Qual era la situazione della schiavitù al tempo di Paolo? Lo stato di schiavo, come parte del sistema strutturale di quel tempo, non era considerato in se stesso come degradante, tant’è vero che spesso allo schiavo era affidata l’istruzione dei figli e delle figlie dello stesso padrone. – Cfr. W. L. Westermann, Slavery Ancient in Enciclopedia of Social Sciences, New York, Macmillan, pag. 74.
Tuttavia, nonostante questi nobili rapporti tra padrone e schiavo, lo schiavo:
- Era considerato una res, una cosa, almeno nella legge civile nazionale; gli mancava ciò che è l’elemento essenziale di una persona: la libertà di scelta.
- In più, non godeva il privilegio dell’organizzazione e dell’associazione in gruppi sociali, ciò che era proprio delle persone libere.
- Era totalmente dipendente dal padrone; la legge praticamente non poneva alcuna restrizione al controllo assoluto del padrone sulla sua vita e sulla sua morte.
Anche se tale situazione fu mitigata dagli imperatori Claudio e Adriano (che proibirono ai padroni di uccidere senza motivo gli schiavi), di fatto anche lo stoicismo (che teoricamente sosteneva l’uguaglianza di tutti gli uomini) non fece fare alcun passo reale verso la costituzione giuridica degli schiavi.
In un simile ambiente, in cui la schiavitù era un elemento fisso e accettato della vita, in cui si discuteva se lo schiavo fosse una cosa o una persona, in un ambiente così, che mai poteva fare Paolo per eliminare tale situazione? Dobbiamo anche domandarci se la gente di allora potesse perfino immaginare una società in cui tutti fossero liberi.
Possiamo almeno intuire che Paolo desiderasse la scomparsa della schiavitù? Non dobbiamo rispondere frettolosamente con un sì, proiettando su Paolo il nostro sdegno da 21° secolo nei confronti della schiavitù. La verità è che non possiamo rispondere con certezza. Tuttavia, l’esaltazione che Paolo fa della libertà ci fa capire che egli di certo bramava un cambiamento sociale: “Sei stato chiamato essendo schiavo? Non te ne preoccupare, ma se puoi diventar libero, è meglio valerti dell’opportunità” (1Cor 7:21). Attenzione, però: si tratta di un cambiamento individuale. Un’azione diretta per un cambiamento di tutta la società era allora impossibile, perché Paolo avrebbe dovuto incoraggiare la rivolta. E in tale rivolta (com’era dimostrato da tutti i precedenti tentativi) gli schiavi avrebbero avuto la peggio, come sempre. Paolo, quindi, non poteva (né intendeva) fare nulla contro la costituzione sociale del suo tempo. Tant’è vero che Paolo rimanda a Filemone lo schiavo Onesimo; non intende tenerlo con sé senza il permesso del padrone. Tuttavia, Paolo cerca di introdurre per così dire del vino nuovo per far scoppiare la vecchia botte della struttura schiavista.
Anche il paganesimo (specialmente con gli stoici) aveva cercato di migliorare la situazione degli schiavi. Ma sotto un aspetto diverso. È interessante il confronto della lettera a Filemone con l’argomentazione di Plinio per un caso simile a favore di un altro schiavo fuggito dal padrone.
“Tu sei in collera con ragione, anche questo lo so. Ma la dolcezza è meritoria soprattutto quando si hanno giusti motivi di collera. Tu hai amato quest’uomo e, spero, lo ami tuttora. Basta quindi che ti lasci commuovere. Potrai anche arrabbiarti di nuovo se egli lo meriterà, perché dopo il tuo perdono ciò sarà scusabile. Frattanto concedi qualcosa alla sua giovinezza, qualcosa alle sue lacrime, qualcosa alla tua bontà naturale. Cessa di tormentarlo, anzi cessa di tormentare te stesso, poiché la collera è un vero tormento per te che sei così dolce”. – Plinio, in H. C. Lea, Studies in Church History, pag. 555.
Qui, nel caso trattato da Plinio, ci sono solo ragioni umane che non vanno al di là del caso pratico che vede coinvolto un padrone d’animo dolce che vuol bene al suo schiavo. Plinio non cerca affatto di mutare i rapporti intercorrenti tra schiavo e padrone. Nel caso dei filosofi stoici, al massimo si dice che nessuno è schiavo per natura, ma solo per le circostanze della sua nascita o della sua vita. Notevole sotto quest’aspetto è un frammento che riporta una protesta contro l’istituto della schiavitù:
“Anche se uno è schiavo, ha però la medesima carne: nessuno infatti morì schiavo per natura; è la sorte, al contrario, che ha fatto schiavo il corpo”. – Fragmenta Comicorum Graecorum IV, Berlino, n. 39,47.
Paolo, invece, parte da un altro principio: quello soprannaturale. Anche nell’insegnamento paolino si nota un progresso. Nella lettera ai corinti (una delle più antiche), tutta imbevuta dall’idea di un imminente ritorno di Yeshùa, Paolo non annette alcuna importanza all’essere schiavo o libero. Il motivo sta nel nuovo rapporto con il Signore: in questa nuova relazione tutti sono schiavi. La fede crea una nuova fraternità tra i credenti, schiavi compresi. Yeshùa ha dato origine a una nuova umanità in cui più non c’è distinzione tra schiavo e libero. “Voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è qui né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3:27,28). “Noi tutti siamo stati battezzati in un unico Spirito per formare un unico corpo, Giudei e Greci, schiavi e liberi; e tutti siamo stati abbeverati di un solo Spirito” (1Cor 12:13). “Colui che è stato chiamato nel Signore, da schiavo, è un affrancato del Signore; ugualmente colui che è stato chiamato mentre era libero, è schiavo di Cristo”. – 1Cor 7:22.
