La lettera ai filippesi è la lettera più commossa e più affettuosa, la più calda che sia uscita dalla penna di Paolo. Il cuore di Paolo, per nulla invecchiato dalla lunga prigionia, palpita per quei suoi figli spirituali da lui chiamati “fratelli miei cari e desideratissimi, allegrezza e corona mia” (4:1). Paolo desidera ardentemente averli “tutti con affetto profondo in Cristo Gesù” (1:8), frase che in italiano rende poco il senso della commozione profondamente sentita del suo desiderio struggente di sentirli uniti a sé nell’amore di Yeshùa. Paolo non dice: “Ho ardente desiderio di tutti voi con lo stesso tenero affetto che ha Cristo Gesù” (TNM), no, egli non paragona certo il suo amore per loro a quello che ha Yeshùa. Paolo dice che Dio gli è testimone di
ὡς ἐπιποθῶ πάντας ὑμᾶς ἐν σπλάγχνοις Χριστοῦ Ἰησοῦ
os epipothò pàntas ümàs en splànchnois Christù Iesù
come desidero tutti voi in viscere di consacrato Yeshùa
Nell’antropologia biblica le viscere sono la sede dei sentimenti più profondi (si vedano al riguardo gli studi nella categoria Antropologia biblica della sezione La Bibbia). Anche noi abbiamo un’espressione simile: amare visceralmente. Paolo sa quanto Yeshùa ami la sua congregazione. Paolo desidera ardentemente che tutti loro siano con lui in quell’amore viscerale che Yeshùa nutre per loro.
Siamo grati a Paolo per averci svelato, sia pure per un breve momento, l’intensità del suo profondo amore per i suoi fratelli spirituali.
Luogo di composizione
Secondo l’ipotesi tradizionale (che qualche studioso vorrebbe abbandonare), Paolo scrisse questa lettera durante la sua prigionia a Roma: “Io vi ho nel cuore, voi tutti che, tanto nelle mie catene quanto nella difesa e nella conferma del vangelo, siete partecipi con me della grazia” (1:7), “A tutti quelli del pretorio e a tutti gli altri è divenuto noto che sono in catene per Cristo; e la maggioranza dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, hanno avuto più ardire nell’annunciare senza paura la parola di Dio”. – 1:13,14.
A favore milita la menzione del “pretorio” (1:13), che può designare tanto un luogo come il palazzo imperiale o la caserma dei pretoriani, quanto un insieme di persone come i soldati di guardia. Quest’ultimo è il caso di 1:13. Paolo dice che “è divenuto noto” il motivo della sua prigionia sia alle guardie (“tutti quelli del pretorio”) sia “a tutti gli altri”. In At 28:16 alcuni manoscritti aggiungono: ο εκατονταρχος παρεδωκεν τ. δεσμιους τω στρατοπεδαρχω (o ekatòntarchos parèdoken t. [tus] desmìus to stratopedàrcho): “Quando entrammo a Roma, [il centurione consegnò i prigionieri al prefetto del pretorio]”.
Tuttavia, tale prova non è matematicamente certa perché anche la residenza del governatore romano era situata nel “pretorio”. Ad esempio, quella di Cesarea era situata nel “pretorio” costruito da Erode: “Ordinò che fosse custodito nel palazzo [“palazzo pretorio”, TNM; il greco ha ἐν τῷ πραιτωρίῳ (en to praitorìo), “nel pretorio”] di Erode” (At 23:35). Lo stesso Ponzio Pilato a Gerusalemme risiedeva nel “pretorio”: “I soldati del governatore portarono Gesù nel pretorio” (Mt 27:27); il greco ha εἰς τὸ πραιτώριον (èis to praitòrion), “nel pretorio” (moto a luogo); qui TNM ha: “Nel palazzo del governatore”.
