Fino alla fine del 17° secolo i lettori accettarono i Vangeli scritti con semplicità, senza discuterli: per loro erano racconti storici. Le obiezioni che venivano sollevate non riguardavano i Vangeli scritti nel loro insieme, ma solo alcuni punti in cui essi sembravano essere tra loro in contrasto. Così fecero, ad esempio, Celso verso il 130 E. V. e Porfino sulla fine del 3° secolo.
Fu nel 1670 che Spinosa (un filosofo ebreo nato ad Amsterdam nel 1632 e morto nel 1677; escluso dalla comunità per le sue idee panteiste) suggerì di “esaminare in modo nuovo la Bibbia, e di sviluppare tale esame con piena libertà di spirito” (Tractatus Theologicus-politicus IV,18). In virtù di questa libertà il cattolico R. Simon (nato nel 1638 e morto nel 1712; sacerdote e biblista, i suoi lavori furono messi all’indice) verso la fine del 17° secolo applicò alla Bibbia la stessa indagine critica che da tempo si usava nei confronti dei libri profani dell’antichità. Sorse così l’idea che anche nella Bibbia si devono trovare spiegazioni razionali, escludendo interventi miracolosi di Dio e resurrezioni. Molti studiosi anche recenti lo hanno seguito in questa idea. Così scriveva J. Herder nel 1780: “Io non posso né pensare né imitare un divino fantasma che passeggi sulla terra. Il teologo non può perdersi nella contemplazione dell’immagine di un Cristo sulle nuvole”. L’assioma della “sola ratio” (“la ragione soltanto”) fu presentato con particolare vigore da E. Kant nel 1793: “Ogni studio e ogni interpretazione della Sacra Scrittura devono partire da questo principio: cercare in essa lo spirito [della religione razionale]” (La religione nei limiti della semplice ragione, edizione italiana G. Durante, Torino, 1945, pagg. 118 e sgg.). Lo studioso D. F. Strass (1808-1874; direttore del seminario teologico protestante di Tubinga, dal quale fu dimesso) applicò tali princìpi allo studio dei Vangeli scritti, che secondo lui sono libri di fede (e non di storia) intessuti di racconti mitici. Sempre secondo lui, non ci si potrebbe fidare né dei sinottici né del Vangelo di Giovanni. Tra i contemporanei, il famoso teologo R. Bultmann ripresentò queste idee. Ecco una sua dichiarazione: “Non si può fare uso della corrente elettrica e degli apparecchi radio, usare i mezzi sanitari e chimici odierni, e al tempo stesso credere nel mondo degli spiriti e nei miracoli del Nuovo Testamento”. – L’interprétation du Nouveau Testament (“Christ and Mitology”), pag. 143.
Le varie scuole esegetiche (che si oppongono le une alle altre) possono essere raggruppate nelle seguenti.
Scuola naturalistica. Secondo questi esegeti i miracoli sarebbero tali solo perché non s’intendono nella loro giusta misura. Per loro Yeshùa sarebbe un moralista sublime e i suoi miracoli andrebbero spiegati in modo naturalistico. Così – dobbiamo dire, in maniera ingenua – la resurrezione di Yeshùa è stata da loro spiegata come morte apparente, la moltiplicazione di pani solo come un esempio di dare quello che si ha, la tempesta sedata con una coincidenza atmosferica al risveglio di Yeshùa. Insomma, costoro accettano il testo biblico ma tentano di spiegare i miracoli con la ragione.
Scuola liberale o illuministica. Più che spiegare i miracoli, le resurrezioni e la concezione verginale di Yeshùa, questa scuola mette in risalto lo Yeshùa umano predicatore di una morale sublime. Il più importante rappresentante di questa corrente fu A. von Harnack (teologo, storico ed esegeta), che ridusse l’insegnamento di Yeshùa alla predicazione della paternità divina e del regno di Dio interiore (L’essenza del Cristianesimo, Torino, 1923). Tutto il resto viene eliminato quale semplice apporto dell’ambiente. In Francia spiccò quale massimo rappresentante di questo liberalismo teologico A. Sabatier. – Esquisse d’une philosophie de la religion d’aprés la psychologie et l’histoire, Paris, 1897.