Poi, nelle lettere successive, l’apostolo si prefigge di umanizzare i rapporti tra padroni e schiavi, rendendo così più tollerabile la situazione. È introdotto in questo modo il germe della futura eliminazione della schiavitù. “Servi, ubbidite in ogni cosa ai vostri padroni secondo la carne; non servendoli soltanto quando vi vedono, come per piacere agli uomini, ma con semplicità di cuore, temendo il Signore. Qualunque cosa facciate, fatela di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che dal Signore riceverete per ricompensa l’eredità. Servite Cristo, il Signore! Infatti chi agisce ingiustamente riceverà la retribuzione del torto che avrà fatto, senza che vi siano favoritismi. Padroni, date ai vostri servi ciò che è giusto ed equo, sapendo che anche voi avete un padrone nel cielo” (Col 3:22-4:1). “Servi, ubbidite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, nella semplicità del vostro cuore, come a Cristo, non servendo per essere visti, come per piacere agli uomini, ma come servi di Cristo. Fate la volontà di Dio di buon animo, servendo con benevolenza, come se serviste il Signore e non gli uomini; sapendo che ognuno, quando abbia fatto qualche bene, ne riceverà la ricompensa dal Signore, servo o libero che sia. Voi, padroni, agite allo stesso modo verso di loro astenendovi dalle minacce, sapendo che il Signore vostro e loro è nel cielo e che presso di lui non c’è favoritismo”. – Ef 6:5-9.
In Flm lo schiavo è presentato come un “fratello” del padrone: “Non più come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello caro” (v. 16; cfr. vv. 7 e 10). Padrone e schiavo, Filemone e Onesimo, sono fratelli perché entrambi sono stati generati alla nuova vita da parte di Paolo. Infatti, come Filemone è associato a Paolo nella fede e nella koinonìa (v. 6, la comunione dei beni), così lo è pure Onesimo. – V. 17.
Un segno di questa comunione è la partecipazione alla stessa cena del Signore. La congregazione ebbe un grande influsso nell’alleviare la schiavitù proprio facendo sedere alla stessa mensa del Signore sia il padrone sia lo schiavo. Allo schiavo, che non poteva associarsi con altri in alcun modo, si apriva ora la possibilità di entrare a far parte della congregazione. Il culto era il mezzo più opportuno per mostrare questa fraternità. Nessuno potrà mai esaltare a sufficienza l’importanza di questo fatto per l’eliminazione delle barriere erette dalla schiavitù.
Le parole di Paolo sul fatto che anche i padroni hanno un padrone in cielo (Ef 6:9; Col 4:1) dovevano suonare come un potente richiamo per gli schiavi che affollavano la congregazione primitiva.
Un altro principio riguarda il perdono che il padrone deve allo schiavo come conseguenza del perdono che lui pure ha ricevuto dal Messia di Dio: “Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi”. – Col 3:13.
Si ricordi la preghiera che Yeshùa ci ha insegnato: “Perdona le nostre offese come anche noi perdoniamo a chi ci ha offeso” (Mt 6:12, PdS). “Rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori”.
Si deve poi notare che Paolo è perfino disposto a pagare lui stesso i debiti dello schiavo. Anche questo è segno di solidarietà e di fraternità. Talvolta, nel 1° secolo, accadeva che gli stessi fratelli pagavano l’emancipazione dello schiavo a loro proprie spese.
Si veda poi l’importanza del lavoro missionario. Anche uno schiavo poteva divenire una delle guide della congregazione, un “vescovo”. La richiesta di Paolo è fatta anche in vista del lavoro missionario che Onesimo, ormai “utile” (come dice il suo stesso nome, su cui Paolo scherza), può svolgere. Non ne abbiamo la prova, ma se Onesimo fosse la stessa persona ricordata da Ignazio, avremmo l’evidenza che lo schiavo Onesimo sarebbe poi divenuto vescovo della stessa congregazione di Efeso, capitale dell’Asia Minore (Ad Ephes. 1,3). I martirologi identificano lo schiavo Onesimo con il vescovo di Efeso (Acta SS., Februarii II, Anversa, pag. 856). Tuttavia, data la frequenza del nome “Onesimo”, non possiamo insistere troppo su questa ipotesi. Le Costituzioni Apostoliche riferiscono che Paolo stabilì l’ex schiavo come vescovo di Berea in Macedonia. Si tratta di notizie non sicure. Non è questo qui il punto. Il punto è che è un fatto che allora uno schiavo poteva diventare vescovo (generalmente dopo la sua emancipazione).
Il motivo della missione permea tutta l’epistola. Onesimo fu rigenerato da Paolo in prigione (v. 10). Filemone era stato convertito da Paolo (v. 19) ed era un cooperatore dell’apostolo. Filemone doveva promuovere la consapevolezza del bene che possiamo fare (v. 6). Il suo amore per i santi fece gioire l’animo di Paolo. – V. 7.
È molto bella questa parità di lavoro nel Signore, dove uno schiavo poteva divenire la guida spirituale anche di persone libere.
Possiamo concludere che Paolo, pur non lottando socialmente per abolire la schiavitù, versò in essa il messaggio del vangelo che avrebbe dovuto ineluttabilmente eliminarla. Peccato che nel corso dei secoli la chiesa dimenticò a lungo questi princìpi. D’altra parte, cosa ci si poteva aspettare da una chiesa che ormai era apostata, paganizzata, e che s’interessava solo del potere?