Indirizzo e saluto: “Paolo e Timoteo, servi di Cristo Gesù, a tutti i santi in Cristo Gesù che sono in Filippi, con i vescovi e con i diaconi, grazia a voi e pace da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo” (1:1,2). Il v. 2 (qui nella versione di NR) è tradotto bene. Ma il versetto può essere anche tradotto diversamente:
χάρις ὑμῖν καὶ εἰρήνη ἀπὸ θεοῦ πατρὸς ἡμῶν καὶ κυρίου Ἰησοῦ Χριστοῦ
chàris ümìn kài eirène apò Theù patròs emòn kài kürìu Iesù christù
grazia a voi e pace da Dio padre di noi e di signore Yeshùa unto
Ovvero: “Grazia a voi e pace da Dio padre nostro e del Signore Yeshùa consacrato”, riferendo il “padre” sia anche credenti che a Yeshùa.
TNM traduce con la stessa costruzione di NR: “Abbiate immeritata benignità e pace da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo”, a parte il tradurre l’unica parola χάρις (chàris, “grazia”) ricorrendo a due parole (“immeritata benignità”) che ne falsano un po’ il senso facendogli perdere tutta la pienezza della “grazia” di Dio. La parola greca χάρις (chàris), numero Strong 5485, sostantivo femminile, significa “grazia, ciò che dà gioia, piacere, delizia, dolcezza, fascino, bellezza; gentilezza misericordiosa di Dio” (Vocabolario del Nuovo Testamento). Aggiungervi l’aggettivo “immeritata” fa quasi pesare quello che invece è puro dono dell’amore di Dio. Nel passo, Dio è chiamato “padre”, e un padre pieno d’amore dona e manifesta ai propri figli e figlie “ciò che dà gioia, piacere, delizia, dolcezza” (chàris). Tale Padre è come se dicesse: ‘Avete tutto il mio favore’, ma non direbbe mai qualcosa del tipo: ‘Avete tutto il mio immeritato favore’.
Nell’indicazione del mittente si legge: “Paolo e Timoteo, servi di Cristo Gesù, a tutti […]” (1:1). In altre due lettere dalla prigionia (Col e Flm) Timoteo è associato all’apostolo Paolo nella stesura dello scritto. Timoteo era un collaboratore di Paolo ed era figlio di padre greco e di madre giudea: “Timoteo, figlio di una donna ebrea credente, ma di padre greco” (At 16:1). La madre, di nome Eunice, educò Timoteo insieme alla nonna Loide. A Listra fu iniziato alla fede in Yeshùa da Paolo che lo chiamò “figlio nella fede”. – 1Tm 1:2.
Il nome greco “Timoteo” significa “amante di Dio”. L’accento tonico rende attiva la parte del nome accentata: Timòteo = amante di Dio. Il nome con l’accento tonico piano insiste invece sulla parte “teo” (Dio): Timotèo = amato da Dio.
Essendo mezzo ebreo, Timoteo fu sottoposto alla circoncisione, cui invece Tito non fu obbligato perché figlio di genitori entrambi pagani: “Paolo volle che egli partisse con lui; perciò lo prese e lo circoncise a causa dei Giudei che erano in quei luoghi; perché tutti sapevano che il padre di lui era greco” (At 16:3), “Neppure Tito, che era con me, ed era greco, fu costretto a farsi circoncidere”. – Gal 2:3.
Durante il secondo viaggio missionario di Paolo, Timoteo aiutò Paolo e Sila a Filippi, a Tessalonica e a Berea, dove rimase con Sila per poi raggiungere Paolo ad Atene, da cui partì per visitare i discepoli di Tessalonica (At 17:16). Timoteo fu poi a Corinto (At 18:1,5). A Efeso ricevette due lettere da Paolo. Nonostante la sua giovane età, Paolo disse di non aver mai trovato “nessuno di animo pari al suo”. – Flp 2:20.
