Sia i trinitari che i binitari ritengono che Yeshùa sia Dio.
Secondo la dottrina della trinità, la Chiesa Cattolica “professa un solo Dio – Padre, Figlio e Spirito Santo” (Catechismo della Chiesa Cattolica – Compendio, n. 32). Si tratterebbe quindi di tre persone distinte e separate, ma ciascuna di esse essendo Dio, lo stesso unico Dio. Nel “mistero” trinitario si professa perciò un solo Dio in tre persone.
Secondo i binitari ci sono invece due Dii, uno dei quali – all’inizio primordiale – avrebbe assunto il ruolo di “figlio” sottomettendosi volontariamente all’altro che avrebbe assunto l’autorità paterna suprema. Queste due entità vengono definite dai binitari “famiglia di Dio”. Al di là di tutti i ragionamenti che possono essere addotti dai binitari, rimane un dato di fatto ultimo: i binitari sono per definizione politeisti. Eppure, Dio stesso afferma nella Bibbia: “Io sono il primo e sono l’ultimo, e fuori di me non c’è Dio”. – Is 44:6.
Comunque sia – trinitarismo o binitarismo -, la domanda da porsi è: Yeshùa è Dio?
L’indagine biblica che ci proponiamo vuole esaminare a fondo tre campi: passi della Sacra Scrittura citati a sostegno della divinità di Yeshùa; comprensione della definizione biblica della parola “Dio/dio”; affermazioni della Bibbia contrarie alla divinità di Yeshùa.
Per ciò che riguarda le espressioni bibliche addotte a sostegno della divinità di Yeshùa, un esame particolare dell’espressione “figlio di Dio” è già stato fatto nello studio precedente (in questa stessa sezione), intitolato Yeshùa, figlio di Dio. Il significato che la Bibbia dà a questa espressione esclude che essa possa essere usata per sostenere che Yeshùa sia Dio.
Intanto – prima di prendere in considerazione altri passi delle Scritture che vengono addotti a sostegno della divinità di Yeshùa – è utile ricordare come il solo vero monoteismo fu rivelato in un contesto del tutto politeistico.
Pur con tutte le differenze, le religioni del mondo antico costituiscono un blocco compatto e omogeneo. Tali religioni erano etniche e politeiste; i loro dèi erano organizzati in un sistema. Una caratteristica peculiare del politeismo antico è l’espressione dei bisogni e delle funzioni di una società. Aristotele ne fornisce una descrizione: “Quanto agli dèi, se tutti gli uomini affermano che sono sottoposti a dei re, è perché anch’essi ora o in passato furono governati da re, e come raffigurano gli dèi a propria immagine così attribuiscono ad essi una vita simile alla propria” (Politica I 1252b, 24-28). Il politeismo è espressione e prodotto delle cosiddette civiltà evolute o superiori, che conoscono la scrittura e la gerarchia sociale. Le divinità del politeismo appaiono infatti organizzate in un sistema unitario (pàntheon). Le divinità sono immortali, anche se non esistono sin dall’eternità. Da un disordine o caos iniziale del mondo si va verso una condizione di ordine cosmico realizzato dagli dèi che progressivamente vennero al mondo. Il politeismo fu quindi un modo di pensare al mondo in forma sistematica per mezzo degli dèi. Questi, quasi necessariamente, erano dotati di una personalità che li connotava. Nel politeismo ogni dio è destinatario di un culto e oggetto di una mitologia. Così, ogni dio ha la sua sfera di competenza: ogni dio è quindi limitato e pone un limite agli altri dèi, nel rispetto dell’ordine gerarchico. È del tutto evidente che gli uomini antichi cercarono di dare delle risposte al loro bisogno di capire il mistero della vita; la loro fu una proiezione in ambito celeste di tali risposte, così che i loro dèi erano simili all’uomo, antropomorfi.
In quelle civiltà antiche, tutte politeiste, fece irruzione qualcosa di nuovo e di impensato: il monoteismo. A differenza dei politeismi (che furono proiezioni umane nella sfera spirituale), il monoteismo non sorse da un’idea umana. Esso si affermò per rivelazione di Dio. La Bibbia contiene la storia di questa rivelazione. Il Dio uno e unico si rivelò fino a costituire un popolo che fosse depositario delle sue rivelazioni. Il popolo di Israele non fu un popolo scelto da Dio tra altri popoli: esso fu costituito da Dio stesso, formandolo dai discendenti di Abraamo. – Gn 17:4-8.
