Le fonti da cui Matteo trae il suo Vangelo scritto sono tre:
- Il Vangelo di Marco che è costantemente seguito come trafila e da cui si scosta solo per introdurvi il suo materiale. La teoria di Agostino che Marco abbia abbreviato il Vangelo mattaico è insostenibile: lo stile di Matteo è quasi sempre superiore a quello marciano. È ragionevole pensare che Matteo abbia migliorato lo stile di Marco, ma non che Marco abbia peggiorato quello di Matteo. Anche la vivacità di Marco eliminata da Matteo depone per la priorità di Marco su Matteo.
- Una collezione di “detti” (i lòghia o discorsi). Questi sono probabilmente i detti di cui parla Papia e che sarebbero stati scritti originariamente da Matteo in aramaico. Essi furono pure seguiti da Luca per la parte riguardante i discorsi di Yeshùa. Si spiega in tal modo come mai una dozzina di detti siano riferiti due volte da Matteo: questi li ha presentati una volta nel contesto in cui si trovavano presso Marco, e poi li ha riferiti una seconda volta quando li trovava nella parte dei discorsi da lui composta (oppure in altro documento scritto, oppure nella tradizione orale). L’esistenza di più traduzioni greche di questa fonte (detta Q, dal tedesco quelle, “fonte”; pure detta L dal greco lòghia, “discorsi”) rese possibile il suo uso da parte di Luca e la sua revisione da parte di Matteo quando la incorporò nella sua parte del Vangelo tratta da Marco. Tutti questi detti (fonte Q o L) furono sistemati in modo da servire come manuale d’istruzione per la comunità stessa dei discepoli di Yeshùa. Questi detti tradiscono un’origine aramaica in quanto molte divergenze tra i sinottici si possono ricondurre a un’unica parola aramaica sottostante. Non solo, ma diverse stranezze e incongruenze dei Vangeli scritti si spiegano e si chiariscono proprio ricostruendo (tramite la traduzione dal greco all’ebraico e quindi la ritraduzione dall’ebraico al greco) il sottostante testo ebraico/aramaico.
- Una parte propria al Vangelo scritto di Matteo, non comune né a Marco né a Luca, e che presenta probabilmente delle esperienze personali dell’autore.
Sembra quindi doveroso ammettere una composizione graduale del Vangelo scritto di Matteo. Verso l’anno 50 della nostra èra, una serie di discorsi (i lòghia), poi – tra il 70 e l’80 – la composizione attuale. Questa data, posteriore alla distruzione di Gerusalemme (70 E. V.) sembra suggerita dalle parole di una parabola:
“Altri poi, presero i suoi servi, li maltrattarono e li uccisero. Allora il re si adirò, mandò le sue truppe a sterminare quegli omicidi e a bruciare la loro città”. – Mt 22:6,7.
Queste parole mancano nel passo parallelo della stessa parabola in Lc 14:15-24. Questo particolare suppone la distruzione di Gerusalemme come un evento già avveratosi.
Che tutto l’attuale Vangelo scritto di Matteo sia una traduzione dall’aramaico viene suggerito dal fatto che alcuni passi sono frutto di una errata traduzione. Così, il “vino mescolato con fiele” di 27:34 sarebbe dovuto ad una erronea comprensione dell’aramaico מר (mor) che significa “mirra” e scambiato con מר (mar) che significa “amaro” (da cui “fiele”); l’errore di lettura (l’ebraico e l’aramaico si scrivono senza vocali) ha portato il traduttore a rendere il passo con “vino mescolato a fiele” anziché renderlo correttamente con “vino mirrato”. Il traduttore greco di Marco aveva invece interpretato bene, rendendo “vino mescolato con mirra”. – Mr 15:23.
In quanto al luogo di composizione, ne sono stati proposti molti. Tuttavia, si può pensare che il Vangelo sia stato scritto ad Antiochia in Siria per i giudei divenuti discepoli di Yeshùa.
L’autore
Sin dalla tradizione più antica, quello che nelle nostre Bibbie è il primo Vangelo è attribuito a Matteo. Ce lo dice il titolo già noto all’inizio del 2° secolo e ce lo confermano Papia, morto nel 130 (presso Eusebio, Hist. Eccl. 3,39,16); Ireneo, morto nel 200 (Adv. Haer. 3,1,1); Origène, morto nel 253/254 (presso Eusebio, Hist. Eccl. 16,15,4); ed Eusebio, morto nel 339 (Id. 3,24,6). Il primo a parlarne fu Papia, che sostiene che Matteo “mise per iscritto i ‘lòghia’ di Yeshùa in lingua ebraica, che poi ciascuno interpretò come potè” (presso Eusebio, Hist. Eccl. 3,39,16; corsivo aggiunto). La lingua detta “ebraica” in questo passo citato sembra che in realtà fosse l’aramaico. In quanto al termine “lòghia”, possono essere i discorsi (oppure, meno bene, i “fatti” relativi a Yeshùa – il termine ebraico דבר (davàr) può significare sia “discorso” che “fatto”). Il “mise per iscritto” (συνεγράψατο, sünegràpsato) va preferito alla variante “mise in ordine” (συνετάξατο, sünetàcsato). “Interpretò” si riferisce probabilmente al tradurre in greco più che a un’interpretazione orale. Tuttavia, gli studiosi tendono a mettere in dubbio il valore della testimonianza di Papia, pur ammettendo un originale testo ebraico/aramaico. L’attuale testo greco di Matteo è ritenuto comunque, come minimo, un rifacimento.
