Preghiera di Paolo (1:15-22).

   “Anch’io, avendo udito parlare della vostra fede nel Signore Gesù e del vostro amore per tutti i santi” (1:15). Fede e amore. Si tratta di due elementi costitutivi della vita dei discepoli di Yeshùa. Non vi può essere vera fede senza amore, che ne è il rivestimento pratico. La fede biblica non è mai un “credo” teorico, un insieme di dottrine che si accettano. La fede biblica è fiducia in Dio, nella sua potenza, per camminare con Yeshùa in novità di vita.

“A che serve, fratelli miei, se uno dice di aver fede ma non ha opere? Può la fede salvarlo? Se un fratello o una sorella non hanno vestiti e mancano del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: ‘Andate in pace, scaldatevi e saziatevi’, ma non date loro le cose necessarie al corpo, a che cosa serve? Così è della fede; se non ha opere, è per sé stessa morta. Anzi uno piuttosto dirà: ‘Tu hai la fede, e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le tue opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede’. Tu credi che c’è un solo Dio, e fai bene; anche i demòni lo credono e tremano. Insensato! Vuoi renderti conto che la fede senza le opere non ha valore? Abraamo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere quando offrì suo figlio Isacco sull’altare? Tu vedi che la fede agiva insieme alle sue opere e che per le opere la fede fu resa completa; così fu adempiuta la Scrittura che dice: ‘Abraamo credette a Dio, e ciò gli fu messo in conto come giustizia’; e fu chiamato amico di Dio. Dunque vedete che l’uomo è giustificato per opere, e non per fede soltanto. E così Raab, la prostituta, non fu anche lei giustificata per le opere quando accolse gli inviati e li fece ripartire per un’altra strada? Infatti, come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta”. – Gc 2:14-26.

   Fede: la parola “fede” e il verbo “credere” si trovano per ben quasi 200 volte in Paolo, con varie sfumature di concetto, come “fedeltà” (Rm 3:3) o convinzione di ciò che non si vede (2Cor 5:7). In particolare, “fede” significa fiducia assoluta, di cui è tipico esempio Abraamo (il padre dei credenti che quando Dio parlò “credette a Dio”, Rm 4:3). Per Paolo credere è prendere sul serio il fatto che in Yeshùa Dio ci parla, e ciò include un forte elemento di “ubbidienza della fede” (Rm 1:5).  La fede paolina è:

  1. Accettare non delle dottrine (un credo) ma una persona, perché Paolo era sicurissimo che Dio fosse con Yeshùa.
  2. Norma di salvezza in quanto si contrappone alle opere legalistiche. E qui non si faccia confusione: opere intese come sforzo umano per procurarsi credito in cielo. Le opere ci vogliono, ma cambia lo scopo. Non si ubbidisce (opere legalistiche) per avere l’amore di Dio, ma si ubbidisce perché Dio ci ama. Le opere non sono condizione di salvezza ma conseguenza della fede.
  3. Un atteggiamento di condotta: “La vita che vivo ora nella carne, la vivo nella fede nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato sé stesso per me” (Gal 2:20). La fede congiunta all’ubbidienza dà inizio alla nostra unione con Dio (Lutero paragonò la fede a un anello nuziale).
  4. L’affidamento a Yeshùa e alla sua congregazione, che è il suo corpo.
  5. Operatività per mezzo dell’amore, altrimenti sarebbe finta: “Quello che vale è la fede che opera per mezzo dell’amore” (Gal 5:6). Ripetiamo: Le opere non sono condizione di salvezza ma conseguenza della fede.

   Si noti il sentimento di Paolo che, conosciuta la condotta degli efesini (ammesso che fossero efesini), ringrazia per questo Dio: “Avendo udito parlare della vostra fede nel Signore Gesù e del vostro amore per tutti i santi, non smetto mai di rendere grazie per voi”. – 1:15,16.

