La lettera che Paolo scrisse ai filippesi ha un carattere confidenziale, come si addice a una persona particolarmente affezionata alla congregazione, anche se vi erano delle persone che ne mimavano l’unità.
Queste persone erano Evodìa e Sintìche: “Esorto Evodia ed esorto Sintìche a essere concordi nel Signore” (Flp 4:2). Si tratta di due donne. Gli editori di TNM sbagliano i loro nomi, posizionandone male gli accenti tonici: chiamano erroneamente “Evòdia” quella che è invece Evodìa (greco Εὐοδία, Euodìa) e chiamano erroneamente “Sìntiche” quella che invece è Sintìche (greco Συντύχη, Süntΰche). Queste due donne della congregazione di Filippi avevano combattuto a fianco a fianco con l’apostolo Paolo e con altri “nella buona notizia” (v. 3). Pare che Evodìa e Sintìche avessero difficoltà a risolvere un problema sorto fra loro; Paolo esortò le due donne filippesi (che lodò per la loro integrità) “a essere concordi nel Signore”. Evidentemente c’era qualche dissapore fra le due. Concordata commenta così nella nota in calce: “Anche a Filippi, la quale pure ci appare come una comunità ben ordinata e fedele, non mancavano del tutto quei dissensi che Paolo considera come nefasti per quella unione di spiriti che è necessaria tra i fedeli. Il dissenso doveva essere grave, se Paolo chiede a un altro di aiutare le due donne a superarlo: “Prego anche te, autentico Sizigo, di aiutarle” (v. 3, Con). Poche traduzioni ammettono il nome Sìzigo presente nel testo greco (Σύζυγος, Sΰzigos). NR e CEI traducono con “collaboratore”, Did con “consorte”, TNM se la cava con l’etimologia del nome: “compagno di giogo”. Non sappiamo chi fosse questo Sìzigo, ma di certo si tratta del nome d’un credente della congregazione filippese. La lettera è, infatti, indirizzata “a tutti i santi in Cristo Gesù che sono in Filippi, con i vescovi e con i diaconi” (1:1). Dato questo indirizzo generale, sarebbe davvero strano che a un certo punto Paolo s’indirizzasse ad una specifica persona chiamandola solo “collaboratore”, quasi fosse lui il destinatario di tutta la lettera. Invece, in quel punto, la lettera (indirizzata a tutti) si rivolge in particolare a questo Sìzigo per pregarlo di intervenire in aiuto delle due donne contrariate tra loro. Non ha senso chiamare questa persona “consorte” (consorte di chi mai?). Il “compagno di gioco” è poi del tutto fantasioso, essendo solo l’etimologa del nome.
Sin dall’inizio della lettera traspare la gioia di Paolo verso questi suoi figli spirituali per la loro “partecipazione al vangelo [vale a dire al loro lavoro missionario], dal primo giorno fino a ora”. – 1:5.
L’andamento dell’epistola è slegato e gli argomenti si succedono spesso senza un nesso logico preciso. In particolare è stridente il brusco passaggio da 3:1a a 3:1b e seguenti: “Del resto, fratelli miei, rallegratevi nel Signore. [/] Io non mi stanco di scrivervi le stesse cose, e ciò è garanzia di sicurezza per voi. Guardatevi dai cani […]”. Questo brusco passaggio ha fatto pensare ad alcuni studiosi (J. Weiss, A. Schweitzer, A. Losy) all’intromissione di un brano tratto da un’altra lettera e che si estenderebbe fino a 4:1, dove viene ripreso il tono confidenziale precedente interrottosi con 3:1a. Se così fosse, la lettera sarebbe la risultanza di due o tre biglietti di Paolo ai credenti filippesi. Policarpo dice che Paolo scrisse più lettere (epistolài, “lettere”, al plurale) ai filippesi. Questa parola (epistolài) di Policarpo va presa alla lettera oppure è un plurale generico di categoria applicabile anche a una sola lettera? E poi, se si tratta di un vero plurale, queste lettere sono davvero parte dell’attuale lettera ai filippesi oppure andarono perdute? Che delle lettere di Paolo siano andate perdute è un fatto certo. In 1Cor 5:9 si legge: “Vi ho scritto nella mia lettera di […]”, ma essendo questa la prima lettera ai corinti, è evidente che la vera prima qui menzionata è andata persa. Così anche in Col 4:16 abbiamo: “Quando questa lettera sarà stata letta da voi, fate che sia letta anche nella chiesa dei Laodicesi, e leggete anche voi quella che vi sarà mandata da Laodicea”, in cui i colossesi e i laodicesi sono invitai a scambiarsi tra loro le rispettive lettere; ma noi non possediamo nessuna lettera ai laodicesi scritta da Paolo (abbiamo solo quella che scritta da Giovanni; cfr. Ap 3:14).