Contro l’attribuzione del Vangelo all’apostolo Matteo, già esattore di tasse al servizio dei romani, alcuni studiosi oppongono:
- La stranezza che un apostolo, testimone oculare, possa aver utilizzato lo scritto di Marco, un semplice discepolo che non visse con Yeshùa durante la sua vita pubblica. Tuttavia, può anche darsi che Matteo, trovando buono il racconto di Marco (di cui Pietro era la fonte), lo abbia adottato, pur integrandolo con i suoi dati personali.
- Il continuo riferimento di Matteo alle Scritture Ebraiche sembrerebbe opera di uno scriba piuttosto che di un esattore. Tuttavia, nella ricerca sistematica di tutti quei passi che nelle Scritture Ebraiche potevano essere riferiti a Yeshùa, Matteo poteva essere aiutato dai florilegi o raccolte di passi biblici applicabili a Yeshùa: che questi esistessero è dimostrato dal fatto che a Qumràn sono stati rinvenuti florilegi riferiti alla loro setta, e quindi era uso comune delle comunità di allora compilare tali raccolte antologiche.
Ma cosa sappiamo di questo Matteo che scrisse il Vangelo omonimo? “Matteo”, nome di etimologia incerta, significa probabilmente “dono di Dio” (se è un’abbreviazione di Matania (secondo Girolamo) oppure “fedele” (se ricollegabile alla radice ebraica ‘aman (secondo Nöldeke) oppure “virile” se derivato dall’assiro mutu (secondo Ehemann).
La sua vocazione o chiamata da parte di Yeshùa è narrata dai tre sinottici che (pur presentandone le circostanze identiche) chiamano questo esattore convertito con il nome di Matteo nel primo Vangelo (Mt 9:9-13 ha “Matteo”) e con il nome di Levi negli altri due (Mr 2:14-17 e Lc 5:27-32 hanno “Levi”). Solo Clemente alessandrino (Quis dives salvetur 13,5) e Origène (Contra Celsum 1,62) fanno distinzione tra Matteo e Levi come se fossero due persone diverse. Che un uomo avesse due nomi (uno ebraico e uno greco) era d’uso assai comune; ma che ne avesse due semitici (come nel caso di Matteo/Levi) sarebbe insolito. Può darsi però che uno dei due sia stato un semplice soprannome.
Che l’esattore Matteo/Levi sia divenuto apostolo è confermato dal catalogo degli apostoli del primo Vangelo (Mt) che ricordando Matteo gli aggiunge l’epiteto “l’esattore”: “I nomi dei dodici apostoli sono questi: […] e Matteo l’esattore di tasse” (Mt 10:2,3, TNM), richiamando così indubbiamente la scena della sua conversione ricordata poco prima: “Gesù, partito di là, passando, vide un uomo chiamato Matteo, che sedeva al banco delle imposte e gli disse: ‘Seguimi’. Ed egli, alzatosi, lo seguì” (Mt 9:9). Possibilmente il nome “Levi” fu preferito da Marco (e, di conseguenza, da Luca) per evitare il nome più noto di “Matteo” e così velare un po’ la sua precedente attività di peccatore (com’erano ritenuti tutti gli esattori al soldo dello straniero).
Siccome Mr fa di Levi un figlio di Alfeo (“Levi, figlio d’Alfeo” – 2:14), alcuni hanno pensato che fosse fratello di Giacomo apostolo (“Giacomo d’Alfeo” – Mt 10:3). Ma ciò non è affatto sicuro, dato che il nome “Alfeo” era molto comune. Si può anzi scartare questa idea, perché – in caso di appartenenza alla stessa famiglia – si sarebbe scritto ‘Matteo e Giacomo, suo fratello’, come si dice di Pietro e Andrea, e di Giacomo e Giovanni: “Pietro e Andrea suo fratello; Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello”. – Mt 10:2.
Matteo era un “pubblicano” (“Matteo il pubblicano” – Mt 10:3), vale a dire un gabelliere o esattore di tasse che lavorava per il governo romano. Questo mestiere rendeva spesso l’uomo ladro poiché l’appaltatore delle tasse gli pagava annualmente un tanto per il suo ufficio e poi riteneva per sé tutta l’eccedenza da lui riscossa. Era quindi ritenuto dagli ebrei un pubblico peccatore al servizio dell’odiato straniero.
Yeshùa, attraversando Cafarnao (dove aveva già operato dei miracoli), chiamò il doganiere con le semplici parole: “Sèguimi” (tradotte, chissà perché, con “Sii mio seguace” da TNM). Ἀκολούθει μοι (akolùthei moi), “segui me” ovvero “sèguimi”. “Ed egli, alzatosi, lo seguì”. – Mt 9:9.
Il futuro apostolo volle dare un addio alla sua vita precedente con un fastoso e lauto banchetto a cui parteciparono “molti pubblicani e peccatori” assieme a Yeshùa e ai suoi discepoli; da qui l’opposizione dei farisei che non vedevano di buon occhio tale compagnia; Yeshùa tuttavia tagliò corto ai loro rimproveri affermando che sono gli ammalati ad aver bisogno del medico (Mt 9:9-12; Mr 2:14-17; Lc 5:27-32). L’intento di tutto il racconto è dire che Yeshùa è venuto a salvare i peccatori.
Nel catalogo dei “dodici” Matteo sta ora al settimo posto (Mr 3:13; Lc 6:16) ora all’ottavo posto. – Mt 10:3; At 1:13.
Altro non sappiamo della sua vita. I particolari aggiunti dalla tradizione sono scarsamente attendibili: gli antichi scrittori danno di lui notizie così contrastanti che è impossibile trarne qualche dato sicuro (chi gli fa evangelizzare l’Etiopia, come Ruffino; chi la Persia, come Ambrogio; chi il territorio dei parti, come Isidoro).