C’è una trinità nel battesimo di Yeshùa?
“Gesù, appena fu battezzato, salì fuori dall’acqua; ed ecco i cieli si aprirono ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui. Ed ecco una voce dai cieli che disse: «Questo è il mio diletto Figlio, nel quale mi sono compiaciuto»”. – Mt 3:16,17.
Nel battesimo di Yeshùa non si tratta tanto di una presunta trinità quanto del fatto che è la persona di Yeshùa ad essere messa in risalto, specialmente dal punto di vista della storia salvifica. Vi è un’analogia con gli interventi di Yhvh o del suo spirito all’inizio della missione liberatrice del tempo dei Giudici o del ministero profetico. Si tratta della consacrazione ufficiale in cui s’insinua la concezione che il glorioso re messianico deve presentarsi prima, in modo paradossale, con i tratti del “servo di Yhvh”. Il battesimo di Yeshùa è, appunto, il debutto della sua missione.
Ciononostante, da parte di alcuni studiosi si vuole vedere nel battesimo di Yeshùa la manifestazione trinitaria: un unico Dio in tre persone: Padre, figlio (o Verbo) e spirito santo.
Che vi si parli di tre entità (se così si può dire) è chiaro. Il Padre è presente nella voce che proclama dai cieli: “Questo è il mio diletto Figlio, nel quale mi sono compiaciuto” (Mt 3:17). Che egli sia un essere personale distinto non ci sono dubbi e va accettato. Si tratta di Dio! Vi è anche un’altra persona: Yeshùa, ma si tratta di una persona umana. Costui, che si fa battezzare, è proclamato da Dio “figlio”. Va però notato che l’espressione “Tu sei mio figlio” era una forma di adozione usata per il re al momento della sua intronizzazione. In Sl 2:2 la Bibbia parla dei nemici di Israele che si accordano contro il suo re: “I re della terra si danno convegno e i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e contro il suo Unto”. Si noti che il re di Israele è chiamato “unto” (“messia” in ebraico, “cristo” in greco). Al v. 4 continua: “Colui che siede nei cieli ne riderà; il Signore si farà beffe di loro”. Poi, al v. 6, Dio afferma che è stato proprio lui a stabilire il suo re a Gerusalemme: “’Sono io’, dirà, ‘che ho stabilito il mio re sopra Sion’”. Questo re è detto figlio di Dio: “Tu sei mio figlio, oggi io t’ho generato”. – V. 7.
Dio è Dio. Yeshùa è un uomo che Dio consacra (unge, in senso biblico) e per tale consacrazione egli diventa “unto” o “messia” o “cristo” e “figlio”. Lo spirito è la forza o potenza di Dio; appartenendo a lui, è santo. Che c’entra mai la trinità pagana con tutto ciò?
Circa la presentazione che le Scritture Greche fanno di Yeshùa si può osservare il seguente progresso:
- Nei primissimi inizi della chiesa o congregazione dei discepoli, Yeshùa era visto come il messia (consacrato) che dopo essere stato ucciso sarebbe tornato sulla terra per ristabilire il regno di Israele: “Signore, è in questo tempo che ristabilirai il regno a Israele?” (At 1:6), “Affinché vengano dalla presenza del Signore dei tempi di ristoro e che egli mandi il Cristo che vi è stato predestinato, cioè Gesù, che il cielo deve tenere accolto fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose; di cui Dio ha parlato fin dall’antichità per bocca dei suoi santi profeti. Mosè, infatti, disse: ‘Il Signore Dio vi susciterà in mezzo ai vostri fratelli un profeta come me; ascoltatelo in tutte le cose che vi dirà. E avverrà che chiunque non avrà ascoltato questo profeta, sarà estirpato di mezzo al popolo’. Tutti i profeti, che hanno parlato da Samuele in poi, hanno anch’essi annunziato questi giorni. Voi siete i figli dei profeti e del patto che Dio fece con i vostri padri”. – At 3:20-25.
