L’elemento decisivo nella vita di Paolo fu il suo viaggio punitivo a Damasco per incarcerarvi i credenti in Yeshùa. Damasco, distante circa sei giorni di cammino da Gerusalemme, era un importante centro commerciale del Medio Oriente, cuore del passaggio obbligato delle carovane che collegavano la Mesopotamia all’Egitto. Posto avanzato dei romani, nel 37 passò in mano del re nabateo Areta, originario dell’Arabia. A Damasco dimoravano molti giudei, tra cui anche un gruppo settario di esseni che diede luce al Documento di Damasco e che lì aveva il suo quartier generale per prepararsi all’era messianica e ristabilire così quello che per loro era il vero culto nel Tempio di Gerusalemme.

   Il cambiamento radicale. Lo sconvolgimento della vita del persecutore Saulo avvenne d’improvviso durante il suo viaggio, nei pressi di Damasco. In un attimo Saulo, ghermito da Yeshùa, divenne un uomo nuovo. Da quel momento Paolo “servo di Cristo Gesù” (Rm 1:1; cfr. Flm 1:1, Tit 1.1), poté scrivere: “Per me il vivere è Cristo e il morire guadagno”. – Flp 1:21.

   “Paolo, servo di Cristo Gesù” (Rm 1:1). La parola che Paolo usa per sé è δοῦλος (dùlos), che meglio sarebbe tradurre con “schiavo”, come fa TNM: “Paolo, schiavo di Gesù Cristo”, anche se non si capisce perché debba poi invertire le parole che nel testo sono “Yeshùa Unto”: δοῦλος Ἰησοῦ Χριστοῦ (dùlos Iesù Christù).

   Lo “schiavo” in Oriente era colui che apparteneva totalmente al padrone, senza avere volontà propria. Così Paolo, definendosi “schiavo”, vuole dire che egli non ha più in se stesso ragione della propria esistenza, ma vive solo per il Signore che è divenuto il suo “padrone”.

   Le tre narrazioni della chiamata di Saulo di Tarso (At 9:3-6;22:6-10; 26:12-18) si accordano sostanzialmente, anche se taluni particolari presentano delle lievi divergenze. Gli orientali in genere non davano grande peso ai particolari e per ragioni artistiche si riservavano la libertà di variarli. Il che sembra strano agli occidentali che, se non capiscono e non accettano quest’aspetto, si chiudono mentalmente pretendendo di capire la Scrittura con la loro mentalità. Il fatto – spessissimo, se non sempre, trascurato da chi si ostina a leggere la Bibbia con mentalità occidentale – è che l’ispirazione di Dio prende l’agiografo (lo scrittore sacro) per quello che è e gli lascia libertà d’azione purché non deturpi il volere di Dio e il suo messaggio. Eppure c’è ancora chi pensa che la Bibbia sia stata dettata parola per parola da Dio, quasi che lo scrittore sacro fosse un esecutore infallibile che scriveva parola dopo parola, come in un dettato.

   Ad ogni modo, alcune divergenze si chiariscono con una traduzione più precisa dall’originale greco.

   Così, non v’è contraddizione nelle affermazioni che i compagni di Paolo “udendo, in realtà, il suono di una voce” (At 9:7, TNM) “non udirono la voce” (At 22:9, TNM). La differente costruzione greca (con il genitivo nel primo caso e con l’accusativo nel secondo) indica che i compagni di viaggio di Paolo udirono il suono esterno della voce (ἀκούοντες + il genitivo τῆς φωνῆς, akùontes + il genitivo tes fonès; letteralmente: “udendo della voce”) senza però percepirne il senso (φωνὴν οὐκ ἤκουσαν, fonèn uk èkusan; verbo preceduto dall’accusativo; letteralmente; “voce non udirono”).

   Nemmeno c’è contraddizione tra il “non vedendo nessuno” di 9:7 (TNM) e il “videro” di 22:9 (TNM). Nel primo caso significa che i compagni “non vedevano alcuno” (ND) ovvero nessuna persona. Nel secondo, invece, che percepirono solo una luce abbagliante: “Videro la luce”. – PdS.

   Neppure c’è contraddizione tra lo “stavano fermi” (TNM) di 9:7 e il “fummo tutti caduti a terra” (TNM) di 26:14. Nel primo caso il greco ha ἱστήκεισαν ἐνεοί (eistèkeisan eneòi): “stavano eneòi ”. La parola ἐνεός (eneòs), numero Strong 1769, è un aggettivo che significa: “1) muto, senza l’abilità di parlare 2) incapace di parlare per terrore, ammutolito, senza parole, sbalordito” (Vocabolario del Nuovo Testamento). Il traduttore avrebbe dovuto tradurre: “rimasero muti” o “rimasero senza parole” o “rimasero sbalorditi”. Il Luzzi traduce: “ristettero attoniti”. Con una traduzione più precisa non si sarebbe creato il contrasto.

   È poi da notare l’assenza assoluta di Anania nella relazione del capitolo 26. Sembra qui che tutta l’azione si svolga sulla via per Damasco e che la missione apostolica sia riferita direttamente a Yeshùa.

At 26:15-18

At 9:5,6,

“Io dissi: ‘Chi sei, Signore?’ E il Signore disse: ‘Io sono Gesù, che tu perseguiti. Tuttavia, alzati e sta in piedi. Poiché a tal fine mi sono reso visibile a te, per sceglierti come servitore e testimone sia delle cose che hai visto che delle cose che ti farò vedere riguardo a me; mentre ti libero da [questo] popolo e dalle nazioni, ai quali ti mando per aprire i loro occhi, per farli volgere dalle tenebre alla luce e dall’autorità di Satana a Dio, affinché ricevano il perdono dei peccati e un’eredità fra i santificati mediante la [loro] fede in me’”.

“’Chi sei, Signore?’ Disse: ‘Sono Gesù, che tu perseguiti. Tuttavia, alzati ed entra nella città, e ti sarà detto ciò che dovrai fare’”.

At 22:12-15

“Un certo Anania […] mi disse: ‘Saulo, fratello, ricupera la vista!’ […] ‘L’Iddio dei nostri antenati ti ha scelto […] perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito’”.

(TNM)

   Che spiegazione dare? In un caso è Yeshùa stesso che gli comunica la missione (e Anania non è neanche nominato), nell’altro è Anania che gliela comunica (per incarico di Yeshùa). Il lettore religioso e occidentale farà ipotesi su ipotesi per dare spiegazioni che salvaguardino la lettera del testo: la sua può essere solo una lettura letterale del testo, altrimenti ne sarebbe turbato.

   Chi è addentro al modo di esprimersi mediorientale della Bibbia non coglie invece nessuna contraddizione. Infatti, nel capitolo 26 Paolo sta parlando al re Agrippa e a Berenice con un piccolo uditorio di aristocratici. A loro poco interessava del particolare di Anania, che avrebbe solo allungato il discorso di fronte a quei personaggi importanti che stavano concedendo il loro tempo. Paolo (o forse Luca, lo scrittore di Atti), quindi, pone l’accento su Yeshùa che lo aveva chiamato anziché sul suo intermediario Anania. Dato che Anania era stato incaricato dallo stesso Yeshùa, si poteva  benissimo riferire tutto a Yeshùa eliminando l’agente intermediario. Cosa diversa al capitolo 22 in cui l’uditorio è la folla di Gerusalemme. A loro sì che poteva interessare il particolare di Anania.

   Per l’esegesi sulla chiamata di Paolo si veda lo studio, in questa stessa categoria,  ExcursusLa chiamata di Paolo – Un esempio di esegesi biblica.