Anzitutto, Luca premette all’attività del battezzatore una lunga serie di dati cronologici (che a noi oggi dicono poco) che avevano un certo valore al tempo (Lc 3:1,2). Con queste indicazioni l’autore, secondo lo stile degli storici greci, intende situare l’opera del precursore in un complesso storico-geografico: Yeshùa non è una persona al di là della storia, ma si muove all’interno d’essa ed è ben controllabile. I dati lucani vogliono sottolineare l’importanza dell’evento che si sta per svolgere e che riguarda l’inizio dell’attività di Yeshùa tra il popolo, più che l’attività del battezzatore.
L’anno primo di Tiberio, secondo le monete da lui fatte coniare, ebbe inizio nell’agosto del 766 ab urbe condita (“dalla fondazione della città”, Roma). Quindi l’inizio dell’“anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare” (3:1) corrispondeva per gli ebrei al 19 agosto del 781 (ma per i romani era il 19 agosto 782).
“Ponzio Pilato era governatore della Giudea” (3:1), ed egli lo fu dal 26 al 36 E. V., con capitale a Cesarea sul mare; sotto il suo controllo erano anche la Samaria e l’Idumea.
“Erode [era] tetrarca della Galilea” (3:1): si tratta di Erode Antipa, figlio di Erode il Grande; il titolo “tetrarca” non indicava allora il capo della quarta parte del territorio (“tetra” in greco significa “quattro”), ma un’autorità minore dell’etrarca (cfr. Plutarco, Ant. 36; Tacito, Annales 15,25). Egli governò la Galilea e la Perea dal 750 di Roma (anno della morte di Erode), vale a dire dal 4 a. E. V. 34 E. V..
“Filippo, suo fratello [di Erode Antipa], [era] tetrarca dell’Iturea e della Traconitide” (3:1). Filippo era fratellastro di Antipa: era figlio di Erode il Grande e di sua moglie Cleopatra. L’Iturea e la Traconitide erano a oriente della Galilea, al di là del lago, regioni di scarsa importanza. Lui pure governò dal 4 a. E. V. al 34 E. V..
“Lisania [era] tetrarca dell’Abilene” (3:1), regione dell’Antilibano, con capitale ad Abila, che comprendeva anche il monte Hermon. L’esistenza storica di Lisania, posta a lungo in dubbio, fu confermata da due iscrizioni che parlano del “tetrarca Lisania al tempo di Tiberio. – Cfr. Savignac, Texte complet d l’inscription d’Abila à Lysanias, in Rivista Biblica 1912, 530-540.
Luca ricorda anche i due pontificati dei “sommi sacerdoti Anna e Caiafa” (3:2). Anna fu sommo sacerdote dal 6 al 15 E. V., quando fu deposto dal procuratore romano Valerio Grato. Fu quindi sostituito dal genere Caifa (Caiafa) dal 18 al 36 E. V., anno in cui egli pure venne deposto da Vitellio. Luca ricorda tanto Caifa (sommo sacerdote di quel tempo) quanto Anna perché, pur non possedendo più l’alto grado gerarchico, quest’ultimo godeva pur sempre di un prestigio eccezionale in Israele (tanto che era il dirigente della politica giudaica). Siccome Anna era stato sommo sacerdote, conservò il titolo anche dopo la sua deposizione.
Scrivendo ai credenti del paganesimo, Luca omette di specificare il cibo e il vestito del battezzatore: questi aspetti lo presentavano come un antico profeta (Elia), ma ai gentili (pagani) la cosa non diceva nulla. Luca segue Mr per la parte storica e la fonte dei lòghia (discorsi) per la parte discorsiva rivolta alle “folle” (Lc 3:7), riporta le parole del battezzatore senza nominare i farisei e i sadducei (Mt 3:13). Luca aggiunge il dubbio delle folle: “Tutti si domandavano in cuor loro se Giovanni fosse il Cristo” (Lc 3:15). Luca presenta anche una citazione di Isaia più completa, che invece Mr e Mt abbreviano; forse il suo scopo fu quello di poter presentare (ai pagani) anche la finale universalistica: “Ogni creatura vedrà la salvezza di Dio”. – Lc 3:6; cfr. Is 40:5: “Tutti, allo stesso tempo, la vedranno”.
In Lc il discorso del battezzatore ha due parti. La prima (parallela a Mt) è più generica (Lc 3:7-9) e il precursore parla come un antico profeta insistendo sulla conversione; nella seconda parte (vv. 10-14), propria di Lc, il battezzatore si rivolge a tre categorie di persone: 1) le folle, 2) gli esattori, 3) i soldati.
Ai meno poveri Giovanni risponde con le stesse parole di Isaia 58:7:
Lc 3:11 |
Is 58:7 |
“Chi ha due tuniche, ne faccia parte a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto” |
“Che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo copra” |
Il battezzatore segue l’ordine inverso di Isaia e parla prima di vestire chi è nudo e poi di dar da mangiare a chi è affamato. Isaia va invece dal più facile al più difficile: dar da mangiare e vestire. Giovanni inizia dal più difficile.