Paolo definisce se stesso e Timoteo “servi di Cristo Gesù” (1:1). La parola greca δοῦλοι (dùloi) sarebbe meglio tradotta da “schiavi”, come fa TNM. A quel tempo non esistevano i domestici odierni o i servitori o i servi, ma solo gli schiavi. I dùloi (schiavi) appartenevano totalmente al padrone. In 1:1 significa che i discepoli, essendo stati comprati da Yeshùa, non hanno una vita propria ma appartengono a lui. “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me! La vita che vivo ora nella carne, la vivo nella fede nel Figlio di Dio” (Gal 2:20). Come “schiavi” (dùloi) Paolo e Timoteo hanno anche ricevuto una speciale missione da parte di Yeshùa, così come lo schiavo lavora per il padrone.
“Schiavi di Cristo Gesù” (1:1, TNM). La parola greca Χριστός (christòs) deriva dal verbo χρίω (chrìo) che significa “ungere”. Christòs è dunque un participio con funzione d’aggettivo – non un nome – e significa “unto” ovvero “consacrato”; è l’equivalente dell’ebraico mashìakh italianizzato in messia. Yeshùa è il consacrato o unto o cristo o messia per eccellenza, essendo il re e il sommo sacerdote dei suoi discepoli. Re e sacerdoti ebrei erano infatti consacrati al loro ministero mediante un’unzione sacra che li insediava nella loro funzione. Yeshùa fu insediato nella sua altissima funzione mediante lo spirito santo di Dio.
“Schiavi di Cristo Gesù” (1:1, TNM). Il nome ebraico Yehoshùa (abbreviato poi in Yeshùa) significa “Yhvh salva”. Il nome fu tradotto in greco con Iesùs (Ἰησοῦς). “Gesù” è dunque la traduzione di una traduzione, tra l’altro sbagliata, perché – casomai – dovrebbe essere tradotta con Giosuè. Yeshùa fu lo strumento scelto da Dio per salvare l’umanità. “Ecco, tu concepirai e partorirai un figlio, e gli porrai nome Gesù. Questi sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo, e il Signore Dio gli darà il trono di Davide, suo padre” (Lc 1:31,32; cfr. Mt 1:21). “Gli porrai nome”… Yeshùa, fu proprio questo, di fatto, fu il nome che gli fu imposto. Sua madre non lo chiamò di certo “Iesùs” né, tanto meno, “Gesù”. Lo chiamava con il nome ebraico “Yeshùa”.
“Paolo e Timoteo, schiavi di Cristo Gesù, a tutti i santi” (1:1, TNM). I “santi” sono tutti i discepoli di Yeshùa, appartati (tale è il significato di “santi”) da tutte le altre persone del mondo, in quanto uniti a Yeshùa. Non più, quindi, appartenenti al mondo, ma al popolo di Dio, alla sua congregazione. Ha dunque buone ragioni la versione americana Good News for the Modern Man per tradurre liberamente con “popolo di Dio”. Dio, che è al di sopra di tutto il mondo e quindi diverso da esso, è il Santo per eccellenza: “Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria!” (Is 6:3), “Santo, santo, santo è il Signore, il Dio onnipotente, che era, che è, e che viene”. – Ap 4:8.
La designazione dei discepoli come “santi” è regolare nelle Scritture Greche a partire da At 9:13. Probabilmente questa designazione deriva dalla preghiera di Yeshùa: “Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Santificali nella verità: la tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anch’io ho mandato loro nel mondo. Per loro io santifico me stesso, affinché anch’essi siano santificati nella verità. Non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola” (Gv 17:16-20). Qui si parla di santificazione ovvero di separazione dal mondo e del potere purificatore della parola divina. La fede in Yeshùa separa dal mondo che non crede e rende il credente un “santo”, un separato. Quanto più uno penetra e segue la parola divina, tanto più merita di essere chiamato “santo”. Se il discepolo di Yeshùa è separato spiritualmente dal mondo, non si deve estraniare da esso (come fanno i monaci e le monache). Il discepolo di Yeshùa penetra nel mondo, senza confondersi con esso, per divenire la luce del mondo e rendere “santi” anche gli altri. “Voi siete la luce del mondo. Una città posta sopra un monte non può rimanere nascosta, e non si accende una lampada per metterla sotto un recipiente; anzi la si mette sul candeliere ed essa fa luce a tutti quelli che sono in casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli”. – Mt 5:14-16.
