Petizione in favore di Onesimo (vv. 8-22)

 

   L’apostolo crea un’atmosfera di commozione tale che non gli si possa resistere. Pur potendo comandare, egli supplica. E chi supplica è un “vecchio, e ora anche prigioniero” (v. 8). Come resistergli? “Con la forza che mi viene da Cristo, potrei facilmente ordinarti di compiere quel che devi fare. Tuttavia, preferisco farti una richiesta in nome dell’amore. Io, Paolo, vecchio e ora anche prigioniero a causa di Gesù Cristo, ti chiedo un favore per Onèsimo. Qui in prigione egli è diventato per me come un figlio. E quell’Onèsimo che un tempo non ti è servito a nulla, ora invece può essere molto utile sia a te che a me”. – Vv. 8-11, PdS.

   “Vecchio” è la giusta traduzione di πρεσβύτης (presbΰtes). Non c’è ragione di ricorrere a un’intera frase per tradurre questa singola parola, come fa TNM: “uomo d’età avanzata”. “Vecchio” è l’espressione giusta in italiano. “Uomo d’età avanzata” – espressione che poco appartiene all’italiano parlato – pare quasi un eufemismo per evitare di offendere una categoria. O dovremmo forse dire “conduttore di greggi in transito” per indicare un pastore di pecore? C’è molta dignità, ma molta, nell’essere un “vecchio”.

   Qualcuno vorrebbe tradurre “vecchio” con “ambasciatore”. La stessa TNM, nella nota in calce a “uomo d’età avanzata”, indica: “O, ‘ambasciatore’”. Vero è che in Ef 6:20 Paolo dice di sé: “Agisco come un ambasciatore [πρεσβεύω (presbèuo)]” (TNM), il che indica la sua qualità d’inviato di Yeshùa. Ma qui, nella lettera a Filemone, “ambasciatore” non s’addice affatto al contesto, dato che Paolo non intende presentarsi con la sua autorità. Va quindi tradotto con “vecchio”. Paolo, infatti, vuole intenerire Filemone: Chi te lo chiede – dice Paolo – è un vecchio che, per giunta, è nelle catene di una prigione. Il termine “vecchio” non va preso troppo alla lettera per dedurne l’età di Paolo. Il termine è alquanto elastico e si applicava a persone sia cinquantenni che settantenni. Paolo, definendosi così, calca le tinte per commuovere maggiormente Filemone.

   Dal v. 10 Paolo presenta l’oggetto della sua petizione. Si tratta di Onesimo. Paolo non dice semplicemente: ‘Ti prego per Onesimo’. Questa espressione diretta, con il nome “Onesimo” messo lì davanti, avrebbe potuto stimolare in Filemone amari rancori verso lo schiavo fuggito. Paolo, abilmente, premette al nome un’espressione che addolcisce la menzione di quel nome non certo amato: “Ti prego per mio figlio che ho generato mentre ero in catene, per Onesimo” (v. 10). Se volessimo dare il senso vero dell’espressione greca usata da Paolo, dovremmo tradurre: ‘Ti prego per il mio ragazzo’. Come non commuoversi? Il senso di contrarietà che poteva prodursi in Filemone al solo udire il nome di Onesimo, viene così superato. TNM pare proprio non cogliere la commovente delicatezza di Paolo, e traduce con un duro: “Ti esorto riguardo al mio figlio”. Che contrasto! Paolo aveva appena detto che non intendeva usare la sua autorità e quindi non intendeva affatto dare un ordine, ma piuttosto rivolgere una preghiera. In questa preghiera si dice vecchio e in prigione. E dice: παρακαλῶ σε (parakalò se), “imploro te”. Oggi, nel greco moderno, la parola παρακαλῶ (parakalò), significa “per favore”.

   Segue poi un gioco di parole: l’inutile di un tempo è ora utile. Paolo gioca sulla parola “Onesimo”, gioco che nella traduzione si perde. Ma cogliamolo nel greco: il nome greco Ὀνήσιμος (Onèsimos) è da collegarsi con il verbo ὀνίνημι (onìnemi), “giovare / essere utile” (numero Strong 3685). Paolo, giocando sul nome, dice: “Onesimo, un tempo inutile a te, ma che ora è utile a te e a me” (vv. 10,11). Ora è “utile”: può servire da ottimo collaboratore per la congregazione.