Oggi, dopo uno studio più adeguato della personalità paolina, si tende a ritenere Flp una lettera unica, dettata a più riprese. Il temperamento di Paolo, infatti, non è né logico né calmo. Il brusco cambiamento è conforme alla sua personalità. Sarebbe invece difficile immaginare l’intromissione così brusca di un altro scritto che inizia con l’aspra polemica contro i giudaizzanti. – 3:2.
Possiamo dire che nella lettera ai filippesi dominano due sentimenti fondamentali: la gioia e l’amore.
Gioia. La gioia è un dono della grazia divina: “Il frutto dello spirito è […] gioia” (Gal 5:22, TNM). Questa gioia proviene dalla consapevolezza di essere figli di Dio e fratelli l’uno dell’altro. “Se dunque v’è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d’amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione, rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento”, “Se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi; e nello stesso modo gioitene anche voi e rallegratevene con me”, “Fratelli miei cari e desideratissimi, allegrezza e corona mia, state in questa maniera saldi nel Signore, o diletti!”, “Rallegratevi sempre nel Signore. Ripeto: rallegratevi”, “Ho avuto una grande gioia nel Signore”. – 2:1,2,17,18;4:1,4,10.
Amore. L’amore (agàpe) è la solidarietà recata dalla grazia divina che ci ha resi fratelli e sorelle di Yeshùa e, in lui, solidali gli uni agli altri. “Rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a sé stesso, cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri” (2:2-4). Anche l’amore è un dono di Dio: “Il frutto dello spirito è amore”. – Gal 5:22, TNM.
Ecco una divisione alquanto generica della lettera:
- Esordio (1:1,2). Saluti e ringraziamento di Paolo per la partecipazione dei filippesi al vangelo e preghiera per il loro progresso spirituale.
- Notizie personali (1:3-26). La prigionia di Paolo contribuisce al progresso del vangelo (1:12-26). L’apostolo ha la speranza di essere liberato, pur essendo pronto a morire: “Per me il vivere è Cristo e il morire guadagno” (1:21). Benché personalmente abbia desiderio “di partire e di essere con Cristo, perché è molto meglio” (1:23), egli è pronto a continuare la sua vita pur di essere utile ai condiscepoli.
- Esortazione all’unione e alla buona condotta (1:27-2:18). In questo brano si rinviene il celebre inno cristologico (2:5-11), che tanti studi e discussioni ha suscitato e che è presentato perché i discepoli imitino l’esempio di Yeshùa che proprio per la sua umiliazione fino alla morte su un palo fu elevato alla gloria.
- Notizie di Timoteo e di Epafròdito che Paolo invia ai filippesi augurandosi che siano accolti come si conviene. – 2:19-30.
- Ammonizioni contro i giudaizzanti e i cattivi discepoli (3:1-21). Per costoro “il loro dio è il ventre” (3:19), mentre la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove attendiamo anche come salvatore Yeshùa: “La nostra cittadinanza è nei cieli, da dove aspettiamo anche il Salvatore, Gesù Cristo, il Signore” (3:20). Si noti qui la dottrina della giustificazione per fede (che non è quella dei protestanti, secondo cui basterebbe semplicemente credere): “Essere trovato in lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede” (3:9). Qui Paolo rifiuta l’idea tutta giudaica che l’osservanza legalistica della Legge (“una giustizia mia”) assicuri la salvezza; questo legalismo è chiamato altrove “opere della Legge” (Gal 2:16). È la fede in Yeshùa che ci permette di osservare la Legge non come tentativo legalistico di diventare giusti, ma come risposta di ubbidienza nella fede: “Sappiamo infatti che la legge è spirituale; ma io sono carnale, venduto schiavo al peccato. Poiché, ciò che faccio, io non lo capisco: infatti non faccio quello che voglio, ma faccio quello che odio. Ora, se faccio quello che non voglio, ammetto che la legge è buona; allora non sono più io che lo faccio, ma è il peccato che abita in me. Difatti, io so che in me, cioè nella mia carne, non abita alcun bene; poiché in me si trova il volere, ma il modo di compiere il bene, no. Infatti il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio. Ora, se io faccio ciò che non voglio, non sono più io che lo compio, ma è il peccato che abita in me. Mi trovo dunque sotto questa legge: quando voglio fare il bene, il male si trova in me. Infatti io mi compiaccio della legge di Dio, secondo l’uomo interiore, ma vedo un’altra legge nelle mie membra, che combatte contro la legge della mia mente e mi rende prigioniero della legge del peccato che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore”. – Rm 7:14-25.
- Ultime esortazioni alla concordia, alla gioia e alla pace (4:1-9). I filippesi progrediscano sempre di più facendo tesoro di “tutte le cose vere, tutte le cose onorevoli, tutte le cose giuste, tutte le cose pure, tutte le cose amabili”, da qualunque parte vengano. – 4:8.
- Ringraziamenti per gli aiuti che liberamente i filippesi hanno inviato all’apostolo (4:10-20). Dio, a sua volta, non mancherà di provvedere: “Provvederà splendidamente a ogni vostro bisogno secondo le sue ricchezze, in Cristo Gesù”. – 4:19.