduto per i colpevoli”.

 

   Si tratta del poema sul servo del Signore, che trionfa sulla morte non solo per mezzo delle sue opere ma anche con una sua personale sopravvivenza. Se il servo del Signore fosse solo il popolo giudaico, si potrebbe intendere il passo nel senso di un suo ristabilimento glorioso. Ma vi sono buone ragioni per pensare ad un individuo che rappresenta in modo particolare il popolo, vale a dire il Messia. Occorre perciò pensare al suo trionfo sulla morte. “Gesù disse loro: “Abbattete questo tempio, e in tre giorni lo rialzerò . . . egli parlava del tempio del suo corpo”. – Gv 2:19,21, TNM.

 

Sl 16:7-11)

“Benedirò il Signore che mi consiglia;

anche il mio cuore mi istruisce di notte.

Io ho sempre posto il Signore davanti agli occhi miei;

poich’egli è alla mia destra, io non sarò affatto smosso.

Perciò il mio cuore si rallegra,

l’anima mia esulta;

anche la mia carne dimorerà al sicuro;

poiché tu non abbandonerai l’anima mia in potere della morte,

né permetterai che il tuo santo subisca la decomposizione.

Tu m’insegni la via della vita;

ci sono gioie a sazietà in tua presenza;

alla tua destra vi son delizie in eterno”.

 

   Alla stessa speranza di un bene eterno presso Dio si eleva pure questo salmo di Davide, ma per una via più diretta. Anziché meditare sulla imperfetta giustizia di questo mondo, il salmista riflette sul favore con cui Dio circonda i suoi devoti. È lo stesso concetto già espresso da Asaf in Sl 73:26: “Dio è . . . la mia parte di eredità, in eterno”. Questa “eredità” non può essere limitata ai giorni dell’esistenza terrena ma deve essere eterna proprio come è eterno Dio che la dona. Questa speranza fa affermare al salmista ciò che egli esprime ai vv. 10 e 11, ma tradotti bene, secondo il testo ebraico. Il v. 10 è generalmente tradotto conformemente al testo originale: “Tu non abbandonerai l’anima mia in potere della morte, né permetterai che il tuo santo subisca la decomposizione”. Il v. 11 però non dice: “Tu m’insegni la via della vita”, ma: “Mi farai conoscere il sentiero della vita” (TNM). Si rammenti il significato che “conoscere” ha nella Scrittura: non si tratta di conoscenza intellettuale che si insegna e che si può imparare. Questo è un pensiero occidentale assente nella Bibbia. Il “conoscere” biblico è sperimentale. Il salmista sta dicendo: “Mi farai sperimentare la via della vita”. Se dovessimo tradurre, insieme al testo, anche questo concetto dall’ebraico all’italiano, avremmo: “Non abbandonerai la mia anima nello sheòl. Non permetterai che il tuo fedele veda la corruzione. Mi farai sperimentare il sentiero di vita. Pienezza di gioie è con il tuo volto, delizie alla tua destra per sempre”. Qui non è indicata la resurrezione in modo chiaro, ma siamo nella linea di pensiero che ammette un altro luogo oltre lo sheòl, un luogo dove eternamente si sta con Dio. Non per nulla Pietro, nel suo discorso alla Pentecoste, vi ha visto ombreggiata la resurrezione di Yeshùa: “Dio lo risuscitò, avendolo sciolto dagli angosciosi legami della morte, perché non era possibile che egli fosse da essa trattenuto. Infatti Davide dice di lui: . . . ‘tu non lascerai l’anima mia nell’Ades, e non permetterai che il tuo Santo subisca la decomposizione’” (At 2:24,25,27). Vi è adombrata la resurrezione gloriosa dei credenti che Paolo ci insegnerà in modo chiaro in 1Cor 15.