   Il fatto della conversione di Onesimo per opera di Paolo fa sì che l’apostolo lo possa presentare come τὰ ἐμὰ σπλάγχνα (ta emà splànchna), “le mie viscere” (v. 12), tradotto da TNM con “i miei propri teneri affetti”.

   Paolo esalta i meriti dello schiavo, che gli fu di utilità e di conforto. Siccome il bene deve essere spontaneo, l’apostolo non ha voluto trattenere presso di sé lo schiavo di Filemone. E qui Paolo nella sua abilità si fa audace mettendo all’angolo Filemone. È la tipica sottigliezza arguta di Paolo dà anche qui il meglio:

“Avrei voluto tenerlo con me, perché in vece tua mi servisse nelle catene che porto a motivo del vangelo; ma non ho voluto far nulla senza il tuo consenso, perché la tua buona azione non fosse forzata, ma volontaria”. – Vv. 13,14.

   Un padrone (Filemone) e uno schiavo (Onesimo). Paolo arriva a identificarli. Avrebbe voluto trattenere Onesimo perché lo servisse. Ma dice a Filemone: “In vece tua”, ovvero “al tuo posto”. Come dire: Dovresti servirmi tu, ma va bene Onesimo al posto tuo. Il padrone Filemone dovrebbe essere lui servo di Paolo, ma Onesimo prende il posto di Filemone. Come potergli dire di no? “Non c’è qui […] né schiavo né libero […] perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù”. – Gal 3:28.

   TNM sbaglia i tempi: “Vorrei trattenerlo presso di me affinché continui a servirmi in vece tua” (v. 13). Il greco ha il tempo al passato, non al presente:

ἐγὼ ἐβουλόμην πρὸς ἐμαυτὸν κατέχειν

egò ebulòmen pros emautòn katèchein

io volevo presso di me trattenere

   Tra l’altro, TNM crea un anacronismo che entra in conflitto con la forma epistolare di Paolo. L’apostolo, infatti, dice:

v. 12

ἀνέπεμψά σοι, αὐτόν

anèpempsà soi autòn

“Ho rimandato a te lui”

Quando Filemone leggerà la lettera – con Onesimo lì presente -, il tempo sarà adatto a lui: “Ho rimandato” e “Volevo trattenerlo presso di me”.

v. 13

ἐγὼ ἐβουλόμην πρὸς ἐμαυτὸν κατέχειν

egò ebulòmen pros emautòn katèchein

“Io volevo presso di me trattenere”

(Testo greco)

   S’immagini la scena: Onesimo consegna la lettera di Paolo a Filemone. Onesimo è lì davanti a Filemone che legge:

v. 12

“Questo stesso [Onesimo] ti rimando”

L’italiano può reggere il presente: Onesimo è lì.

v. 13

“Vorrei trattenerlo presso di me”

Anacronistico far dire a Paolo: “Vorrei trattenerlo”, perché Onesimo è lì da Filemone.

(TNM)

   Paolo pensa che nella fuga di Onesimo vi sia stato un fatto provvidenziale, poiché la sua fuga ha favorito la sua conversione. Questa è un’esperienza che il credente fa spesso. Non di rado, ripensando al passato si vede l’azione di Dio nella vita del fedele. A distanza, possiamo perfino essere grati con tutto il cuore che Dio non abbia esaudito una certa nostra richiesta a cui tenevamo molto: gli eventi successivi possono averci mostrato che sarebbe stato per noi un danno.

   Con la conversione di Onesimo, Filemone ha riavuto il suo schiamo per sempre, ma come “fratello”: “Forse proprio per questo egli è stato lontano da te per un po’ di tempo, perché tu lo riavessi per sempre; non più come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello caro” (vv. 15,16). “È stato lontano” (“si separò”, TNM) è nel greco ἐχωρίσθη (echorìsthe). Si tratta di un’espressione usata nei papiri per indicare la fuga degli schiavi.