L’espressione “tutti i santi vi salutano e specialmente quelli della casa di Cesare” (4:22) favorisce anch’essa l’origine romana della lettera. La “casa di Cesare” era, infatti, costituita da membri della famiglia e della corte imperiale, compresi gli schiavi e i liberti. Tuttavia, anche qui non abbiamo una sicurezza matematica, siccome vi potevano essere inclusi anche i militari e i funzionari sparsi in tutte le grandi città dell’impero. Risulta anzi che ad Efeso c’erano dei servi o “liberti Caesaris” occupati nelle varie mansioni connesse all’amministrazione romana della provincia (cfr. Corpus Inscript. Latin. III n. 6077). La formula “tutti quelli del pretorio” di 1:13 sembrerebbe alquanto esagerata a Roma, ma più logica ad Efeso, dove i funzionari romani erano di numero più ristretto.
Il Culmann dà grande risalto alla somiglianza di situazione tra la prima epistola di Clemente ai corinti (verso il 96) e la lettera di Paolo ai filippesi. In entrambi le lettere si parla delle sofferenze subite da Paolo per l’“invidia” e la “rivalità”. Scrive Clemente ai corinti:
“A motivo dell’invidia e della rivalità, Paolo ha mostrato il prezzo della pazienza. Incatenato sette volte, scacciato, lapidato, divenuto araldo in Oriente e in Occidente, ottenne per la sua fede una gloria splendente. Dopo aver insegnato la giustizia al mondo intero, raggiunta la meta dell’Occidente, dopo aver reso testimonianza davanti ai governatori, infine ha lasciato il mondo e se n’è andato, illustre modello di pazienza, al luogo santo”. – 1Clemente 5.
Ora, le due parole “invidia” e “rivalità” ricorrono in Flp 1:15 dove si legge che “alcuni predicano Cristo anche per invidia e per rivalità”, il che ben rispecchierebbe la situazione trovata a Roma dall’apostolo Paolo: “A tutti quelli del pretorio e a tutti gli altri è divenuto noto che sono in catene per Cristo; e la maggioranza dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, hanno avuto più ardire nell’annunciare senza paura la parola di Dio. Vero è che alcuni predicano Cristo anche per invidia e per rivalità; ma ce ne sono anche altri che lo predicano di buon animo. Questi lo fanno per amore, sapendo che sono incaricato della difesa del vangelo; ma quelli annunziano Cristo con spirito di rivalità, non sinceramente, pensando di provocarmi qualche afflizione nelle mie catene. Che importa? Comunque sia, con ipocrisia o con sincerità, Cristo è annunziato; di questo mi rallegro, e mi rallegrerò ancora” (Flp 1:13-18). Tuttavia, più e più volte Paolo dovette subire sofferenze per l’invidia e la rivalità dei suoi connazionali giudei che non fa meraviglia trovare queste due parole unite assieme. Non solo a Roma, ma anche altrove l’identica situazione si è ripetuta, con la conseguente necessità di usare gli stessi termini. Si può quindi ritenere possibile (e forse anche probabile) la stesura della lettera ai filippesi durante la prigionia paolina a Efeso verso il 52-53 (o, se si vuol seguire l’opinione tradizionale, verso il 58 o il 62-63).
Destinatari
La lettera fu inviata ai credenti in Yeshùa di Filippi, la prima città europea evangelizzata da Paolo verso il 50, durante il suo secondo viaggio missionario in seguito ad un sogno in cui un misterioso macedone aveva invitato l’apostolo a predicarvi la salvezza: “Paolo ebbe durante la notte una visione: un macedone gli stava davanti, e lo pregava dicendo: ‘Passa in Macedonia e soccorrici’”. – At 16:9.
