Fecero davvero un grandissimo torto i traduttori della Scrittura che volsero il testo ebraico nella versione greca della Settanta (LXX) quando tradussero la parola ebraica toràh (תֹּורָה) con quella greca nòmos (νόμος), “legge”. Ne è derivato l’attuale uso di “Legge” nelle traduzioni della Bibbia. Toràh significa “insegnamento”.

   Per capire bene il punto si noti questo passo biblico: “Ci sarà una stessa legge e uno stesso decreto per voi e per lo straniero che risiede con voi” (Lv 15:16, ND). CEI traduce: “Una stessa legge e uno stesso rito”; TNM: “Un’unica legge e un’unica decisione giudiziaria”. Questi traduttori sembrano essere d’accordo su un’unica parola, che rendono con “legge”. L’altra espressione viene tradotta “decreto” o “rito” o “decisione giudiziaria”. Ci pare che ci sia una bella differenza tra “rito” e “decreto”; in quanto a “decisione giudiziaria” non si comprende bene cosa sia, ma TNM ci ha resi avvezzi a strane traduzioni in un italiano ancora più strano che alla fine dice poco e confonde molto. Come sempre, non ci rimane che affidarci alla Scrittura. Scopriamo allora che la parola che tutti rendono concordemente “legge” è nell’ebraico del testo originale תֹּורָה (toràh), mentre la seconda parola – su cui i traduttori si sbizzarriscono – è מִשְׁפָּט (mishpàt). E, dato che la Bibbia si interpreta con la Bibbia, cerchiamo le due parole originali nei testi della Scrittura.

   Mishpàt (מִשְׁפָּט). In Es 21:1 si legge: “Queste sono le leggi [מִּשְׁפָּטִים (mishpatìm); plurale di  מִשְׁפָּט, mishpàt]”; CEI: “norme”, TNM: “decisioni giudiziarie” (la nota in calce spiega: “prescrizioni, ordini”. In questo passo si parla del diritto relativo agli schiavi (vv. 2 e sgg.). Si tratta dunque di articoli relativi ad una norma, ad una prescrizione legale: si tratta di legge vera e propria. La stessa parola מִשְׁפָּט (mishpàt) appare subito dopo, al v. 9, dove si parla del “diritto delle figlie”; così anche TNM e CEI. Sempre in Es 21, al v. 31, si usa ancora la parola ebraica מִשְׁפָּט (mishpàt) per parlare della “legge” da applicarsi se un “bue attacca un figlio o una figlia”; TNM dice che “si deve fare secondo questa decisione giudiziaria”. Siamo sempre nel campo della giurisprudenza. Si potrebbero citare decine e decine (centinaia, per la verità) di altri passi: in tutti la parola מִשְׁפָּט (mishpàt) ha il senso di legge.

   Toràh (תֹּורָה). Questa parola ricorre nella Bibbia circa 340 volte. Essa compare è in Es 16:4 dove si legge: “[Io, il Signore] lo [Israele] metterò alla prova e vedrò se cammina o no secondo la mia תֹּורָה [toràh]”, reso solitamente con “legge”. Legge? Ma di che legge potrebbe trattarsi, se quella che è chiamata “Legge” fu data solo dopo (dal cap. 19 in avanti)? La prima volta che compare nella Scrittura è però in Es 12:49: “Vi sia un’unica תֹּורָה [toràh] per il nativo del paese e per lo straniero che soggiorna in mezzo a voi”. Anche qui, i traduttori concordemente traducono “legge”. Noi, che riponiamo fiducia cieca nella Bibbia ma fiducia con riserva nei traduttori, richiamiamo Nm 15:16: “Ci dev’essere un’unica legge e un’unica decisione giudiziaria per voi e per il residente forestiero che risiede come forestiero con voi” (TNM), che diventa “una stessa legge e uno stesso diritto” per NR. Come si nota, si creano degli strani doppioni: “legge” e “decisione giudiziaria” da una parte, “legge” e “diritto” dall’altra. Le cose qui si complicano e i nodi vengono al pettine. La verità è che la parola ebraica תֹּורָה (toràh) deriva dal verbo ירה (yaràh), “insegnare / istruire / educare”. Il significato vero di toràh (תֹּורָה) lo troviamo in Pr 4:2:

 

“Non abbandonate il mio insegnamento [תֹּורָה (toràh)].”

