Il Vangelo scritto di Marco è il vangelo del segreto messianico. Questo Vangelo fa, infatti, risaltare che Yeshùa, all’inizio della sua predicazione, conservò il silenzio più assoluto sulla sua funzione messianica e impose tale silenzio anche agli altri:
“Egli disse loro: ‘A voi è dato di conoscere il mistero del regno di Dio; ma a quelli che sono di fuori, tutto viene esposto in parabole, affinché: Vedendo, vedano sì, ma non discernano; udendo, odano sì, ma non comprendano; affinché non si convertano, e i peccati non siano loro perdonati’”. – Mr 4:11,12.
Ai demòni che lo riconoscono, Yeshùa ordina di tacere:
“’Sei venuto per mandarci in perdizione? Io so chi sei: Il Santo di Dio!’ Gesù lo sgridò, dicendo: ‘Sta’ zitto!’”. – Mr 1:24,25.
“Scacciò molti demòni e non permetteva loro di parlare, perché lo conoscevano”. – Mr 1:34.
“Egli ordinava loro con insistenza di non rivelare la sua identità”. – Mr 3:12.
Lo stesso silenzio circa la sua identità lo impone ai malati che guarisce e ai morti che resuscita:
“Guarda di non dire nulla a nessuno”. – Mr 1:44.
“Gesù ordinò loro di non parlarne a nessuno”. – Mr 7:36.
“Gesù lo rimandò a casa sua e gli disse: ‘Non entrare neppure nel villaggio’”. – Mr 8:26.
“Egli comandò loro con insistenza che nessuno lo venisse a sapere”. – Mr 5:43.
Ai discepoli stessi che lo confessano, Yeshùa impone il silenzio, ordinando di non riferirlo a nessuno:
“Egli domandò loro: ‘E voi, chi dite che io sia?’ E Pietro gli rispose: ‘Tu sei il Cristo’. Ed egli ordinò loro di non parlare di lui a nessuno”. – Mr 8:29,30.
Lo stesso Marco sottolinea che Yeshùa “non voleva farlo sapere a nessuno”. – 7:24; cfr. 9:30.
Vi è anche un segreto circa il regno di Dio: “Il mistero del regno di Dio” (Mr 4:11; meglio tradotto con “sacro segreto”, TNM). Le spiegazioni delle parabole avvengono privatamente (4:34), così come quelle di certi miracoli (9:28). La persona stessa di Yeshùa è rivelata nella gloria a pochissimi intimi (9:2). Anche le realtà future sono dette “in disparte” (13:3). Una presentazione più completa è spesso data solo ai quattro discepoli chiamati per primi (1:16-20,29;5:37;9:2;13:3;14:33). Anche la profezia della passione è data mentre sono per via, lontano dalle folle. – 8:27;9:33;10:32.
I soliti studiosi che cercano di spiegare la Scritturaumanamente, ritengono che tali segreti siano un’invenzione di Marco (W. Wrede, Das Messiasgeheimnis in den Evangelien, Göttingen, 1901, terza edizione 1963; G. Minette de Tillesse, Le secret messianique dans l’évangile de Marc, Paris, Editions du Cerf, 1968; H. Conzelmann, Grundiss der Theologie des N. Testament, 1968, pag. 159; R. Bultmann, Theologie des N. T., 1958). Al contrario, si può ammettere che questo segreto sia un ricordo della precedente tradizione orale cui Marco diede un risalto particolare. Infatti, il titolo sul palo (“Yeshùa nazareno re dei giudei”), la confessione di Pietro, l’ingresso in Gerusalemme e il processo a Yeshùa mostrano una tensione tra la realtà messianica di Yeshùa e la sua manifestazione. In altre parole: la sua proclamazione quale consacrato (o messia o cristo) poteva essere malamente intesa e strumentalizzata quale accusa di indipendentismo dal dominio romano e ristabilimento del regno giudaico sovrano. Yeshùa stesso aveva quindi tutto l’interesse a non proclamarsi apertamente quale messia: non voleva prestarsi alla strumentalizzazione degli ebrei che s’attendevano un messia politico pronto a liberare la nazione dall’occupazione romana. È proprio per questo che Marco non chiama mai Yeshùa con il nome di messia o cristo (che è la traduzione greca del termine ebraico che significa “unto” o consacrato). Il titolo di “cristo” appare in Mr solo sei volte: in 1:1 è più nome proprio che titolo, infatti appare come Ἰησοῦ Χριστοῦ (Iesù Christù, Yeshùa Consacrato; qui al caso genitivo) senza articolo (nel resto delle Scritture Greche appare come “Yeshùa il consacrato); in 12:35 e 13:21 probabilmente è corrotto (cfr. critica testuale) e, comunque, è usato in senso astratto e non riferito a Yeshùa direttamente; in 15:32 è una parola di scherno: “Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, affinché vediamo e crediamo!”; in senso proprio appare solo nella domanda del sommo sacerdote: “Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?” (14:61) e nella confessione di Pietro. – 8:29.
Oggi sì che si possono applicare le parole di Gv 16:25:
“L’ora viene che non vi parlerò più in similitudini, ma apertamente”.
