La città di Efeso era la capitale della provincia (il territorio di competenza di un magistrato romano) ed era sede ufficiale del proconsole romano. Possedeva un porto situato sulla più importante via di scambi commerciali fra Roma e l’Oriente, per cui la città era il punto d’incontro delle vie carovaniere dell’Asia Minore, costituendo un importante centro commerciale. Essa era anche un importante e famosissimo centro religioso perché vi era il tempio della dea Artemide (la Diana dei romani), considerato anticamente una delle sette meraviglie del mondo. Questa cittadina asiatica possedeva anche uno stadio e un teatro, costruiti dai romani. Il suo teatro è menzionato in At 19:23-41, in occasione della baraonda degli efesini fomentata dall’argentiere Demetrio, costruttore di tempietti. Dal teatro, una strada larga 11 m e lastricata in marmo conduceva al porto, distante circa mezzo chilometro. I ruderi di un antico tempio eretto in onore di Tito Flavio Domiziano, imperatore romano dall’81 al 96 della nostra èra, stanno ancora a testimoniare il culto imperiale che fioriva in Efeso. Anche la comunità efesina dei discepoli di Yeshùa era importante. Fu fondata da Paolo, che era giunto a accompagnato da Priscilla e dal marito di lei, Aquila, iniziando a predicare agli ebrei nella sinagoga ebraica (At 18:18-21). Partito Paolo, a Efeso rimasero Priscilla e Aquila, che istruirono l’ebreo alessandrino Apollo. – At 18:24-26.
“Queste cose dice colui che tiene le sette stelle nella sua destra e cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro” (Ap 2:1). Inizia così il messaggio alla comunità efesina. Chi parla è Yeshùa, che tiene saldamente in mano le sue comunità e parla con le parole bibliche degli antichi profeti: “Così parla il Signore”. La comunità efesina viene lodata per aver smascherato i falsi apostoli (Ibidem) e le viene dato atto che detesta “le opere dei Nicolaiti”, che Yeshùa pure detesta (Ap 2:6). Chi fossero tali nicolaiti e cosa insegnassero non è dato di sapere; il loro insegnamento è menzionato anche a proposito di Pergamo (cfr. Ap 2:15,16). La congregazione è rimprovera anche perché ha abbandonato il suo primo amore (Ap 2:4). Non si tratta qui dell’entusiasmo iniziale che viene poi meno ma dell’amore fraterno che contraddistingue i discepoli di Yeshùa. All’inizio questa comunità traboccava d’amore, ma ora era in una fase di raffreddamento dell’amore, caratteristica degli ultimi tempi (cfr. Mt 24:12). Senza amore, l’amore mostrato da Yeshùa, tutto il resto non serve ad alcunché.
Inno all’amore
“Se parlo le lingue degli uomini
e anche quelle degli angeli,
ma non ho amore,
sono un metallo che rimbomba,
uno strumento che suona a vuoto.
Se ho il dono d’essere profeta
e di conoscere tutti i misteri,
se possiedo tutta la scienza
e ho tanta fede da smuovere i monti,
ma non ho amore,
io non sono niente.
Se do ai poveri tutti i miei averi,
se offro il mio corpo alle fiamme,
ma non ho amore,
non mi serve a nulla.
Chi ama
è paziente e generoso.
Chi ama
non è invidioso
non si vanta
non si gonfia di orgoglio.
Chi ama
è rispettoso
non cerca il proprio interesse
non cede alla collera
dimentica i torti.
Chi ama
non gode dell’ingiustizia,
la verità è la sua gioia.
Chi ama
è sempre comprensivo,
sempre fiducioso,
sempre paziente,
sempre aperto alla speranza.
L’amore non tramonta mai”. – 1Cor 13:1-8, TILC.
L’esortazione a rimediare comporta tre comandi: “[1] Ricorda dunque da dove sei caduto, [2] ravvediti, e [3] compi le opere di prima” (Ap 2:5). Prima di tutto occorre avere in mente la situazione ideale, poi ci vuole la conversione che deve essere manifestata con le opere. In pratica si tratta di iniziare daccapo e di lasciarsi guidare dell’amore. Occorre riportare la propria realtà attuale nella norma divina. Quanto sia seria la questione lo si ricava anche dalla minaccia: “Altrimenti verrò presto da te e rimoverò il tuo candelabro dal suo posto, se non ti ravvedi” (Ibidem). Non si saranno altri avvisi: Ravvediti, “altrimenti verrò presto”, e sarà per il giudizio. Il rimuovere il candelabro efesino dal suo posto implica l’esclusione di quella comunità dalle sette chiese. Nella minaccia si fa però strada la speranza, perché subito dopo il rimproverò viene fatto nuovamente un elogio perché detestano le opere dei nicolaiti. – Ap 2:6.
I nicolaiti
Nulla sappiamo della setta dei nicolaiti. Quel poco che ci è dato di sapere lo troviamo solo negli scarsi accenni presenti in Ap 2:6,15, e le notizie lasciateci dalla tradizione non sono attendibili. È inattendibile, ad esempio, il collegamento fatto da certi antichi scrittori ecclesiastici con Nicola, collegamento fatto solo in base al nome. Di questo Nicola si parla in At 6:1-6, menzionandolo tra i sette uomini scelti per provvedere ai bisogni delle vedove; Nicola vi è detto “proselito di Antiochia”, quindi non ebreo, ma il tutto si ferma lì. Ipotizzare che una setta si sia richiamata al suo nome, sarebbe semplicemente campato in aria. Ciò non toglie che a capo della setta ci potesse essere qualcuno di nome Nicola, da cui gli adepti trassero il loro nome. Questa possibilità è realistica, ma di nuovo occorre dire che nulla sappiamo del loro fondatore. Può darsi che i nicolaiti fossero degli gnostici, ma rimane un’ipotesi.
In verità, nulla sappiamo delle dottrine della setta dei nicolaiti, se non che vengono condannate. Come si siano originate e poi sviluppate rimane avvolto nel buio. La parola “così”, che collega il v. 14 con il v. 15 di Ap ci è utile solo in parte. Il questo passo è detto: “Ho qualcosa contro di te: hai alcuni che professano la dottrina di Balaam, il quale insegnava a Balac il modo di far cadere i figli d’Israele, inducendoli a mangiare carni sacrificate agli idoli e a fornicare. Così anche tu hai alcuni che professano similmente la dottrina dei Nicolaiti”. Sicuramente quel “così” fa riferimento a qualche analogia, ma il testo stabilisce anche una distinzione. Tuttavia, i nicolaiti seguono l’esempio dei seguaci di Balaam, per cui non si tratta di due gruppi diversi.
In ogni caso, gli efesini odiarono (μισεῖς, misèis, “odi”, Ap 2:6) questi nicolaiti ovvero li espulsero dalla comunità.
Alla comunità efesina viene prospettato il nuovo paradiso, essendo scomparso quello precedente terrestre:
Il nuovo paradiso di Dio
In esso c’è l’albero della vita (Gn 2:9;3:22). – Ap 2:7.
I vincitori potranno mangiarne. – Ap 2:7.
A ciò si aggiunga quanto detto in Ap 22:2 a proposito dell’albero della vita: “Esso dà dodici raccolti all’anno, porta il suo frutto ogni mese e le foglie dell’albero sono per la guarigione delle nazioni”. Il che, una volta in più, conferma che quanto detto a ciascuna delle sette comunità riguarda tutti.