 

Ecco che allora non si deve ricorrere a strane espressioni o doppioni per tradurre, ad esempio, Nm 15:16:

 

NR

“Ci sarà una stessa legge e uno stesso diritto”

TNM

“Ci dev’essere un’unica legge e un’unica decisione giudiziaria”

CEI

“Ci sarà una stessa legge e uno stesso rito”

Bibbia

Insegnamento uno e legge una [ci] sarà” (testo letterale)
תֹּורָה אַחַת וּמִשְׁפָּט אֶחָד יִהְיֶה (toràh akhàt umishpàt ekhàd yhyèh)

  La toràh racchiude l’insegnamento di Dio.

  Purtroppo siamo quasi obbligati ad usare la parola “Legge”: tutti la usano, e dobbiamo pur farci capire. È un po’ come con la parola “Gesù”. È del tutto sbagliata, ma spesso va usata per non confondere gli ascoltatori ignari.

   Comunque, nella storia di Israele che qui stiamo trattando, abbiamo visto come Dio diede a Israele le sue istruzioni: “Il Signore disse a Mosè: ‘Sali da me sul monte e férmati qui; io ti darò delle tavole di pietra, la legge [ תֹּורָה (toràh), “insegnamento”] e i comandamenti che ho scritto, perché siano insegnati ai figli d’Israele’”. – Es 24:12.

   La meravigliosa Toràh che Dio donò a Israele è insegnamento, annuncio, promessa, lieto annuncio. Ecco allora che si comprendono pienamente le parole toccanti del salmista:

 

“Quanto amo la tua toràh!

La medito tutto il giorno!

Quanto sono gustose le tue parole:

le sento più dolci del miele.”

Sl 119:97,103, PdS.

   Si comprende anche come il popolo giudeo – tornato a Gerusalemme dopo il lungo esilio babilonese -, riscoprendo la Toràh che avevano dimenticato e ascoltandone la lettura, “si mise a piangere” per la commozione. – Nee 8:9, PdS.

   La Toràh è prima di tutto lieto annuncio, buona notizia, vangelo, per usare il termine delle Scritture Greche. Annuncia l’amore di Dio e la libertà. Yeshùa fu fedelissimo alla Toràh (Mt 5:17). Giacomo la chiama “legge perfetta”, “legge della libertà”. – Gc 1:25.

   Ogni popolo antico aveva le sue leggi, espressioni di diritti e di doveri, fondamento di ogni società e di ogni buon governo. Israele però ebbe qualcosa di speciale. E doveva averlo, in vista del messia. Conveniva che il popolo formato dal volere di Dio e da cui Dio avrebbe tratto il messia fosse un popolo (il popolo) di santità particolare, unito a Dio con vincoli speciali e regolato in tutto dalla volontà divina. La Toràh o Insegnamento doveva preparare Israele alla venuta del messia con una formazione che rendesse quel popolo capace della verità e della grazia. Infatti, nella Toràh tutto era riferito a questo: la dottrina e le prescrizioni morali dovevano preservare Israele dagli errori spirituali e dalla corruzione dei costumi. Le norme rituali facevano in modo che a Dio si rendesse il culto dovuto. Le leggi civili ottenevano che fossero rispettati i diritti e adempiuti i doveri di ciascuno.

   Tutti gli ordinamenti dati da Dio possono essere divisi in tre gruppi:

  1. Normativa morale che precisa i doveri verso Dio, verso se stessi e verso gli altri;
  2. Normativa cerimoniale che regola il culto dovuto a Dio;
  3. Legge civile che determina i diritti-doveri degli israeliti.

   La normativa morale è contenuta principalmente nel Decalogo, che abbiamo già considerato nella categoria La Toràh della sezione La Bibbia. Le “Dieci Parole” designano tutti i doveri che la persona deve compiere verso Dio, verso se stesso e verso il suo prossimo. Questi dettami si confondono con la stessa legge naturale, perché sono impressi nelle coscienze umane. Ogni persona – in tutto il mondo e in tutte le epoche – prova istintivamente rispetto per la divinità, ha il senso del bene e del male, possiede la spinta a tenere con sé e con gli altri un comportamento conforme alla dignità umana. Il non rubare, il non assassinare, il non danneggiare altri e le loro proprietà fa parte oggi di ogni legge delle nazioni civili. A significare l’importanza fondamentale di queste norme, Dio stesso le scolpì su tavole di pietra e dispose che fossero conservate dentro l’Arca dell’Alleanza (Es 24:12; Dt 10:1-5). Ciò che rende speciale e sublime le Dieci Parole sono i primi quattro comandi:

1

Io sono יהוה tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa degli schiavi.

2

Non avrai altri dèi contro la mia faccia.Non farai idolo e immagine alcuna di ciò che è in alto nei cieli e di ciò che è nella terra di sotto e di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai a loro e non li servirai, perché io, יהוה tuo Dio, sono un Dio geloso che punisce la colpa dei padri sui figli, [fino ai] terzi e quarti [generati] di quelli che mi odiano; e che pratica la lealtà [fino ai] millesimi [generati] verso quelli che mi amano e che custodiscono i miei comandi.