Qui e nel resto della Scrittura non si ha per nulla il concetto cattolico di “santi”, nel senso di “cristiani perfetti”, già entrati con la loro anima nella gloria di Dio e capaci di intercedere, a motivo dei loro meriti, per gli altri. Paolo afferma chiaramente che in cielo con Yeshùa si andrà solo al suo ritorno:
“Fratelli, non vogliamo che siate nell’ignoranza riguardo a quelli che dormono, affinché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza. Infatti, se crediamo che Gesù morì e risuscitò, crediamo pure che Dio, per mezzo di Gesù, ricondurrà con lui quelli che si sono addormentati. Poiché questo vi diciamo mediante la parola del Signore: che noi viventi, i quali saremo rimasti fino alla venuta del Signore, non precederemo quelli che si sono addormentati; perché il Signore stesso, con un ordine, con voce d’arcangelo e con la tromba di Dio, scenderà dal cielo, e prima risusciteranno i morti in Cristo; poi noi viventi, che saremo rimasti, verremo rapiti insieme con loro, sulle nuvole, a incontrare il Signore nell’aria; e così saremo sempre con il Signore. Consolatevi dunque gli uni gli altri con queste parole”. – 1Ts 4:13-18.
In cielo non si va con una presunta “anima”, ma con la persona intera, con il corpo glorificato e spirituale. Questo fatto è del tutto non compreso e stravolto dalle religioni che credono in un’”anima” separata dal corpo e in un “paradiso in cielo”. Ed è mal compreso dai Testimoni di Geova che dividono in due classi i credenti, mettendone una parte in cielo e lasciando l’altra sulla terra.
Ammesso e non concesso (ammesso solo per amore di ragionamento) di voler accettare la dottrina cattolica (che non è sorretta dal pensiero biblico) e di dire che alcune “anime” vanno in cielo presso Dio, noi non avremmo alcun mezzo per saper dire chi siano tali persone. Nessuno – papa compreso – avrebbe oggi il potere di identificarle. Infatti, la Bibbia ci assicura:
“Così, ognuno ci consideri servitori di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Del resto, quel che si richiede agli amministratori è che ciascuno sia trovato fedele. A me poi pochissimo importa di essere giudicato da voi o da un tribunale umano; anzi, non mi giudico neppure da me stesso. Infatti non ho coscienza di alcuna colpa; non per questo però sono giustificato; colui che mi giudica è il Signore. Perciò non giudicate nulla prima del tempo, finché sia venuto il Signore, il quale metterà in luce quello che è nascosto nelle tenebre e manifesterà i pensieri dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio”. – 1Cor 4:1-5.
Va inoltre notato che tali persone non avrebbero poi alcun merito speciale e non sarebbero capaci di intercedere per noi e, in ogni caso, non più di quanto non possano compiere i viventi con le loro preghiere a favore di altri. Dopo aver realizzato cose mirabili, noi dovremmo essere pronti a dire: “Noi siamo servi inutili; abbiamo fatto quello che eravamo in obbligo di fare”. – Lc 17:10.
“Paolo e Timoteo, servi di Cristo Gesù, a tutti i santi in Cristo Gesù che sono in Filippi, con i vescovi e con i diaconi” (Flp 1:1). Vescovi e diaconi: ecco le due classi di ministri presenti a Filippi. I vescovi sono i “sorveglianti” della comunità, coloro che devono rendere ragione a Dio dell’andamento della congregazione e che devono pascere il gregge: “Badate a voi stessi e a tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti vescovi, per pascere la chiesa di Dio” (At 20:28). Questi vescovi o sorveglianti sono aiutati dai diaconi o “ministri” o aiutanti. La parola greca διάκονος (diàkonos) indica “uno che esegue i comandi di un altro, soprattutto un servitore di un padrone, compagno, ministro”. – Vocabolario del Nuovo Testamento.
Si noti il nome “vescovi” al plurale: segno che la comunità era guidata collegialmente dai vescovi. Non c’era l’uso posteriore (2° secolo) di un solo vescovo su più chiese. L’episcopato monarchico fu la prima deviazione dalla Bibbia, introdotta nel 2° secolo (cfr. Ignazio) per meglio affrontare le crisi nascenti. – Cfr. Girolamo.