La scuola escatologica. Secondo questa scuola l’idea centrale del cristianesimo e i miracoli evangelici provengono dal messianismo in voga al tempo di Yeshùa. Gli ebrei si attendevano la venuta del regno di Israele concepito in termini puramente terreni e – secondo tale scuola escatologica – Yeshùa si sarebbe illuso di essere lui il messia atteso. Per H. S. Reimarus (Fragmenten des Wolfenbüttelschen Ungenanten, Lessing, 1774-1778) Yeshùa avrebbe predicato un messianismo puramente terreno, che però fallì miseramente per intervento dei romani che lo uccisero e dispersero i suoi discepoli. Ma questi avrebbero poi trasformato Yeshùa in un redentore che sarebbe tornato redivivo (stesso concetto della venuta solo spirituale nel 1914 secondo i Testimoni di Geova). Secondo questa scuola avremmo qui una frode da attribuirsi ai discepoli. Tuttavia, i più accesi escatologici non credono neanche alla frode, ma pensano che gli apostoli furono degli illusi alla pari di Yeshùa. Questa scuola, inaugurata in Germania da J. Weiss, ebbe grande risonanza in Francia ad opera di A. Loisy (La naissance du Christianisme, Paris, 1933) e in Italia ad opera di A. Omodeo (Storia delle origini cristiane, 1921-1925). Secondo la celebre frase del Loisy: “Gesù annunciò il regno e ne venne fuori la chiesa”. – L’évangile et l’Église, pag. 153.
Scuola comparata delle religioni. Più che occuparsi dell’insegnamento di Yeshùa, gli studiosi aderenti a questa scuola si sono preoccupati di ricercare la fonte dei miracoli. Mentre tutte le altre scuole (come si è visto) si attenevano ai testi biblici, pur spiegandoli a modo loro, questi comparatisti si diedero da fare per raccogliere paralleli dalle varie dottrine religiose che si andavano scoprendo durante il 20° secolo. Tra i vari studiosi appartenenti a questa corrente ci furono W. Bousset (morto nel 1920), R. Reitzenstein (morto nel 1932), S. Reinach (morto nel 1932), P. Martinetti, R. Pettazzoni, V. Maccioro, P. E. Santangelo. Secondo costoro la morte e resurrezione di Yeshùa non sarebbero altro che la rappresentazione di una delle tante mitologie divine che periodicamente si ripresentano (come quelle di Attis, Dionisio e Mitra). L’apostolo Paolo avrebbe accolto le religioni misteriche o la gnosi iranica o greca creando il cristianesimo. Costoro sembrano ignorare del tutto che gli apostoli (tutti ebrei) aborrivano tutto quanto sapeva di pagano.
Che dire di tutte queste scuole? Una cosa l’hanno in comune: la loro totale incapacità a credere. Trattano la più grande rivelazione di Dio nella storia degli uomini alla stregua d’una concezione filosofica umana. Mettono di mezzo il ragionamento e cercano di spiegare razionalmente ciò che all’uomo non è dato di capire se non per fede: “La fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono” (Eb 11:1). Ma a questa fede non si può arrivare con l’impegno intellettuale; la fede è dono di Dio: “Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio”. – Ef 2:8.
Gli intellettuali, anziché nutrire la semplice e sincera fede dei bambini, vogliono toccare con mano come Tommaso. Ma il ‘Signore del cielo e della terra ha attentamente nascosto queste cose ai saggi e agli intellettuali, e le ha rivelate ai bambini’ (Lc 10:21, TNM). Cercare di crescere “grandemente in sapienza”, cercare di indagare “una gran quantità di sapienza e conoscenza” e mettere il “cuore a conoscere la sapienza e a conoscere la pazzia”, “è un correr dietro al vento”. Poiché nell’abbondanza della sapienza c’è abbondanza di vessazione, così che chi accresce la conoscenza accresce il dolore”. – Ec 1:16-18, passim, TNM.
Senza deviare dalla fede e senza avventurarsi in stravaganti ipotesi che portano solo fuori dalle realtà bibliche, possiamo accettare l’invito ispirato di ‘accertarci di ogni cosa’ [letteralmente “mettere alla prova”] (1Ts 5:21), mentre “manteniamo ferma la confessione della nostra speranza, senza vacillare; perché fedele è colui che ha fatto le promesse”. – Eb 10:23.
Dalla fine del 19° secolo ad oggi si sono sviluppati tre nuovi metodi con cui esaminare i Vangeli scritti: 1. critica letteraria, 2. storia delle forme, 3. sistema storico-redazionale.