   “Il Dio del nostro Signore Gesù Cristo, il Padre della gloria” (1:17). Il “Padre della gloria” non è Yeshùa ma Dio. E Yeshùa non è Dio, perché Dio è “il Dio del nostro Signore Gesù Cristo”. “Padre della gloria” può essere inteso in due maniere:

a)       Che dona la gloria (genitivo oggettivo).

b)       Che possiede la gloria (genitivo soggettivo). È preferibile questo secondo senso: la “gloria” appartiene a Dio, è il suo riflesso; è il riflesso di Dio che mostra la sua presenza e la sua potenza, infinitamente superiore alle creature.

   Yeshùa “è lo specchio della gloria di Dio, l’immagine perfetta di ciò che Dio è” (Eb 1:3, PdS). Bellissima l’espressione di Paolo in 2Cor 4:6, e bellissima anche la traduzione che ne fa PdS: “[Dio] ha fatto risplendere in noi la luce per farci conoscere la gloria di Dio riflessa sul volto di Cristo”.

   “Egli illumini gli occhi del vostro cuore” (1:18). Come già detto più volte, il cuore non era per gli ebrei la sede dei sentimenti (che è un pensiero occidentale); per gli ebrei, infatti, i sentimenti risiedevano nelle viscere e nei reni. Presso gli ebrei (e, quindi, nella Bibbia) il cuore è la sede del discernimento, del pensiero. Gli occidentali dicono di pensare con il cervello, i semiti dicevano di pensare con il cuore. Nella psicologia umana gli ebrei distinguevano:

  • Le viscere: sede della commozione. Una forte commozione non di rado produce movimento degli intestini. “La commozione delle tue parti interiori” (Is 63:15, TNM). “[Yeshùa] fu mosso a pietà [greco ἐσπλαγχνίσθη (esplanchnìsthe): “fu mosso nelle viscere”]”. – Lc 7:13), TNM.
  • I reni (non le reni, ma i reni): sede dei sentimenti. L’occidentale dice: Ti amo con tutto il mio cuore. L’ebreo, invece, direbbe: Ti amo con i miei reni. “Sei il Dio giusto che conosce i cuori e i reni” (Sl 7:9): per l’occidentale sarebbe: ‘Conosce la mente e il cuore’; per l’ebreo – detto con nostro linguaggio – è: “Conosce le menti e i sentimenti”. Dio è chi scruta tutto l’essere umano, sia nella sua parte sentimentale (reni) sia in quella intellettuale o mentale (cuore).
  • Il cuore: sede dell’intelligenza, dei pensieri. “Dal cuore vengono malvagi ragionamenti” (Mt 15:19, TNM). “Non avevano afferrato il significato […] il loro cuore era duro a comprendere” (Mr 6:52, TNM). “Tu amerai dunque il Signore, il tuo Dio, con tutto il cuore” (Dt 6:5) significa, quindi, “con tutta la mente”.

   L’“eredità che vi riserva tra i santi” (1:18) è quella per cui Dio ha dato la caparra, il “pegno della nostra eredità” (1:14), perché “in lui siamo anche stati fatti eredi”. – 1:11.

   “Lo fece sedere alla propria destra nel cielo” (1:20). È una forma antropomorfica tratta dal fatto che la persona più stimata dopo se stessi era in Israele fatta sedere alla propria destra, posto d’onore non solo per gli orientali ma anche per gli occidentali. Solo per i sumeri il posto d’onore era alla sinistra (da ciò ancor oggi deriva l’inizio della marcia con il piede sinistro, quale buon auspicio).

   Il porre Yeshùa alla destra di Dio significa conferirgli il supremo posto d’onore, sopra tutte le altre creature, angeli compresi. Si noti come anche da questo fatto si comprende che Yeshùa non era il primo essere spirituale creato da Dio e sopra di tutti gli esseri spirituali. Yeshùa era un uomo che fu ubbidiente in tutto. Fino alla morte, “ma Dio lo risuscitò” (At 2:24), “lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla propria destra nel cielo” (1:20), posizione che prima della sua resurrezione non aveva. – At 7:55,56; Sl 110:1; Dn 7:13.