   Onesimo sperava di trovare la sua libertà scappando da Filemone. Probabilmente era una persona turbolenta e decisa (aveva infatti rischiato la pena di morte, fuggendo). Anelava alla libertà. Ma ora torna trasformato, ravveduto, convertito. E trova la vera libertà presso il suo padrone d’un tempo. Onesimo è ormai divenuto “un fratello caro specialmente” a Paolo (v. 16), “diletto” (TNM), “carissimo” (CEI); il greco ha ἀδελφὸν ἀγαπητόν (adelfòn agapetòn), “fratello amato”. “Ma ora molto più a te” (v. 16), in altre parole è divenuto un “fratello amato” molto più per Filemone che per Paolo. Paolo dice:

καὶ ἐν σαρκὶ καὶ ἐν κυρίῳ

kài en sarkì kài en kürìo

e in carne e in Signore

    Questa espressione è così tradotta:

“Sia sul piano umano sia nel Signore”

VR

“Sia per relazione carnale che nel Signore”

TNM

“Sia come uomo, sia come fratello nel Signore”

CEI

“Ed in carne, e nel Signore”

Did

“Sia come uomo sia come credente”

PdS

   Non si sa con precisione cosa indichi “nella carne”. Di certo non indica la “relazione carnale” per cui opta TNM. Onesimo, infatti, per Filemone era uno schiavo, non un parente carnale. Probabilmente l’espressione paolina sta a indicare il vincolo di proprietà che univa Onesimo a Filemone. Appare quindi buona la traduzione di PdS: “Sia come uomo sia come credente”.

   “Se dunque tu mi consideri in comunione con te, accoglilo come me stesso” (v. 17). “Se, perciò, mi consideri partecipe” (TNM). Cosa intende Paolo? Il greco ci illumina: εἰ οὖν με ἔχεις κοινωνόν (èi un me ècheis koinonòn). La parola κοινωνόν (koinonòn) può indicare “un associato, socio, compagno, partecipante in qualcosa” (Vocabolario del Nuovo Testamento). L’interlineare Nuovo Testamento Greco-Latino-Italiano, Ed. San Paolo, la traduce “amico”: “Se dunque me hai (come) amico”. Tuttavia, la parola greca κοινωνία (koinonìa) indica nelle Scritture Greche anche la comunione dei beni e degli aiuti tra i credenti. “Continuavano a dedicarsi all’insegnamento degli apostoli e a partecipare [l’uno con l’altro] [κοινωνία (koinonìa)], a prendere i pasti e alle preghiere” (At 2:42, TNM). “Hanno avuto piacere di condividere le loro cose [κοινωνίαν (koinonìan)] mediante una contribuzione per i poveri dei santi [che sono] a Gerusalemme” (Rm 15:26, TNM). “Siete generosi nella vostra contribuzione [κοινωνίας (koinonìas)]” (2Cor 9:13, TNM). Paolo, quindi, sta dicendo a Filemone che la comunione dei beni di cui gode presso di lui deve estendersi ora anche a Onesimo, divenuto loro fratello nella fede. Paolo, infatti, s’identifica con lui: “Accoglilo come me stesso” (v. 17). In pratica: Se tu Filemone ed io Paolo siamo nella koinonìa, nella comunione fraterna dei beni, allora devi accogliere Onesimo come accoglieresti me. Anzi, Paolo vuole dare per primo l’esempio: “Se ti ha fatto qualche torto o ti deve qualcosa, addebitalo a me” (v. 18). È disposto a pagare i debiti contratti dallo schiavo. Come si vede, la koinonìa dei discepoli di Yeshùa non ha proprio nulla a che fare con l’ideologia comunista: i capitali privati erano rispettati.

   È un fatto che la fuga di Onesimo avesse danneggiato il suo padrone. Ciò era accaduto per il probabile furto (di solito era solo rubando del denaro al proprio padrone che uno schiavo si poteva pagare la fuga), ma di certo per il mancato lavoro a favore del padrone. Paolo, come se firmasse una cambiale, aggiunge di proprio pugno: “Io, Paolo, lo scrivo di mia propria mano: pagherò io”. – V. 19.