Si noti anche l’assenza di “presbiteri”. Costoro non sono mai nominati assieme ai vescovi: nella Bibbia vi è solo l’uno o l’altro di questi termini. “Presbitero” è parola che viene dal greco e significa “anziano”. Nella deviazione cattolica, da “presbitero” derivò poi la parola “prete”. Dal fatto che vescovi e presbiteri (sorveglianti e anziani) non sono mai nominati assieme, si deduce che si tratta della stessa classe di persone, a volte chiamate sorveglianti e, altre, anziani. Qual è la differenza? Per il loro incarico o funzione erano chiamati “sorveglianti”, per la loro età erano chiamati “anziani”. Paolo raccomanda a Tito: “Per questa ragione ti ho lasciato a Creta: perché tu metta ordine nelle cose che rimangono da fare, e costituisca degli anziani in ogni città, secondo le mie istruzioni, quando si trovi chi sia irreprensibile, marito di una sola moglie, che abbia figli fedeli, che non siano accusati di dissolutezza né insubordinati. Infatti bisogna che il vescovo sia irreprensibile, come amministratore di Dio; non arrogante, non iracondo, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto, ma ospitale, amante del bene, assennato, giusto, santo, temperante, attaccato alla parola sicura, così come è stata insegnata, per essere in grado di esortare secondo la sana dottrina e di convincere quelli che contraddicono” (Tit 1:5-9). “Costituisca degli anziani . . . infatti bisogna che il vescovo”: anziani e vescovi sono la stessa persona. Si noti anche il controsenso attuale di chiamare “preti” (anziani) dei giovani che invece dovrebbero fungere da diaconi o da evangelizzatori. Questo controsenso è presente anche nei Testimoni di Geova che costituiscono come “anziani” dei giovani; con il solito metodo di un’interpretazione tutta loro per adattare la Scrittura alle loro vedute, parlano di “anziani” in senso spirituale. Si noti la sottile tecnica (molto spesso usata) con cui, dopo aver affermato un dato biblico, si sorvola su di esso: “È evidente che nell’antico Israele l’età in senso fisico, cioè gli anni di vita dell’individuo, erano uno dei fattori che lo rendevano idoneo come ‘anziano’. (1Re 12:6-13) Quindi anche nella congregazione cristiana gli ‘anziani’ o sorveglianti non erano dei giovanotti, com’è evidente dal riferimento dell’apostolo al fatto che avevano moglie e figli. (Tit 1:5, 6; 1Tm 3:2, 4, 5) Tuttavia l’età non era l’unico né il principale fattore, come si vede dagli altri requisiti indicati (1Tm 3:2-7; Tit 1:6-9), né era stabilito uno specifico limite di età” (Perspicacia nello studio delle Scritture Vol. 1, pag. 152, alla voce “Anziano”, sottotitolo “Anziani nella congregazione cristiana”, § 5). Dopo aver riconosciuto che l’anziano biblico lo è nel senso dell’età fisica, si sorvola con: “Tuttavia l’età non era l’unico né il principale fattore, come si vede dagli altri requisiti indicati” (Ibidem). Ecco stabilita la base per poter sorvolare sul fattore età. Ma la base è fragile e crolla applicando i pensiero logico e corretto: È del tutto vero che “l’età non era l’unico né il principale fattore”, ma … era pur sempre un fattore irrinunciabile. E questo fattore chiamiamolo col suo nome: requisito. Non era l’unico? Vero. Non era il principale? Forse. Ma intanto era ed è un requisito. La domanda è: perché sorvolare su questo requisito dell’età fisica trasformandolo (contro il pensiero biblico) in un requisito di anzianità spirituale indipendentemente dall’età? La risposta è molto pratica e molto umana: “Dal momento che esistono più di 60.000 congregazioni di testimoni di Geova in tutto il mondo, è chiaro che per averne cura c’è bisogno di decine di migliaia di uomini spiritualmente qualificati. In ogni nazione ci sono molti anziani”. – La Torre di Guardia del 15 settembre 1989, pag. 11, § 4; il corsivo è aggiunto per enfasi.