Fra tutte le nazioni, tutte politeiste, solo Israele possedeva la rivelazione del Dio unico. Quando Israele rigettò poi il “messia” (il cristo, l’unto, il consacrato; Yeshùa) inviato da Dio, Dio concesse ai pagani di far parte del suo popolo (Rm 9:6,24-26,30). Il popolo di Dio è composto oggi da coloro che accettano Yeshùa il consacrato, siano essi giudei naturali o ‘giudei di dentro’ (Rm 2:29). Questi sono i depositari del monoteismo, gli adoratori dell’unico vero Dio.
Esiste un solo monoteismo: quello ebraico rivelato dal Dio unico agli ebrei. Maometto venne circa seicento anni dopo Yeshùa: il suo monoteismo e la sua religione sono chiaramente un’imitazione dell’ebraismo e del cosiddetto cristianesimo. In quanto alle religioni cosiddette cristiane, esse sono accusate di essere un’apostasia prodottasi sin dal secondo-terzo secolo e che ha assorbito molto dal paganesimo. La stessa trinità è una dottrina già presente nel paganesimo e i trinitari sono accusati di spacciarla per monoteismo nascondendone le origini pagane nella teologia del “mistero”. Per quanto riguarda la Chiesa Cattolica vengono poi aggiunte altre accuse di politeismo: il culto di Maria e di una miriade di “santi”. Fare speculazioni teologiche sulle definizioni – sulle differenze tra adorazione e venerazione – allontana solo dalla realtà del culto che di fatto viene tributato a queste entità. Inchinarsi di fronte ad una statua, pregarla, accenderle ceri, tributarle un culto rimane ciò che è anche se si cambiano i nomi. Dire che è venerazione e non adorazione, dire che l’intenzione non si ferma all’immagine o alla statua, nulla toglie alla realtà delle cose. Se, infatti, si volesse trasformare quella venerazione in adorazione cosa cambierebbe? Rimarrebbero le statue, le preghiere a esse rivolte, l’inginocchiarsi a loro, il pregarle. Non è quello che già avviene? Il secondo Comandamento afferma: “Non devi farti immagine scolpita né forma simile ad alcuna cosa che è nei cieli di sopra o che è sulla terra di sotto o che è nelle acque sotto la terra. Non devi inchinarti davanti a loro” (Es 20:4,5a). Non si tratta dell’intenzione che ci si mette: si tratta del non farlo proprio: “Non devi”.
In questo contesto di “divinità” un esame attento delle Scritture rivelerà delle sorprese relative al senso della parola “Dio”.
Valore del vocabolo “Dio” nella Bibbia
Nella Bibbia la parola “Dio” non è riferita sempre e unicamente al Dio uno e unico di Israele.
Quando Yeshùa fu accusato di bestemmia perché si faceva – secondo i giudei – pari a Dio, egli cita loro il brano di Sl 82:6 in cui Dio dice: “Io stesso ho detto: ‘Voi siete dèi’” (TNM). Yeshùa usa questo passo del salmo per rammentare ai giudei che il nome “Dio” poteva essere attribuito anche a qualcuno che non fosse il Dio Altissimo. (Già questa applicazione fatta da Yeshùa, distinguendo l’attributo “Dio” dal Dio Altissimo, dimostra che egli non voleva certo identificarsi con il Dio di Israele). Anche i discepoli di Yeshùa, secondo Pietro, diventano partecipi della natura divina: “Voi diventaste partecipi della natura divina”. – 2Pt 1:4.