- In un tempo, anch’esso antico, si affermava che Yeshùa era stato reso “Signore” e messia con la sua resurrezione ed elevazione al cielo: “Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato […] essendo stato esaltato dalla destra di Dio […] egli stesso [Dio] dice: Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io abbia posto i tuoi nemici per sgabello dei tuoi piedi. Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso’” (At 2:32-36); “Noi vi portiamo il lieto messaggio che la promessa fatta ai padri, Dio l’ha adempiuta per noi, loro figli, risuscitando Gesù, come anche è scritto nel salmo secondo: Tu sei mio Figlio, oggi io t’ho generato” (At 12:32,33). Questa concezione riappare in Rm 1:4: “Dichiarato Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità mediante la risurrezione dai morti; cioè Gesù Cristo, nostro Signore”.
- Nei sinottici si parla di figliolanza divina alla trasfigurazione e al battesimo di Yeshùa. Tuttavia, vi è pur sempre l’indicazione che Yeshùa sarà palesato apertamente come messia solo dopo la sua resurrezione: “Mentre scendevano dal monte, egli ordinò loro di non raccontare a nessuno le cose che avevano viste, se non quando il Figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti” (Mr 9:9). Marco avvolge le manifestazioni di Yeshùa dentro una duplice barriera: quella dell’ordine di tacere (segreto messianico) e quella dell’incomprensione dei discepoli. Le Scritture Greche procedono da una cristologia (studio delle cose riguardanti Yeshùa) di elevazione ad una cristologia d’incarnazione. Marco rimane a metà strada in questo processo, che fu condotto più avanti da Matteo e da Luca. Il battesimo ha creato nell’esperienza stessa di Yeshùa la convinzione (allora manifestatasi in modo irresistibile) d’essere chiamato da Dio. Questo sgorga dal fatto che Yeshùa vide il cielo aprirsi e lo spirito santo scendere su di sé, facendolo sentire inequivocabilmente chiamato da Dio. Marco si ferma qui: non una parola sul concepimento ad opera dello spirito santo e sulla parola creatrice di Dio che scese ad abitare in lui. Ma Yeshùa rimane pur sempre il centro del cosmo: dopo il battesimo lo troviamo tra gli angeli.
- L’ultima fase è quella di Luca e Matteo (che narrano il concepimento straordinario di Yeshùa), e di Giovanni (che presenta in Yeshùa la discesa della parola divina). Questi tre evangelisti illustrano il significato salvifico dell’uomo Yeshùa vissuto in mezzo a noi, messo al palo e risorto. Per sottolineare ed enfatizzare l’importanza di Yeshùa, essi utilizzano la categoria semitica della preesistenza, tanto sconosciuta alla cultura occidentale che l’ha fraintesa leggendola come letterale. Tuttavia, pur nel grave fraintendimento, non si potrà mai sminuire la piena umanità di Yeshùa e la sua ricchezza di persona pienamente umana.
Tornando alla pretesa di certi studiosi di vedere nel battesimo di Yeshùa la presunta trinità, va detto che lo spirito santo nella Bibbia non è mai presentato come una persona a sé stante. È vero che a volte lo spirito di Dio è personificato, ma questo avviene anche per la sapienza di Dio e la parola di Dio. Lo spirito santo è sempre indicato come potenza divina, come forza vivificante che sorregge e spinge all’azione. Scendendo su Yeshùa lo “unge” (consacra) come messia: “Contro il tuo santo servitore Gesù, che tu [Dio] hai unto, si sono radunati” (At 4:27); “La storia di Gesù di Nazaret; come Dio lo ha unto di Spirito Santo e di potenza” (At 10:38). Lo spirito di Dio lo conduce nel deserto: “Lo Spirito lo sospinse nel deserto” (Mr 1:12). È la potenza divina, lo spirito santo di Dio, che conferisce a Yeshùa la potenza di compiere prodigi e lo fa esultare di gioia. – Lc 10:21.
Hanno fatto bene alcuni teologi cattolici olandesi (come A. Hulbosch, E. Schillebecckx e P. Schoonenberg) a voler rivedere la proclamazione del concilio di Calcedonia per tentare una nuova cristologia che sia più conforme al pensiero biblico orientale, anziché alle categorie del pensiero occidentale che dominano nella Chiesa Cattolica sin dal concilio di Nicea (325 E. V.). Spesso, tuttavia, le forze umane premono sulle concezioni religiose della propria denominazione per bollare come apostata qualsiasi tentativo di leggere la Scrittura senza il filtro dell’interpretazione del gruppo dirigente autoproclamatosi strumento di Dio.