Filippi – ridotta in tempi moderni a un campo di rovine noto sotto il nome di Filibejik – fu costruita verso il 360 a. E. V. da Filippo II il Macedone (il padre di Alessandro Magno) che le diede il nome. La città era stata costruita sul luogo dell’antica Cremides Fonti, così detta per le sue numerose sorgenti d’acqua (Diodoro Siculo, 16,3,7; Strabone, Georg. 41: “Filippi prima si chiamava Krenide”; cfr, Appiano, Bell. Civ. 4,105: “Filippo avendo notata la vantaggiosa posizione contro la Tracia, la fortificò e dal suo nome la chiamò Filippi”; Φίλιπποι (Fìlippoi), al plurale, perché risultava dalla fusione di più villaggi precedenti). Nel 168 a. E. V. la città cadde sotto il dominio romano e acquistò poi rinomanza per la vittoria ottenuta nel 42 a. E. V. sotto le sue mura da parte di Ottaviano e di Antonio contro gli assassini di Cesare, Bruto e Cassio. In quest’occasione la città ricevette un primo contingente di veterani romani. Quando nel 31 a. E. V. Ottaviano con la battaglia di Azio sconfisse Marco Antonio, Filippi divenne una colonia militare e i suoi abitanti ottennero la cittadinanza romana e il privilegio ius italicus. Infatti, quando alcuni filippesi si rendono conto che Paolo e i suoi compagni sono giudei, obiettano che essi “predicano riti che a noi Romani non è lecito accettare né praticare” (At 16:21). Oltre alla cittadinanza romana, i filippesi avevano l’esenzione dal tributo sia fondiario sia personale. Da qui il nome completo di “colonia Julia Augusta Philippensis”. In At 16:12 si legge: “Filippi, che è colonia romana e la città più importante di quella regione della Macedonia [“la principale città del distretto della Macedonia”, TNM]”; il greco ha πρώτη (pròte), “prima”, per cui la traduzione esatta sarebbe: “La prima città della regione della Macedonia”. Ma questo non è vero: Filippi non era la prima o principale città della Macedonia, poiché la capitale era Tessalonica e la metropoli del distretto era Anfipoli, non Filippi. La Bibbia si sbaglia? No. Probabilmente si è sbagliato il redattore del manoscritto nella copiatura. Quel πρώτη (pròte) con tutta probabilità va corretto in pròtes, il che non sarebbe più “la prima città della Macedonia”, ma “la città della prima Macedonia” ovvero della prima parte della Macedonia. Le riproduzioni moderne del testo greco hanno infatti: pròtes, πρώτη[ς] (si noti quel sigma – ς -, la lettera s greca, tra parentesi quadre) a suggerire la correzione. La città possedeva ricche miniere di oro e di argento poste sotto la regione del monte Panigeo.
Paolo giunse a Filippi da Troade, dopo due giorni di navigazione che dall’Asia lo portarono in Macedonia (Europa), toccando il porto di Neapolis distante una quindicina di km da Filippi (da cui era separato dalla collina del Symibolon, alta circa 500 m sul livello del mare).
A Filippi gli ebrei dovevano costituire un’esigua minoranza, tant’è vero che non possedendo una sinagoga si recavano per le loro riunioni di preghiera fuori città in riva al fiume Gangites (oggi Bunarbaschi). Nella riunione del sabato Paolo fu ben accolto dall’assemblea e ottenne con la sua predicazione il battesimo di alcune persone tra cui Lidia, una ricca signora oriunda di Tiàtira nella Lidia (forse da qui il suo nome) che trafficava in porpora e che offrì la sua casa per ospitare i missionari della buona notizia. Luca narra: “Il sabato andammo fuori dalla porta, lungo il fiume, dove pensavamo vi fosse un luogo di preghiera; e sedutici parlavamo alle donne là riunite. Una donna della città di Tiatiri, commerciante di porpora, di nome Lidia, che temeva Dio, ci stava ad ascoltare. Il Signore le aprì il cuore, per renderla attenta alle cose dette da Paolo. Dopo che fu battezzata con la sua famiglia, ci pregò dicendo: ‘Se avete giudicato ch’io sia fedele al Signore, entrate in casa mia, e alloggiatevi’. E ci costrinse ad accettare”. – At 16:13-15.