Di fronte ai requisiti che la Bibbia stabilisce per gli anziani di congregazione, è davvero strana la decisione di Elvira (circa nel 306) – poi seguita sia in Oriente sia in Occidente – di non accogliere nell’episcopato coloro che erano già sposati.
È importante notare che mai ai vescovi/presbiteri/anziani si attribuiscono funzioni sacerdotali. Essi non sono mai chiamati sacerdoti. Inoltre, nella Bibbia, mai si attribuisce loro la celebrazione della Cena del Signore. È tutto il popolo di Dio che la celebra, mangiando del pane e bevendo del vino in memoria di Yeshùa: “Ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga”. – 1Cor 11:26.
I diaconi o “ministri” coadiuvano i vescovi nell’amministrazione dei beni: “I dodici, convocata la moltitudine dei discepoli, dissero: ‘Non è conveniente che noi lasciamo la Parola di Dio per servire alle mense. Pertanto, fratelli, cercate di trovare fra di voi sette uomini, dei quali si abbia buona testimonianza, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico’” (At 6:2,3). Essi potevano battezzare (At 8:38). Per i diaconi si legga 1Tm 3:8-10.
“Grazia a voi e pace” (Flp 1:2). Il binomio grazia-pace è molto caro a Paolo. La grazia è il dono della divina misericordia che ci fa ottenere il perdono dei peccati, ci salva e ci rende figli di Dio. – Cfr. Rm 1:7, 1Cor 1:3, 2Cor 1:2, e altri inizi delle lettere paoline.
“Grazia” (greco χάρις, chàris) è una parola che ricorre 88 volte nelle lettere di Paolo. In origine indicava “ciò che procura piacere”, vale a dire fascino e attrattiva. Gli antichi greci prima di Yeshùa ricollegavano la parola all’amabilità specialmente della forma. Nel giudaismo ellenistico appare assai raramente in senso spirituale. Soltanto tre volte nella versione greca dei LXX traduce l’ebraico khèsed con il senso di “misericordia divina”. In Paolo, chàris si ricollega all’amore divino verso l’uomo peccatore. “Grazia” assunse così il senso dell’amore divino spontaneo e bello che opera in Yeshùa per la salvezza dei peccatori. È “grazia” perché si tratta di un atto gratuito del Dio misericordioso e benevolente che ci accoglie nella sua famiglia.
Siccome prima eravamo nemici di Dio e ora siamo divenuti suoi figli amati, si è ristabilita la pace tra noi e Dio. La pace con Dio ci dona anche la pace interiore che solo in Dio si può avere.
Se “la grazia e la pace” hanno la loro origine in Dio, esse pervengono a noi tramite il consacrato Yeshùa, che con la sua ubbidienza fino alla morte le ha meritate per noi.
“Grazia a voi e pace da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo” (Flp 1:2). “Signore” è un termine che nelle Scritture Ebraiche sostituisce il nome di Yhvh. Nel greco della LXX è κύριος (kΰrios), in ebraico è אָדוֹן (adòn). Il nome di Dio presso gli ebrei era impronunciabile, tant’è vero che se ne ignora tuttora l’esatta pronuncia, essendo essa andata smarrita. Oggi non c’è più il sommo sacerdote che pronunciava il nome di Dio una volta all’anno nel Giorno dell’Espiazione, nell’intimità segreta del Santissimo (la parte più sacra del Tempio), dove solo lui poteva entrare una volta all’anno.
Nelle Scritture Greche la parola “signore” designa spesso Yeshùa risorto e glorificato: “Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” (At 2:36). Perché Yeshùa è “signore”? Perché egli è il sostituto di Dio nel governo del mondo fino alla restaurazione finale: “Bisogna ch’egli regni finché abbia messo tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico che sarà distrutto, sarà la morte. Difatti, Dio ha posto ogni cosa sotto i suoi piedi; ma quando dice che ogni cosa gli è sottoposta, è chiaro che colui che gli ha sottoposto ogni cosa, ne è eccettuato. Quando ogni cosa gli sarà stata sottoposta, allora anche il Figlio stesso sarà sottoposto a colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti”. – 1Cor 15:25-28.