C’è una sottigliezza nel verbo greco reso “ne faccia parte” che i traduttori non colgono. Anche TNM traduce: “Chi ha due vesti ne dia parte a chi non ne ha”. Il greco ha μεταδότω (metadòto), che è un aoristo 2° imperativo; si tratta dell’inizio di un’azione; meglio tradurre: “Chi ha due tuniche cominci a darne a chi non ne ha”; si tratta di un inizio voluto e ponderato. Nella seconda espressione, invece, il verbo è all’imperativo presente: ποιείτω (poièito); letteralmente: “continui a fare”; la frase intera è, letteralmente: “Chi ha da mangiare continui a fare lo stesso”, ovvero a dividerlo (riferimento alle due tuniche) con chi non ne ha. Giovanni inizia con il suggerimento più facile: nel Medio Oriente non c’è pericolo che uno inizi a mangiare senza invitare i presenti a partecipare, condividendo il proprio cibo.
Arrivano poi altre due classi di persone. Gli esattori di tasse erano guardati con avversione e ritenuti dei peccatori perché erano facilmente mossi dalla bramosia ed eccedevano nel richiedere i contributi. Ne derivava la resistenza dei tassati e l’ingordigia dei riscuotitori. Alcuni cittadini (come quelli di Palmira) erano così esasperati dai soprusi degli esattori che avevano scritto su una colonna di marmo l’importo delle tasse, in modo che nessuno esigesse più del dovuto. Molti ebrei ritenevano gli esattori indegni di poter entrare nel “regno di Dio” se continuavano nel loro mestiere. È da questo fatto che derivava il timore degli esattori nel presentarsi al battezzatore. È detto che “la folla lo interrogava” (3:10) e “lo interrogarono pure dei soldati” (3:14), ma quando “vennero anche dei pubblicani per essere battezzati” “gli dissero: ‘Maestro, che dobbiamo fare?’” (3:12). Il battezzatore risponde loro: “Non riscotete nulla di più di quello che vi è ordinato” (3:13); così anche in TNM: “Non esigete nulla di più della tassa prescritta”. Anche qui il traduttore non coglie la finezza del verbo greco: μηδὲν […] πράσσετε (medèn […] pràssete), negazione con imperativo presente, “non continuate ad esigere”. Si tratta di gente del mestiere che deve cambiare non il lavoro, ma il modo d’agire. Essi non dovevano più fare pressione servendosi delle guardie di finanza che di solito seguivano gli esattori. Il battezzatore mostra vedute larghe, giacché – senza alcun fanatismo – non esige l’abbandono della loro professione (cosa che invece avrebbero richiesto i giudei suoi contemporanei). Si spiega così come il battezzatore fosse ben voluto dal popolo che trovava in lui l’antico spirito profetico indulgente verso i peccatori pentiti. Ben diversi i farisei e i sadducei, che criticavano aspramente, essendo esponenti di un rigorismo contrario ai pubblicani (= esattori).
Si fanno poi più avanti i “soldati“ (3:14). Ha del comico l’espressione resa da TNM: “Quelli in servizio militare“. Si tratta di στρατευόμενοι (strateuòmenoi), “guardie”. Non potevano essere guardie romane: si tratta di un plurale; qualche guardia romana poteva avere interesse per la spiritualità ebraica, ma era ben difficile che un gruppo o diverse guardie romane fosse lì per quel tipo d’interesse e per di più domandasse: “E noi, che dobbiamo fare?”. Sarebbe poi curioso (per non dire ridicolo) che degli ebrei fossero “in servizio militare“ (presso chi? I romani?!). Di che guardie si trattava, allora? Si trattava di giudei assoldati come guardie per accompagnare gli esattori nella riscossione delle tasse. Infatti, queste guardie parlano subito dopo i pubblicani (esattori) e dicono: “E noi, che dobbiamo fare?” (3:14). Si noti: “E noi?” (καὶ ἡμεῖς;, kài emèis?). Giovanni risponde: “Non fate estorsioni, non opprimete nessuno con false denunzie, e contentatevi della vostra paga” (3:14). Sulla stessa riga TNM: “Non angariate né accusate falsamente nessuno, ma siate soddisfatti delle vostre provvisioni”. E di nuovo vengono perse nella traduzione le sfumature dei verbi greci: μηδένα διασείσητε (medèna diasèisete), imperativo aoristo, “non cominciate ad estorcere”; ἀρκεῖσθε (arkèisthe), imperativo presente, “continuate ad accontentarvi”. L’uso del verbo (“non cominciate”) fa presupporre che si trattasse di guardie giovani. Il battezzatore non impone neppure a loro di cambiare professione, ma solo di non lasciarsi trascinare anch’essi dall’andazzo comune e di continuare ad accontentarsi della loro paga. Giovanni non dice solo che non devono cominciare a estorcere, ma dice anche: μηδὲ συκοφαντήσητε (medè sükofantèsete), sempre imperativo aoristo, “non cominciate a opprimere”. Il verbo può anche significare “accusare falsamente” (scelta optata da TNM), ma cosa c’entra qui l’”accusare falsamente”? Giovanni dice loro: “Non cominciate a estorcere e a opprimere”. I soldati o guardie potevano costringere la gente a lavorare per loro. In Mr 15:21 i soldati “costrinsero [un passante] a portare” il palo di tortura di Yeshùa (per TNM lo “costrinsero […] a prestare servizio”!). Le guardie potevano anche requisire cibo, cavalli, merce.
Anche Luca riporta che l’attività di Yeshùa, profetizzata dal battezzatore, sarebbe stata quella di battezzare “in Spirito Santo e fuoco”. – 3:16.