La Bibbia attribuisce il titolo di Dio anche al re di Israele: “Il tuo trono, o Dio, dura in eterno” (Sl 45:6). Qui si parla del re (v 1), un uomo. Non è necessario modificare il senso del testo ebraico come fa la Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture – forse temendo di applicare quel vocabolo “Dio” a un uomo – traducendo: “Dio è il tuo trono a tempo indefinito”. In ebraico il verbo essere al tempo presente non esiste, quindi i traduttori danno per sottinteso quell’“è” che inseriscono nel testo, ma così facendo ne stravolgono il significato: non è scritto infatti “Dio [soggetto] è [mancante nel testo] il tuo trono”, ma è detto: “O Dio [vocativo, rivolto al re], il tuo trono”. Così lo comprende lo scrittore di Ebrei che riporta il passo: “Il tuo trono, o Dio” (Eb 1:8). La Traduzione del Nuovo Mondo è costretta a forzare anche il testo greco di questa lezione, traducendo: “Dio è il tuo trono”, ma qui la forzatura è maggiore perché aggiunge un “è” che in greco non c’è. Mentre nell’ebraico lo può sottintendere (dato che non esiste nella lingua), nel greco – lingua assai precisa – deve inventarlo, dato che esiste: ἐστί (estì, “è”). Ma nel passo non appare affatto:
Ὁ θρόνος σου, ὁ θεός
o thrònos su o theòs
il trono di te, o Dio
Che si tratti di un vocativo, oltre all’assenza di “è” (ἐστί, estì) è confermato da Analysis Philologica Novi Testamenti Greci, pag. 493: ὁ θεός loco vocativi [o theòs in luogo del vocativo]”. Se tutta questa forzatura aveva lo scopo di evitare che Ebrei (1:8) applicasse “Dio” a Yeshùa, è una forzatura inutile in quanto si applica a Yeshùa come si applicava al re d’Israele, ma ciò non comporta affatto che il re e Yeshùa vengano identificati col il Dio Altissimo. Lo sostiene Yeshùa stesso rammentando ai giudei che la Bibbia ha chiamato “dèi” anche i giudici. In ogni caso, è proprio Eb che chiarisce il senso di quel “Dio” attribuito a Yeshùa quando, subito dopo, dice: “Perciò Dio, il tuo Dio, ti ha unto con olio di letizia”. – V. 9.
Mosè è pure chiamato “Dio” una volta, quando Dio gli dà istruzioni su come impiegare Aaronne con il faraone: “Tu gli servirai come Dio” (Es 4:16, TNM). Il filosofo ebreo Filone nota che Mosè è detto “Dio” non per la sua sostanza, ma per la sua gloria; per Filone evidentemente l’unico Dio era il Dio di Israele. – De sommiis 1,229.
L’uso del vocabolo “Dio” inteso in senso più largo era assai diffuso negli scritti cosiddetti giudeo-cristiani, come dimostrato dalle Pseudo-Clementime: “Vi è un angelo in ogni nazione che ne ha la cura in nome di Dio. Dio ha diviso tutte le nazioni e tutta la terra in 70 raggruppamenti e ha dato loro gli angeli come prìncipi. I prìncipi di ciascuna nazione sono detti dèi. Ma il dio dei principi è il Cristo”. – Riconoscimenti 2,42.
Che anche gli angeli siano chiamati “Dio” è mostrato da Sl 82:1: “Dio sta nell’assemblea divina; egli giudica in mezzo agli dèi”. La parola ebraica impiegata è la stessa identica usata per il Dio di Israele: אֱלֹהִים (elohìm).
Se un re, un profeta, gli angeli sono chiamati “dèi” dalla parola di Dio, perché mai non dovrebbe esserlo il re per eccellenza, il profeta per eccellenza, colui di cui la Bibbia dice che “Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome” (Flp 2:9)?
L’uso della parola “Dio” che la Bibbia fa non comporta affatto che Yeshùa sia il Dio di Israele, proprio come non lo fu il re d’Israele o Mosè o un angelo.
Yeshùa sempre subordinato a Dio
Nonostante Yeshùa sia elevato al rango di “Dio”, nella Bibbia si parla di lui sempre in termini di subordinazione a Dio.
Paolo, pur utilizzando la categoria della preesistenza di Yeshùa, pur chiamandolo “Signore”, pur presentandolo come “il riflesso della gloria [di Dio] e l’esatta rappresentazione del suo stesso essere [di Dio]” (Eb 1:3, TNM), afferma chiaramente che Yeshùa sta nel mezzo tra Dio e l’uomo: “C’è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo (1Tm 2:5); egli intercede presso Dio (Rm 8:34; Eb 7:25). Nonostante il fatto che Yeshùa sia stato esaltato fino al punto che gli è dovuto l’omaggio di ogni creatura celeste e terrestre, tanto che davanti a lui “si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra” (Flp 2:10), Yeshùa rimane “il Signore, alla gloria di Dio Padre” (v. 11). Anzi, “quando ogni cosa gli sarà stata sottoposta, allora anche il Figlio stesso sarà sottoposto a colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15:28). Per Paolo la gerarchia è chiara: “Voglio che sappiate che il capo di ogni uomo è Cristo, che il capo della donna è l’uomo, e che il capo di Cristo è Dio”. – 1Cor 11:3.