1. Il metodo della critica letteraria è un’indagine che cerca di individuare i vari documenti che stanno all’origine dei singoli Vangeli scritti per meglio determinarne la composizione. Sembra così che Marco sia stato alla base di Matteo e Luca; questi due poi attinsero anche, a quanto pare, da una fonte Q che conteneva prevalentemente i detti (greco lòghia) di Yeshùa. Ogni scrittore dei sinottici ha poi introdotto materiale proprio. Da questa indagine si vede come gli evangelisti non abbiano lavorato di fantasia, ma si sono rifatti a tradizioni precedenti: “Molti hanno intrapreso a ordinare una narrazione dei fatti che hanno avuto compimento” come “li hanno tramandati quelli che da principio ne furono testimoni oculari e che divennero ministri della Parola” e così, dopo una ricerca accurata “di ogni cosa dall’origine”, se ne scrisse per riconoscere “la certezza delle cose” che “sono state insegnate”. – Lc 1:1-4.
2. La storia delle forme o teologia kerigmatica (cioè dell’annuncio) continua ad insistere sull’ipotesi che la congregazione primitiva dei discepoli abbia creato miti intorno a Yeshùa per sostenere la fede. Ancora una volta ci troviamo di fronte all’impossibilità di credere. Va osservato che è più comprensibile, alla fine, la posizione di un agnostico o di un ateo che non crede e basta che non quella di un cosiddetto cristiano che si limita a riferirsi a Yeshùa negandone la sua opera storica.
Dalla storia delle forme possiamo però trarre un’indicazione utile e intelligente: si tratta di considerare che i racconti biblici si esprimono secondo la mentalità semitica. Troppo spesso cadiamo infatti nell’errore di leggere pagine mediorientali con mente occidentale. Per fare un esempio, un occidentale odierno rimane scandalizzato leggendo le parole di Yeshùa: “Se qualcuno viene a me e non odia suo padre e la madre e la moglie e i figli e i fratelli e le sorelle, sì, e perfino la sua propria anima, non può essere mio discepolo” (Lc 14:26, TNM). Occorre conoscere, appunto, la storia delle forme, per capire. Gli scrittori biblici del tempo apostolico scrissero in greco ma pensarono in ebraico. Nella lingua ebraica non c’è un modo per dire ‘amare di più e amare di meno’: si dice ‘amare e odiare’, ma questo non ha nulla a che fare con il nostro “odiare”. Se dovessimo tradurre non solo la lettera ma anche il pensiero, dovremmo tradurre così: “Se qualcuno viene a me e non mi ama più di suo padre e della madre e della moglie e dei figli e dei fratelli e delle sorelle, sì, e perfino della sua propria anima, non può essere mio discepolo”. Molto bene quindi traduce PdS: “Se qualcuno viene con me e non ama me più del padre e della madre, della moglie e dei figli, dei fratelli e delle sorelle, anzi, se non mi ama più di se stesso, non può essere mio discepolo”.
Il torto della scuola che si rifà alla storia delle forme è di andare molto oltre. Anziché fermarsi giustamente a capire le forme espressive semitiche per renderle comprensibili al nostro modo di intendere occidentale, va ben oltre rinchiudendo tutto nel mito. In questo modo la rivelazione di Dio si riduce a puro evento umano ammantato da proiezioni mitiche. C’è da domandarsi però come mai un uomo qualsiasi mitizzato sia diventato fonte di predicazione convinta e perenne. C’è da domandarsi anche: se Yeshùa è solo un mito, come possiamo sapere che è in Yeshùa e non in Maometto o in Buddha che Dio ci interpella? Se non esiste nulla di soggettivo non possiamo essere sicuri di nulla. Ma, alla fine, è proprio necessario negare lo Yeshùa storico? Non è davvero possibile gettare un ponte tra lo Yeshùa storico e lo Yeshùa della fede? Per Paolo, Yeshùa era sia colui che “si è manifestato come uomo” sia colui che “fu annunziato ai popoli pagani” sia colui che “fu portato nella gloria di Dio”. – 1Tim 3:16, PdS.
3. Con il metodo storico-redazionale di recente altri studiosi si sono dedicati ad esaminare il modo in cui i singoli evangelisti hanno presentato i propri racconti. Così si è scoperto che non solo Giovanni, ma anche i sinottici esprimono ciascuno una propria teologia. Questo è evidente dal fatto che ognuno dei quattro Vangeli scritti ha materiale proprio, omette parti presenti negli altri e include parti omesse dagli altri. Tenendo conto che tutto questo avveniva sotto il controllo della comunità che era stata direttamente testimone degli eventi o era testimone delle genuine tradizioni degli apostoli, il contenuto dei quattro Vangeli scritti non poteva che essere storico e quindi veritiero. Questo metodo ha il grande pregio di illuminarci sulle intenzioni teologiche di ciascuno dei quattro evangelisti. Scopriamo così che Marco scrisse principalmente per i romani, Matteo per gli ebrei, Luca per ebrei e non ebrei, Giovanni per rafforzare i credenti.