3

Non pronuncerai il nome di יהוה tuo Dio per niente, poiché יהוה non giustificherà chi pronuncerà il suo nome per niente.

4

[Devi] ricordare il giorno di sabato per santificarlo; sei giorni lavorerai e farai ogni tua opera, e il settimo giorno [è] sabato per יהוה tuo Dio. Non farai alcun lavoro, tu e tuo figlio e tua figlia e il tuo schiavo e la tua schiava e il tuo bestiame e il tuo forestiero che [è] dentro le tue porte. Poiché [in] sei giorni יהוה fece i cieli e la terra, il mare e tutto ciò che [è] in essi, e riposava nel settimo giorno. Perciò יהוה benedisse il giorno di sabato e lo santificò.

(Es 20:1-11, traduzione dal testo ebraico)

 

   Questi primi quattro comandi rendono il Decalogo molto speciale. Le altre norme, infatti, sono del tutto accettate e condivise da ogni nazione civile. In verità, sono scritte nella coscienza di ogni essere umano:

5 Glorifica tuo padre e tua madre affinché i tuoi giorni siano prolungati sul suolo che יהוה יהוה tuo Dio ti dà.
6 Non assassinerai.
7 Non farai adulterio.
8 Non ruberai.
9 Non risponderai al tuo prossimo [da] falso testimone.
10 Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo e il suo schiavo e la sua schiava e il suo bue e il suo asino e tutto ciò che [è] del tuo prossimo”.

(Es 20:12-17, traduzione dal testo ebraico)

   Coloro che non credono e pure accettano questi ultimi sei punti non fanno altro che comportarsi bene, come la coscienza già detta di per sé.

   Coloro che, religiosamente, rispettano anche altri dettami (come quelli di accettare un solo Dio e di non praticare l’idolatria con il culto d’immagini e statue) possono al massimo avere un’etica superiore. Ma le Dieci Parole non sono semplicemente etica.

   Occorre essere ubbidienti a Dio. Per essere davvero consacrati a lui occorre rispettare tutte le norme che lui stesso ha scritto su pietra. Questo costa ubbidienza. La religione indulge e preferisce fare da sé. Così si arriva perfino a sostenere, da parte di qualche setta, – bestemmiando – che il Decalogo è stato abolito. Non fu così per Yeshùa: “Non pensate che io sia venuto a distruggere la Legge o i Profeti. Non sono venuto a distruggere, ma ad adempiere; poiché veramente vi dico che il cielo e la terra passeranno piuttosto che una minima lettera o una particella di lettera passi in alcun modo dalla Legge senza che tutte le cose siano avvenute. Chiunque, perciò, viola uno di questi minimi comandamenti e insegna così al genere umano, sarà chiamato ‘minimo’ riguardo al regno dei cieli. In quanto a chiunque li osserva e li insegna, questi sarà chiamato ‘grande’ riguardo al regno dei cieli”. – Mt 6:17-19, TNM.

   Il Decalogo è un albero con le radici ben piantate nel terreno di Dio, che si sviluppa e cresce, fiorisce e produce frutti preziosi. L’osservanza del Decalogo è la base di tutta la vita della persona che vuole avere il favore di Dio.

   La legge cerimoniale fu data a Israele dopo la celebrazione dell’alleanza. Essa è fatta di prescrizioni.

   Prima di tutto Dio insegnò come doveva essere il Santuario (Es 25:1-9): “Mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo a loro” (v. 8). Il Santuario era portatile, costituito da una tenda; era composto dal Tabernacolo e da un atrio. Si poteva montare e smontare: era conforme alle esigenze della vita nomade degli israeliti. Nell’atrio (Es 27:9-19) – un rettangolo che si estendeva davanti e intorno al Tabernacolo (26:1-37)  – c’era l’altare degli olocausti (Es 27:1-9), c’era una conca di rame (Es 30:17-21) per le abluzioni e purificazioni. Il Tabernacolo aveva il Santo dei Santi (26:33) con l’Arca (25:10-22;26:33), il Santo (26:33), l’altare dei profumi (30:1-10), la Tavola dei pani (25:23-30) d’offerta e il Candelabro a sette bracci. – 25:31-40.

   Il Tabernacolo era il centro e il luogo del culto pubblico (Dt 12:5-14). Qui si facevano i sacrifici, qui Dio si manifestava e dava i suoi ordini. Qui dava anche i suoi castighi. – Lv 10:2.