I teologi che sostengono la trinità hanno sempre forzato l’interpretazione della Scrittura. In passato, volevano addirittura vedere la trinità dietro le parole di un passo genesiaco: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza” (Gn 1:26). Questo plurale è stato spiegato da alcuni teologi come trinitario; da alcuni critici come un residuato di politeismo; da altri (scarsi conoscitori della Scrittura) come un pluralis maiestatis, ignorando che il plurale maiestatico è del tutto estraneo all’ebraico. Il fatto è che si tratta di un plurale deliberativo che la Bibbia usa per indicare l’idea che Dio, quasi conversando con se stesso, chiami a raccolta tutte le sue forze per creare un essere che ha una dignità unica in tutto l’universo. È un modo semitico per esprimere concretamente la creazione dell’uomo.
Anche il trisagio “Santo, santo, santo” (Is 6:2) che i serafini si scambiano a vicenda nella visione isaiana, è un modo superlativo per esprimere la diversità e l’elevatezza di Dio al di sopra di tutto il creato. Se si volesse tradurre quel trisagio in un linguaggio occidentale moderno e filosofico si potrebbe dire: “completamente altro”. Nei secoli e nei millenni in cui gli ebrei sono stati e sono tuttora fedelissimi al monoteismo biblico, quell’espressione non potrebbe mai e poi mai essere intesa come una specie di presagio trinitario. Quell’espressione doveva integrarsi con la verità fondamentale di Dt 6:4:
שְׁמַע יִשְׂרָאֵל יְהוָה אֱלֹהֵינוּ יְהוָה אֶחָד
shemà israèl Yhvh elohènu Yhvh ekhàd
ascolta, Israele, Yhvh è nostro Dio, Yhvh è uno
Chi legge nel “Santo, santo, santo” la trinità non solo non ha capito alcunché, ma ha capito completamente male (il che, riferito al passo, è una bestemmia).
Con l’esilio, la speculazione giudaica comprese che Dio era qualcosa di così immenso da non potersi esaurire in un solo vocabolo e in una sola idea. Fu per questa comprensione che si andarono trovando varie sfaccettature che, per essere meglio poste in risalto, furono personificate. Questo era conforme al modo di pensare ebraico. Nacquero così le personificazioni dei vari attributi di Dio, come la sapienza e la parola. Siamo sempre nella concezione monoteistica di Dio, ma Dio é visto nelle sue varie angolazioni e nei suoi diversi aspetti. Anche le Scritture Greche (scritte da ebrei che, pur scrivendo in greco, pensavano in ebraico) mantengono ovviamente questa concezione monoteista di Dio. Essa è biblica. È verità.
Yeshùa mostra di possedere una relazione tutta speciale con Dio: egli conosce Dio come Padre e lo conosce come compete a un figlio. Ma Yeshùa è un uomo e parla come persona umana presente, per cui tutto va inteso secondo la psicologia orientale. Yeshùa dice: “Prima che Abraamo fosse nato, io sono” (Gv 8:58), in quanto la parola di Dio dimorava il lui. “La Parola è divenuta carne e ha risieduto [letteralmente: “si è attendata”] fra noi” (Gv 1:14, TNM): non che egli fosse la parola creatrice di Dio. Che Yeshùa sia “prima” di Abraamo non va inteso in senso cronologico, ma come espressione di dignità: Yeshùa viene prima perché è superiore. Tale superiorità di Yeshùa rispetto a qualsiasi altro profeta è espressa in Gv 10:32-38: “Gesù disse loro: ‘Vi ho mostrato molte buone opere da parte del Padre mio; per quale di queste opere mi lapidate?’ I Giudei gli risposero: ‘Non ti lapidiamo per una buona opera, ma per bestemmia; e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio’. Gesù rispose loro: ‘Non sta scritto nella vostra legge: Io ho detto: voi siete dèi? Se chiama dèi coloro ai quali la parola di Dio è stata diretta (e la Scrittura non può essere annullata), come mai a colui che il Padre ha santificato e mandato nel mondo, voi dite che bestemmia, perché ho detto: Sono Figlio di Dio? Se non faccio le opere del Padre mio, non mi credete; ma se le faccio, anche se non credete a me, credete alle opere, affinché sappiate e riconosciate che il Padre è in me e che io sono nel Padre”. Anche se i giudei volevano lapidare Yeshùa perché secondo loro si era fatto Dio pur essendo uomo, ciò va inteso in senso relativo e non sostanziale. Dio è in lui e lui in Dio, appunto perché compie le opere di Dio con autorità divina. Yeshùa, infatti, spiega: “Se non faccio le opere del Padre mio, non mi credete; ma se le faccio, anche se non credete a me, credete alle opere, affinché sappiate e riconosciate che il Padre è in me e che io sono nel Padre”. Ma queste stesse parole sono pure ripetute per i discepoli di Yeshùa: “Che siano tutti uno; e come tu, o Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato. Io ho dato loro la gloria che tu hai data a me, affinché siano uno come noi siamo uno; io in loro e tu in me; affinché siano perfetti nell’unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me”. – Gv 17:21-23.