   Le espressioni: “Se ti ha fatto qualche torto [ἠδίκησεν (edìkesen); meglio: ”Se ti ha danneggiato”]” (v. 18), “O ti deve [ὀφείλει (ofèilei)] qualcosa” (v. 18), “Addebitalo [ἐλλόγα (ellòga), “mettilo sul conto”] a me” (v. 18), “Pagherò [ἀποτίσω (apotìso)] io” (v. 19), sono tutte espressioni tratte dal linguaggio commerciale.

   Si noti come Paolo ha chiamato Onesimo (v. 10): τέκνον (tèknon) – impropriamente tradotto “figlio” (VR, TNM) -, parola che significa “ragazzo”, per la precisione si tratta di un ragazzo minorenne. Il senso è che Paolo si sente responsabile come un padre per i debiti contratti dal figlio, quasi questi fosse ancora un ragazzino.

   Ora Paolo prosegue con un tono scherzoso. L’apostolo ricorda a Filemone che in realtà egli era “debitore” a Paolo di se stesso. “Tu mi sei debitore perfino di te stesso” (v. 19). TNM cambia le carte in tavola e traduce liberamente: “Tu mi devi perfino te stesso”. E così fa perdere l’arguta ironia che Paolo usa:

σεαυτόν μοι προσοφείλεις

seautòn moi prosofèileis

di te stesso a me sei debitore

   Come si può comprendere questo passo? Che debito aveva Filemone con Paolo? Lo può far comprendere un papiro del 145 a. E. V. conservato a Parigi (Paris 10). In questo papiro si parla di due schiavi fuggitivi che hanno rubato e che sono ricercati. Chiunque collaborerà per rintracciarli e per farli riavere al padrone – vi si riferisce – riceverà due talenti e 3000 dramme (se si tratta di un cittadino privato) o un talento e 2000 dramme (se si tratta di un asilo sacro); in più, quale diritto speciale d’indennizzo, 3 talenti e 5000 dramme. Alla luce di queste procedure dell’antichità, Paolo direbbe:

  1. I suoi debiti considerali miei (Paolo, in virtù dell’amore, s’identifica con lo schiavo).
  2. Questi debiti mettili sul mio conto, dato che sono in koinonìa o comunione di beni con te. Ti pagherò. Considera questo come una fattura.
  3. Però, considerando meglio le cose, se calcoli bene quanto ti rubò e aggiungi la quantificazione del danno (che Paolo di certo ben conosceva), e se calcoli quanto tu mi dovresti per il compenso dello schiavo che ti rimando, alla fine mi sei debitore. Mi devi di più: προσοφείλεις (prosofèileis).
  4. Se poi parliamo sul piano spirituale, mi devi molto di più ancora: te stesso con tutte le tue cose, perché sono io che ti ho reso discepolo di Yeshùa. Cancellami quindi ogni debito e mettimi a disposizione Onesimo, che così diverrà “utile”, proprio lui che era “inutile” (altro gioco di parole sul nome “Onesimo”, al v. 20). Conforta quindi le mie viscere! (v. 20, semitismo per indicare la sede degli affetti e dei sentimenti).

   Paolo aveva iniziato con tenerezza commovente: Te lo chiede un povero vecchio, in prigione. Ora conclude scherzando: Fatti bene i conti e vedi che sei tu a doverne a me.

   Paolo si mostra infine sicuro che Filemone farà ancora più di quanto gli viene chiesto, mettendo lo schiavo ormai emancipato a sua completa disposizione. “Ti scrivo fiducioso nella tua ubbidienza, sapendo che farai anche più di quel che ti chiedo”. – V. 21.

   Infine, confidando di essere presto liberato per l’efficacia della preghiera, chiede a Filemone di preparargli un alloggio. “Preparami un alloggio, perché spero, grazie alle vostre preghiere, di esservi restituito” (v. 22). Quest’ultimo dato biblico relativo all’alloggio è più comprensibile con la prigionia di Paolo a Efeso anziché a Roma, tuttavia rimane sempre possibile anche la prigionia nell’Urbe.