In ambiente cattolico si ama sottolineare il fatto che Yeshùa, da uomo, parlava come sottomesso a Dio. Questa tesi non porta molto lontano. Infatti, anche dopo la sua resurrezione egli è presentato come distinto e separato da Dio, come un altro membro della corte celeste, pari agli angeli, sia pure in una situazione a essi superiore. Egli si trova alla destra di Dio (At 7:56) e gli uomini lo vedranno tornare dal cielo come una persona distinta da Dio. E, come dichiarato da Paolo, sempre sottoposto a Dio.
Se noi identifichiamo Yeshùa con Dio (“vero Dio da Dio vero”, nella definizione cattolica), gli si dà ancora la medesima posizione che egli godeva presso i primi credenti? Data questa sua distinzione dal Padre, il ritenere Yeshùa come vero Dio non ci conduce necessariamente ad ammettere una specie di diteismo?
Yeshùa, non solo è separato, ma è anche subordinato a Dio: egli confessa o sconfessa gli uomini dinanzi a Dio (Mt 10:22, sgg.); intercede presso Dio a nostro favore (Rm 8: 34; Eb 7:25; 1Gv 2:1). È il sommo sacerdote fedele a Dio che ha appreso a ubbidire a colui che lo ha mandato e che offre preghiere e suppliche a Dio e può chiamare il Padre suo Dio. – Eb 5:7, sgg.;1:8;10:7.
Di più, Paolo sostiene la subordinazione del Figlio a Dio Padre anche dopo che egli avrà compiuto la sua funzione salvifica e avrà abbattuto tutti gli avversari, morte compresa: “Quando ogni cosa gli sarà stata sottoposta, allora anche il Figlio stesso sarà sottoposto a colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti”. – 1Cor 15, 28.
Si devono poi intendere i singoli passi secondo il contesto generale di tutto lo scritto sacro; ad esempio, le attestazioni più forti della presunta divinità di Yeshùa si rinvengono proprio nel Vangelo di Giovanni, dove più degli altri si mette in risalto la subordinazione del Figlio al Padre: “Il Padre è maggiore di me” (Gv 14:28); “Io non posso far nulla da me stesso […] perché cerco non la mia propria volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 5:30). Ed è proprio nel Vangelo di Giovanni che, all’accusa di farsi uguale a Dio, Yeshùa, anziché confermare tale fatto, lo spiega in modo subordinazionista: se possono chiamarsi “Dio” coloro ai quali la parola di Dio è rivolta, tanto più può essere chiamato “Dio” colui che dona tale parola. – Gv 10: 34-36.
Ancora una volta si deve giungere alla conclusione ispirata dell’apostolo Paolo: “Il capo di Cristo è Dio”. – 1Cor 11:3.
Ambiente giudaico
Che Yeshùa non si sia mai considerato Dio e che i suoi discepoli non lo abbiamo mai considerato Dio appare evidente anche dal fatto che gli ebrei, che erano rigidamente monoteisti, mai accusarono i “cristiani” di introdurre una nuova divinità o di fare di Yeshùa un altro Dio. Mai accusarono i discepoli di Yeshùa di diteismo, mentre li accusarono di tanti altri misfatti ed errori, come di rendere messia colui che essi avevano fatto impalare. Nello stesso passo di Gv 10:33 si legge: “I Giudei gli risposero: ‘Non ti lapidiamo per una buona opera, ma per bestemmia; e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio.’” Si noti: non, ‘dici di essere Dio’, ma “ti fai Dio”, ovvero ‘ti equipari a Dio’. Per quei giudei era una bestemmia.
Per gli ebrei dei tempi apostolici era evidente che tutte le frasi e tutti gli epìteti attribuiti a Yeshùa rientravano in una delle categorie bibliche che già ad altre creature (come al sovrano, al profeta, al giudice) davano il titolo di Dio (= divino). Fu solo più tardi, con la conclusione del concilio di Nicea (quarto secolo della nostra èra) che il “cristianesimo” fu accusato da parte degli ebrei e dei musulmani di ammettere una triplice divinità anziché un Dio unico.
Di più ancora: anche se si dicesse che Yeshùa, oltre alla natura umana avrebbe anche quella divina, per cui gli si potrebbero attribuire tanto le prerogative divine che quelle umane (la uguaglianza divina e la inferiorità umana), andrebbe detto che Yeshùa non fa questa distinzione. La sua personalità è unica ed è appunto questa persona (e non la sua natura) che ignora la fine del mondo, ma sa ciò che vi è nel cuore umano, che da una parte è “alla pari” di Dio perché riferisce solo ciò che lui vuole, ma dall’altra è del tutto subordinata al Padre perché gli è sottoposta. Il suo “essere alla pari” poi deve durare solo sino al compimento della sua missione, dopo la quale egli sarà definitivamente sottoposto al Padre. – 1Cor 15, 28.