   I ministri del culto compivano tutte le funzioni cultuali. Essi erano divisi in tre classi: leviti, sacerdoti e sommo sacerdote.

   I leviti erano discendenti di Levi, terzo figlio di Giacobbe e di Lea (Gn 29:32-34). Sebbene il termine si applichi all’intera tribù di Levi, di solito non include la famiglia sacerdotale di Aaronne (Gs 14:3,4;21:1-3). La Bibbia, infatti, parla di sacerdoti e leviti (1Re 8:4; 1Cron 23:2; Esd 1:5; Gv 1:19). I sacerdoti appartenevamo alla tribù di Levi, ma erano della famiglia di Aaronne. I leviti erano ministri o assistenti dei sacerdoti (Nm 3:3,6-10). Il sommo sacerdote era ovviamente preso dai sacerdoti (leviti della famiglia aaronnica) ed era il principale rappresentante del popolo dinanzi a Dio, preposto a tutti gli altri sacerdoti; la Bibbia lo chiama anche “unto” (Lv 4:3; ebraico מָּשִׁיחַ, mashìakh, “messia”; greco  χριστὸς, christòs).

   I leviti potevano entrare solo nell’atrio del Santuario; i sacerdoti potevano entrare nel Santo e solamente il sommo sacerdote poteva entrare una sola volta all’anno nel Santissimo o Santo dei Santi dove c’era l’Arca.

   Ecco di seguito un prospetto che illustra la suddivisone e gli incarichi:

 

Santo

dei Santi

Sommo

Sacerdote

Il sommo sacerdote entrava nel Santissimo solo nell’annuale giorno di espiazione; nessuno, in nessun altro tempo, poteva oltrepassare la cortina che separava questo locale dal Santo. – Lv 16:2;16:11-15; Eb 9:7.

Santo

Sacerdoti

Ogni mattina e ogni sera un sacerdote doveva entrare nel Santo e bruciare incenso sull’altare dell’incenso (Es 30:7, 8). La mattina, mentre l’incenso bruciava, le sette lampade poste sul candelabro d’oro dovevano essere rifornite d’olio. La sera venivano accese per illuminare il Santo. Ogni sabato un sacerdote doveva mettere 12 pani freschi sulla tavola dei pani di presentazione. — Lv 24:4-8; Eb 9:6.

Cortile

Leviti

Ogni mattina e ogni sera un giovane montone veniva bruciato in sacrificio sull’altare insieme a un’offerta di cereali e a una libazione (Es 29:38-41). In giorni particolari si offrivano altri sacrifici. Un israelita poteva fare un sacrificio perché aveva commesso un peccato (Lv 5:5,6) oppure poteva offrire volontariamente un sacrificio di comunione. Anche un residente forestiero poteva essere un adoratore di Dio fare offerte volontarie. — Lv 2:1;22:18-20; Mal 1:6-8.

   I sacrifici erano un omaggio reso a Dio e la testimonianza con cui si riconosceva la sua maestà infinita. I sacrifici consistevano nella consumazione di carni animali che la persona offerente sostituiva a se stesso. Solo Yeshùa fece eccezione e offrì se stesso, il suo corpo. Il suo sacrificio fu di valore inestimabile perché era del tutto innocente, senza peccato.

“Venuto Cristo, sommo sacerdote dei beni futuri, egli, attraverso un tabernacolo più grande e più perfetto, non fatto da mano d’uomo, cioè, non di questa creazione, è entrato una volta per sempre nel luogo santissimo, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue. Così ci ha acquistato una redenzione eterna. Infatti, se il sangue di capri, di tori e la cenere di una giovenca sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano, in modo da procurar la purezza della carne, quanto più il sangue di Cristo, che mediante lo Spirito eterno offrì sé stesso puro di ogni colpa a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivente!”. – Eb 9:11-14.

   I sacrifici erano di due tipi: cruenti (con spargimento di sangue) e non cruenti. Per quelli cruenti si usavano animali: agnello, capro, bue, tortora, colomba (Gn 15:9). Quelli non cruenti erano costituiti da spighe, farina, focacce, vino e profumo d’incenso. – Lv 2:1-16.

   I giorni santificati erano quelli in cui – oltre al culto quotidiano – si celebravano speciali funzioni con cerimonie solenni. Il ciclo completo delle Festività comprendeva tre classi:

   – Sabato, Novilunio;

   – Pasqua e Pani Azzimi, Pentecoste, Festa delle Capanne e Ultimo Gran Giorno;

   – Giorno delle Trombe, Giorno dell’Espiazione.