   Questa posizione non sarà eterna: “Siedi alla mia destra finché io abbia fatto dei tuoi nemici lo sgabello dei tuoi piedi” (Sl 110:1). Questa posizione durerà solo fino al completamento della sua missione, dopodiché Yeshùa metterà tutto nelle mani di Dio: “Poi verrà la fine, quando consegnerà il regno nelle mani di Dio Padre, dopo che avrà ridotto al nulla ogni principato, ogni potestà e ogni potenza. Poiché bisogna ch’egli regni finché abbia messo tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico che sarà distrutto, sarà la morte. Difatti, Dio ha posto ogni cosa sotto i suoi piedi; ma quando dice che ogni cosa gli è sottoposta, è chiaro che colui che gli ha sottoposto ogni cosa, ne è eccettuato. Quando ogni cosa gli sarà stata sottoposta, allora anche il Figlio stesso sarà sottoposto a colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti”. – 1Cor 15:24-28.

   “Al di sopra di ogni principato, autorità, potenza, signoria” (1:21): sono classificazioni angeliche che non sono necessariamente sottoposte a Dio. Sembra anzi che siano a lui contrarie e soggiogate poi a Dio: “Ha spogliato i principati e le potenze, ne ha fatto un pubblico spettacolo, trionfando su di loro” (Col 2:15). Si veda in questa stessa categoria, per approfondimento, lo studio Appendice – Il trionfo di Yeshùa.

   “Al di sopra […] di ogni altro nome che si nomina” (1:21). Per l’orientale il nome equivale alla sostanza di una persona. Indica qui che Yeshùa è posto sopra ogni essere creato o creabile, “non solo in questo mondo, ma anche in quello futuro”. – 1:21.

   “Nome che si nomina” (1:21). L’impersonale “che si nomina” non si legga all’occidentale, come se fosse: ‘che la gente nomina’. Non è la gente che nomina quei nomi “in questo mondo, ma anche in quello futuro”. Non potrebbe farlo, perché sono nomi che appartengono alle sfere di cui è detto che Yeshùa è “al di sopra”: “Ogni principato, autorità, potenza, signoria e di ogni altro nome che si nomina”. Le persone non conoscano neppure quei nomi! E non si legga il “si nomina” in maniera letterale, sempre all’occidentale. È Dio che “nomina”. Egli nomina un nome e ciò che il nome rappresenta conseguentemente esiste. Il testo dice ὀνόματος ὀνομαζομένου (onòmatos onomazomènu), “nome nominato”. Già presso i sumeri si diceva che un tempo gli esseri ancora non esistevano perché non erano stati nominati da Dio. La Genesi descrive la creazione mediante lo spirito di Dio che pronunciando i nomi li fa venire all’esistenza: “Dio disse: ‘Sia luce!’. E luce fu”. – Gn 1:3.

   L’impersonale “si nomina” è un modo tipicamente ebraico per evitare il nome di Dio. Anziché dire: ‘Ogni altro nome che Dio nomina’, l’ebreo preferisce dire: “Ogni altro nome che si nomina”.

   “In questo mondo” si riferisce a tutti gli esseri già esistenti; “in quello futuro” indica il mondo dopo il ritorno di Yeshùa, il Regno glorioso di Dio. Mai potrà essere creato un essere superiore a Yeshùa, perché egli è posto da Dio “al di sopra” di “ogni nome” presente e futuro. Ciò esclude tassativamente tutte le presunte rivelazioni (come, ad esempio, il Corano) che ci presentano un essere superiore a Yeshùa (come, ad esempio, Maometto). “Dio, dopo aver parlato anticamente molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose”. – Eb 1:1,2.

   Il mondo futuro ha già fatto irruzione nel presente con Yeshùa, ma non si è ancora manifestato nella sua totalità. Ciò avverrà solo nel Regno celeste.