Il silenzio di Yeshùa viene rotto dalla scena di Cesarea, che sta appunto al centro dello scritto di Marco e segna una svolta nell’insegnamento di Yeshùa: “Pietro gli rispose: ‘Tu sei il Cristo’” (8:29). Infatti: “Poi cominciò a insegnare loro che era necessario che il Figlio dell’uomo soffrisse molte cose” (8:31). Quel “cominciò” indica un orientamento nuovo nell’insegnamento di Yeshùa, che si esprime più apertamente e non in senso velato: “Diceva queste cose apertamente” (v. 32). Successivamente, alle porte di Gerico, un cieco “si mise a gridare e a dire: ‘Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!’” (10:47), e lo fa due volte; eppure, Yeshùa non gli impone il silenzio: segno che il segreto messianico non urgeva più.
A Gerusalemme Yeshùa parla della sua autorità (11:27-33), espone la parabola dei vignaioli assassini ben compresa dagli avversari (12:1-12), parla della resurrezione dei morti (12:18-27) e perfino del figlio di Davide (12:35, sgg.). Il tocco finale è dato dalla confessione di Yeshùa davanti al sommo sacerdote che gli domanda se lui è il messia o consacrato: “Lo sono”. – 14:62, TNM.
Secondo Marco, Yeshùa – pur possedendo la dignità d’inviato divino, pur sapendo che a motivo di questa ha una potenza taumaturgica indiscutibile – la soffoca non solo per non dare adito alla incomprensione giudaica, ma anche perché egli doveva prima soffrire con spirito ubbidiente e compiere la parte dello “schiavo” sofferente per poi divenire “Signore e Cristo” (At 2:36). Il segreto messianico è un modo di esprimere l’umile ubbidienza di Yeshùa (che Mt e Lc sottolineano con il racconto delle tentazioni). La gloria era sempre presente in Yeshùa, ma la doveva soffocare con il silenzio messianico.
Nello scritto marciano Yeshùa si rivendica il titolo di “figlio dell’uomo” (14 volte). Dal fatto che tale espressione fu usata solo da Yeshùa e non da coloro che gli si rivolgono, appare che essa risalga davvero a lui e non fu la comunità ad applicargliela. Questo titolo di “figlio dell’uomo”, quasi subito dimenticato dalla cristianità, fu ben presto sostituito da altri più suggestivi. Questa espressione riferita da Yeshùa a se stesso può talora essere sinonimo di “io”: al passo mattaico “Chi dice la gente che sia il Figlio dell’uomo?” (Mt 16:13), Mr sostituisce giustamente il pronome: “Chi dice la gente che io sia?” (8:27). Un gentile, non abituato a questo modo di esprimersi, poteva non capire l’espressione, e quindi Marco la evita. “Figlio dell’uomo” era però anche un’espressione ricalcata da Dn 7:13,14 per descrivere un misterioso personaggio inviato da Dio per dominare sull’universo e che viene dall’alto delle nubi: “Ecco venire sulle nuvole del cielo uno simile a un figlio d’uomo […] gli furono dati dominio, gloria e regno, perché le genti di ogni popolo, nazione e lingua lo servissero. Il suo dominio è un dominio eterno che non passerà, e il suo regno è un regno che non sarà distrutto”. È in questo senso che Yeshùa usa il termine, innestando tuttavia in un tale contesto di dominio universale la nota della sofferenza (incomprensibile agli ebrei): il trionfatore che viene dalle nubi si identifica così con l’”uomo di dolore, familiare con la sofferenza”, il “servo” di Dio. – Is 53:3,11.
Marco anche nella passione di Yeshùa non usa il termine di ‘servo di Yhvh’ abituale nella comunità gerosolimitana: “A voi [giudei] per primi Dio, avendo suscitato il suo Servo”; “In questa città [Gerusalemme], contro il tuo santo servitore Gesù, che tu hai unto” (At 3:26;4:27). Marco usa l’epìteto “figlio dell’uomo”: “Era necessario che il Figlio dell’uomo soffrisse molte cose” (8:31); “Sta scritto del Figlio dell’uomo che egli deve patire molte cose” (9:31); “Il Figlio dell’uomo sarà dato nelle mani dei capi dei sacerdoti e degli scribi” (10:33). Marco pare voglia così sottolineare che la gloria di Yeshùa è conseguenza immancabile della sua sofferenza. È infatti confessando come consacrato (o unto o messia) il “figlio dell’uomo” abbassatosi a “servo” che si può partecipare alla sua gloria: “Se uno si sarà vergognato di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui quando verrà nella gloria del Padre suo con i santi angeli”. – 8:38.
Un secondo appellativo che ricorre in Mr è quello di “figlio di Dio”. Questo tutolo non va affatto inteso filosoficamente nel senso di avente la stessa natura di Dio, ma nel senso semitico di persona che ha una relazione particolare con Dio. Marco lo usa meno di Matteo, ma gli dà maggior risalto perché lo adopera nei momenti più decisivi del suo scritto. È la voce stessa proveniente da Dio che lo proclama tale durante il battesimo di Yeshùa: “Una voce venne dai cieli: ‘Tu sei il mio diletto Figlio; in te mi sono compiaciuto’” (1:11), proprio come il re ebreo era proclamato tale al momento della sua incoronazione regale: “Il Signore mi ha detto: ‘Tu sei mio figlio’” (Sl 2:7). Dio designa nuovamente Yeshùa come suo figlio durante la sua gloriosa trasfigurazione sulla montagna. – Mr 9:7.