   Lo shabàt o sabato è il settimo giorno della settimana. In questo giorno cessava completamente ogni lavoro (Es 20:8;31:13), pena la morte. Era proibito anche cucinare. Dovevano riposare anche i servi e gli animali. Era ed è il giorno del Signore.

   Il novilunio segnava l’inizio del mese lunare ed era celebrato. – Nm 10:10.

   Tre volte ogni anno tutti gli israeliti dovevano andare in pellegrinaggio nel luogo in cui era il Santuario: 1) per la Pasqua e la Festa dei Pani Azzimi; 2) per la Pentecoste; 3) per la Festa delle Capanne. – Es 23:14-17.

   La Pasqua iniziava al termine della sera del 14 nissàn (marzo-aprile) era seguita dai Giorni dei Pani Non Fermentati (Es 12:17-20) fino alla sera del 21 nissàn. Il rito principale era il banchetto serale con l’agnello per ricordare la liberazione dalla schiavitù egiziana (Es 12:8-11). Negli altri giorni si offrivano sacrifici a Dio.

   Sette settimane dopo – con un conteggio che è stabilito da Lv 23:15,16 – si celebrava la Pentecoste (Es 34:22), che durava solo un giorno e in cui si offrivano olocausti a Dio e si facevano lieti banchetti.

   In autunno si celebrava la festa delle Trombe: “Il settimo mese, il primo giorno del mese avrete un riposo solenne, che sarà ricordato con il suono della tromba, una santa convocazione”. – Lv 23:24.

   Seguiva, il giorno 10 dello stesso mese, il grande rito dell’Espiazione (Lv 16:2-34). Era un giorno di riposo e di digiuno: “È per voi un sabato di riposo solenne e vi umilierete; è una legge perenne” (Lv 16:31); “Sarà per voi un sabato, giorno di completo riposo, e vi umilierete; il nono giorno del mese, dalla sera alla sera seguente, celebrerete il vostro sabato” (Lv 23:32). Era il giorno della divina misericordia, simboleggiante l’espiazione operata da Yeshùa. In Eb si fa un raffronto tra la cerimonia dell’Espiazione e l’espiazione operata da Yeshùa. – Capp. 8-10,13.

   Cinque giorni dopo c’era la Festa delle Capanne, che durava otto giorni (l’ottavo – l’Ultimo Gran Giorno, Gv 7:37 – era considerata una festa a sé). Questa festa era particolarmente gioiosa. Gli israeliti andavano ad abitare in capanne o tende, fatte con rami d’albero e costruite nelle vie o nelle piazze, dovunque purché all’aperto. – Dt 16:13-17; Lv 23:34,36.

   Le leggi civili. Le basi fondamentali su cui poggiava la legislazione civile erano due: il diritto di consuetudine e la legislazione teocratica.

   Il diritto di consuetudine era la legge vigente in forza degli usi e dei costumi delle tribù in cui il popolo si divideva.

   La legislazione teocratica veniva da Dio per mezzo di Mosè, ed era l’insieme di quelle norme che regolavano le azioni del popolo di Israele.

   A tutte queste leggi sottostava la famiglia che prendeva il suo stato d’essere dal matrimonio indissolubile. Il matrimonio aveva un carattere tale che non poteva essere contratto da un israelita con un idolatra (Dt 7:1-4; Es 34:14-16). Se una figlia ereditava delle proprietà, non poteva sposarsi al di fuori della sua tribù, affinché il possedimento ereditario non passasse da una tribù all’altra (Nm 36:8,9). L’incesto era assolutamente proibito, come i matrimoni tra consanguinei (Lv 18:6-20). Il marito era capo della famiglia, ma la moglie non era una schiava o una serva. La fedeltà coniugale era un obbligo per ambedue i coniugi, pena la lapidazione (Lv 20:10). La forma di governo iniziale fu il regime patriarcale: il potere era nelle mani dei capitribù e dei capifamiglia (in senso allargato): questi formavano gli anziani cui spettava il buon andamento della giustizia e le decisioni nelle controversie. A poco a poco questo regime patriarcale si trasformò e, passando per il periodo dei Giudici, finì in monarchia. Lo abbiamo già esaminato negli studi precedenti. La monarchia darà maggiore unità e coesione, stringendo il popolo attorno a Dio e rappresentato dal re. Tale monarchia giungerà al suo apogeo con il carattere tipico che il re Davide seppe dare al regno.

   Tutto ciò rese il popolo ebraico un popolo singolare, unico. L’unico guidato da Dio. È da questo popolo che doveva uscire il Messia, il vero re del cielo e della terra, il Signore dei signori, colui che è secondo solo a Dio.