   “Ogni cosa egli ha posta sotto i suoi piedi e lo ha dato per capo supremo alla chiesa” (1:22). La chiesa o congregazione ha Yeshùa come suo capo. “Cristo è capo della chiesa” (Ef 5:23). Ma Yeshùa non è solo il capo della congregazione. È il capo di tutto il creato: “Ogni cosa egli ha posta sotto i suoi piedi”. Anche se ci fossero nell’universo altri mondi abitati, sarebbero a lui sottoposti. Perfino gli angeli gli sono sottoposti.

   “Capo supremo” non è una buona traduzione. Il greco ha κεφαλὴν (kefalèn), “capo”, senza aggettivo. Il “capo” va qui inteso anche come “testa”, nell’immagine che Paolo spesso usa. Oltretutto, non è possibile che ci sia un altro capo della congregazione, sebbene inferiore a Yeshùa. Egli è il “capo”, l’unico capo. È superfluo aggiungere nella traduzione “supremo”. Questo esclude inequivocabilmente qualunque presunto suo “vicario” o suo rappresentante. È un’inaudita arroganza che il papa si proclami “capo della Chiesa” e “vicario di Cristo”. “Dio resiste ai superbi” (1Pt 5:5). Il concetto che la congregazione abbia un solo capo, Yeshùa, è di grande conforto per il credente: nulla può temere, perché nulla esula dal dominio di Yeshùa. Ciò è documentato da Sl 8:6: “Tu lo hai fatto dominare sulle opere delle tue mani, hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi”; qui ci si riferisce all’essere umano in genere, quindi a maggior ragione a Yeshùa. Tutto l’universo è stato sottoposto da Dio a Yeshùa: “Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra”. – Mt 28:18.

   La congregazione è “il compimento di colui che porta a compimento ogni cosa” (1:23). Il greco ha τὸ πλήρωμα  (to plèroma), “la pienezza” (TNM). Significa qui ciò che completa il capo, ciò che permette al capo di espletare la sua funzionalità. Plèroma, “completezza”, può essere intesa in senso attivo (completa il capo) oppure in senso passivo (è riempita dal capo). Entrambe le idee sono incluse: completa il capo che da solo non sarebbe completo (mancherebbe del corpo), ma è poi lui che completa (verbo medio attivo, non passivo) ogni cosa. Come il capo guida le membra, così Yeshùa muove e guida la congregazione. Se il corpo non ci fosse, anche il capo non potrebbe esercitare la sua attività. Il modo in cui funziona il corpo proviene solo dal suo capo o testa, che guida e dirige le varie membra del corpo. “Siamo membra del suo corpo” (Ef 5:30). “Come il corpo è uno e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, benché siano molte, formano un solo corpo, così è anche di Cristo”, “Voi siete il corpo di Cristo e membra di esso, ciascuno per parte sua” (1Cor 12:12,27). “Noi, che siamo molti, siamo un solo corpo in Cristo, e, individualmente, siamo membra l’uno dell’altro”. – Rm 12:5.

   Da dove Paolo ha tratto il suo concetto di plèroma o “pienezza”? Alcuni cercano l’origine immediata di questa idea nell’errore dei colossesi: è Yeshùa, e non i corpi celesti divini, a essere l’emanazione della divinità; è lui che riempie il cosmo e guida l’universo. Altri, con forse più ragionevolezza, propendono per lo stoicismo che ammetteva che l’universo è riempito da Dio (Seneca, Filone, Aristide). Dato che Dio dimora corporalmente nel Cristo, si può dire che è tramite il Cristo che egli guida e riempie il cosmo. In tal modo Paolo applica a Yeshùa ciò che nelle Scritture Ebraiche si diceva della sapienza:

“Ma, oh se Dio volesse parlare e aprir la bocca per risponderti e rivelarti i segreti della sua saggezza, poiché infinita è la sua intelligenza! […]. Puoi forse scandagliare le profondità di Dio, arrivare a conoscere appieno l’Onnipotente? Si tratta di cose più alte del cielo; tu che faresti? Di cose più profonde del soggiorno dei morti; come le conosceresti? La loro misura è più lunga della terra, più larga del mare”. – Gb 11:5-9.