Dopo ciò Paolo aveva scacciato “uno spirito di Pitone” (Diodati, v. 16) da una serva che era un’indovina. Quello che Diodati traduce “spirito di Pitone”, che NR traduce “uno spirito di divinazione” e TNM “un demonio di divinazione” è nel testo greco πνεῦμα πύθωνα (pnèuma pΰthona), termine associato all’oracolo di Delfi. I padroni della serva, irritati per la perdita di denaro che sarebbe derivata dal venir meno dei suoi poteri divinatori, suscitarono ostilità contro i predicatori del nuovo culto. Questi furono flagellati e messi in prigione. A mezzanotte avvenne un pauroso terremoto che condusse alla conversione del carceriere e poi alla liberazione dei due missionari.
“I suoi padroni [della serva], vedendo svanire la speranza di altri guadagni, presero Paolo e Sila e li trascinarono in tribunale davanti alle autorità cittadine […]. Allora anche la folla si scagliò contro Paolo e Sila; i giudici comandarono di spogliarli e di bastonarli. Dopo averli bastonati li gettarono in prigione. Al carceriere raccomandarono di custodirli nel modo più sicuro possibile […]. Verso mezzanotte Paolo e Sila pregavano e cantavano inni di lode a Dio. Gli altri carcerati stavano ad ascoltare. All’improvviso ci fu un terremoto tanto forte che la prigione tremò sin dalle fondamenta. Tutte le porte si spalancarono di colpo e le catene dei carcerati si slegarono. Il carceriere si svegliò e vide che le porte della prigione erano aperte: pensò che i carcerati fossero fuggiti. Allora prese la spada e stava per uccidersi. Ma Paolo gli gridò con tutta la voce che aveva: ‘Non farti del male! Siamo ancora tutti qui’. Il carceriere chiese una lanterna, corse nella cella di Paolo e Sila e tutto tremante si gettò ai loro piedi. Poi li condusse fuori e domandò loro: ‘Signori, che cosa devo fare per essere salvato?’”. – At 16:19-30, PdS.
Probabilmente a Filippi rimase Luca, poiché il plurale “noi” (che include Luca, lo scrittore di At), cessato con l’arresto di Paolo e di Sila, riappare di nuovo in At 20:5 e sgg. quando Paolo ripassò da Filippi e riprese con sé il medico evangelizzatore.
La predicazione di Paolo recò in breve tempo ottimi frutti, giacché – pur dovendo abbandonare prematuramente la città a causa della persecuzione – vi lasciò una comunità piena di entusiasmo (At 16:40). I vincoli dei discepoli filippesi con Paolo furono sempre molto vivi, tant’è vero che per ben due volte quelli gli inviarono del denaro a Tessalonica e una volta a Corinto: “A Tessalonica mi avete mandato, una prima e poi una seconda volta, ciò che mi occorreva” (Flp 4:16), “I fratelli venuti dalla Macedonia provvidero al mio bisogno” (2Cor 11:9). Paolo accettò volentieri quei doni, cosa che non avvenne per altre congregazioni, per cui l’apostolo poté vantarsi di non essere stato di aggravio ad alcuno avendo voluto mantenersi con la fatica delle proprie mani: “Ci affatichiamo lavorando con le nostre proprie mani” (1Cor 4:12), “È lavorando notte e giorno per non essere di peso a nessuno di voi, che vi abbiamo predicato il vangelo di Dio”. – 1Ts 2:9.
Più tardi Paolo tornò a Filippi per festeggiare con i discepoli la Pasqua e gli Azzimi del 54 (o del 57, secondo la cronologia tradizionale), durante il suo ultimo viaggio per Gerusalemme: “Trascorsi i giorni degli Azzimi, partimmo da Filippi”. – At 20:6.
Mentre Paolo era in carcere a Roma, i filippesi vollero di nuovo alleviarlo nei suoi bisogni inviandogli del denaro che gli fu recato da Epafròdito, “fratello, mio compagno di lavoro e di lotta, inviatomi da voi per provvedere alle mie necessità” (Flp 2:25). Ma presso Paolo questi s’ammalò gravemente, facendo temere per la sua guarigione; tuttavia, egli poté ristabilirsi e rientrare a Filippi, recando con sé la lettera di Paolo alla comunità.