In Gv 1:18 è detto che Yeshùa “è nel seno del Padre”. La solita lettura occidentale della Bibbia legge questa espressione come un dato letterale. La stessa TNM (che non ammette la trinità), prima spiega bene il passo (“Che è nel[la posizione del] seno presso il Padre“, corsivo aggiunto), ma poi (quasi non avesse compreso la verità che ha espresso) cita nei passi paralleli Pr 8:30 (“Ero accanto a lui come un artefice”), per smentire di fatto quello che aveva correttamente compreso: se era nella posizione del seno significa che aveva la piena considerazione di Dio, ma se poi si identifica Yeshùa con la sapienza di Pr non si tratta più di una posizione ma di una collocazione fisica. Come va intesa allora l’espressione “nel seno del Padre”? Va intesa come la Bibbia la intende. La parola usata per “seno” è κόλπος (kòlpos), numero Strong 2859, spiegata come “la parte anteriore del corpo tra le braccia” (“petto”, per capirci). È la stessa parola che si usa in Gv 13:23: “Ora, a tavola, inclinato sul petto [κόλπῳ, kòlpo] di Gesù, stava uno dei discepoli”; quella posizione particolarmente amichevole esprimeva il profondo affetto tra l’apostolo Giovanni e Yeshùa. L’ebraico, sempre molto concreto, usa la stessa espressione per indicare la profonda considerazione che si ha per qualcuno. Solo un occidentale che ignora completamente il linguaggio semitico può dedurre che essere “nel seno di Dio” significherebbe essere preesistito presso Dio. In italiano si direbbe: ‘Dio lo ha molto a cuore’; il semita dice: ‘Egli è nel seno di Dio’.
La natura di Yeshùa era umana: “C’è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo” (1Tm 2:5). Fu per la sua missione, e non per la sua natura, che è detto che Yeshùa viene dal Padre: “I suoi discepoli gli dissero: ‘Ecco, adesso tu parli apertamente, e non usi similitudini. Ora sappiamo che sai ogni cosa e non hai bisogno che nessuno ti interroghi; perciò crediamo che sei proceduto da Dio’”. – Gv 16:29,30.
I semiti non guardano tanto all’essenza di Dio, ma al suo modo di esprimersi, alla sua attività. I filosofi occidentali parlano dell’esistenza di Dio (Dio esiste), mentre gli ebrei insistono sulla sua vitalità: egli è Il Vivente. Proprio perché Dio è dotato di vitalità, egli la riversa al di fuori di sé nella creazione, e specialmente nell’uomo che (partecipando al “soffio” di Dio) diviene il “vivente” per eccellenza sulla terra. Ma la vita dell’uomo è strettamente legata a Dio, ha bisogno di essere rinnovata ad ogni istante, per cui quando violerà i comandi di Dio egli certamente morrà. “Dio il Signore formò l’uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale e l’uomo divenne un’anima vivente”. – Gn 2:7.
Nella concezione biblica Dio il vivente dà a Yeshùa per mezzo del suo spirito (che è potenza) la vita. In questo modo Yeshùa diventa il secondo Adamo, vivificante. Con il battesimo, quello stesso spirito abilita Yeshùa alla sua missione. Con la resurrezione, lo spirito di Dio lo mostra nella gloria che gli compete, dopo la sua ubbidienza, rendendolo il primogenito dei risorti: “Dichiarato Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità mediante la risurrezione dai morti; cioè Gesù Cristo, nostro Signore”. – Rm 1:4.
Alla sua gloria parteciperanno anche i suoi discepoli.