La parusìa (il ritorno di Yeshùa) non sarà quindi l’estremo atto di glorificazione del Figlio, ma il momento dell’abdicazione della sua dignità. Come si potrebbe chiarire ciò nel caso che Yeshùa fosse uguale a Dio?
Si potrebbe sintetizzare nel modo seguente: anziché dire che Yeshùa è Dio, si può dire che in lui abita in modo del tutto particolare la divinità. In lui è Dio che parla, è Dio che compie miracoli, è Dio che salva. Dio è in lui in modo del tutto speciale. Anche quando parlava un profeta, in quell’attimo era Dio che parlava. Attraverso il profeta si udiva la parola di Dio, ma quel fenomeno durava per breve tempo, poi il profeta tornava un uomo normale come tutti gli altri. In Yeshùa, invece, almeno dopo l’inizio della sua missione pubblica, Dio era vivente di continuo: la sua parola era sempre parola di Dio, la sua azione era sempre azione di Dio. Yeshùa era profeta non solo per un breve momento, ma di continuo. Dio sempre in lui si manifestava attraverso la sua parola e i suoi gesti; in lui Dio compiva prodigi, non solo in un dato momento (come nel caso di Elia e di Eliseo), ma di continuo. “Io sapevo bene che tu mi esaudisci sempre;” – dice Yeshùa nel caso di Lazzaro – “ma ho detto questo a motivo della folla che mi circonda, affinché credano che tu mi hai mandato”. – Gv 11:42.
Lo spirito santo di Dio è sempre in lui dopo il battesimo e non solo temporaneamente, per cui la potenza di Dio è la sua potenza, e questa potenza divina lo trasformò in spirito con la resurrezione. – 2Cor 3:17.
Yeshùa, quindi, pur essendo in tutto simile a noi (1Tm 2:5, “uomo”), è l’unico mezzo con cui ci è possibile su questa terra conoscere Dio. Per noi Yeshùa è come Dio: vedere Yeshùa è vedere il Padre, non v’è altra via: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14:9, TNM); eppure, Dio afferma: “Nessun uomo può vedermi” (Es 33:20). Yeshùa “è l’immagine dell’invisibile Iddio” (Col 1:15, TNM); “egli è il riflesso della [sua, di Dio] gloria e l’esatta rappresentazione del suo stesso essere”. – Eb 1:3, TNM.
Yeshùa e il Padre, relativamente a noi, sono “uguali” tra loro, perché la volontà dell’uno è la volontà dell’altro, l’amore dell’uno è l’amore dell’altro, le parole dell’uno sono le parole dell’altro. La salvezza divina ci proviene da Dio tramite Yeshùa: “Io non ho parlato di mio; ma il Padre, che mi ha mandato, mi ha comandato lui quello che devo dire e di cui devo parlare”. – Gv 12:49.
Sarebbe però uno sbaglio poggiarsi su questi passi per asserire l’identità di natura tra il Padre ed il Figlio, poiché le identiche parole che servono a denotare l’unione tra Yeshùa e il Padre, sono pure quelle che servono a denotare l’unione tra Yeshùa e i suoi discepoli, e tra i discepoli stessi, benché ognuno conservi la propria personalità naturale: “Che siano tutti uno; e come tu, o Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi. […] siano uno come noi siamo uno”. – Gv 17:21,22.
Non ‘tu sei me’, ma “tu sei in me”; non ‘io sono te’, ma “io sono in te”. Si tratta di abitazione, di unione, di vivere l’uno dell’altro (come tra Yeshùa e il suo discepolo), non d’identificazione di natura o di essenza; infatti: “anch’essi siano in noi”, nello stesso modo. Yeshùa è funzionalmente come il Padre, in lui è l’amore del Padre che si dispiega, è la salvezza del Padre che ci perviene, anche se naturalmente sono distinti e l’uno è subordinato all’altro.
Verrà poi il momento in cui, terminata la precedente missione (funzione) di Yeshùa, questi si sottometterà definitivamente al Padre: “Allora anche il Figlio stesso sarà sottoposto a colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti”. – 1Cor 15:28.