Il racconto di Matteo include tre elementi: il concepimento verginale di Yeshùa, l’adozione di Giuseppe e l’imposizione del nome. Mentre il primo elemento domina in Lc, qui in Mt sono meglio sviluppati gli altri due, specialmente il nome presentato in due forme (Emanuele e Yeshùa).
Mt non presenta in prima linea la persona di Miryàm (dominante in Lc), ma quella di Giuseppe che ha la missione particolare di introdurre Yeshùa nella discendenza davidica come padre legale.
Giuseppe è chiamato “il marito” di Miryàm (Mt 1:19), cioè – secondo il valore del termine greco anèr (ἀνήρ) – vero sposo o marito di colei che viene chiamata vera donna (γυναῖκά, gϋnaikà – Mt 1:20) ossia sua vera sposa che “prese con sé” (v. 24). Nonostante questo, Miryàm è anche detta sua fidanzata o “promessa sposa” (Mt 1:18) per il fatto che – pur essendo legata a lui con il fidanzamento – Giuseppe non l’aveva ancora condotta a casa sua e quindi non aveva ancora iniziato a coabitare con lei. Ciò è espresso dalle frasi: “Prima che fossero venuti a stare insieme” e “prese con sé sua moglie” (Mt 1:18,24). Questo sottolinea anche il fatto che i due non avevano ancora rapporti intimi tra loro.
Giuseppe lavorava il legno, come appare in Mt 13:55: “Non è questi il figlio del falegname?” Non si deve pensare ad un falegname nel senso di un moderno ebanista; piuttosto, era un carpentiere (le case, allora, erano costruite utilizzando il legno). In Mr 6:3 abbiamo invece: “Non è questi il falegname, il figlio di Maria”? L’espressione potrebbe avere il medesimo valore. Nella Bibbia, infatti, “figlio di” può indicare anche la corporazione lavorativa; “figlio del falegname” potrebbe quindi significare semplicemente “falegname”. Marco, parlando ai non ebrei, evita questa espressione a loro non comprensibile e dice direttamente “falegname” applicato a Yeshùa. Ciò starebbe anche a indicare che probabilmente Giuseppe era già morto e quindi Yeshùa era noto come “figlio di Miryàm”. Ovviamente, anche Yeshùa dovette apprendere, quale primogenito, il mestiere del padre, secondo l’uso ebraico. Forse è proprio a questo uso che Yeshùa si richiama quando dice: “Il Figlio non può da sé stesso far cosa alcuna, se non la vede fare dal Padre; perché le cose che il Padre fa, anche il Figlio le fa ugualmente”. – Gv 5:19.
Giuseppe è detto “giusto” (Mt 1:19) ossia un osservante della Legge divina. Questa espressione (“giusto”; ebraico צדיק, tsadìk) è tuttora usata dagli ebrei praticanti. Quale “giusto” (osservante della Legge), Giuseppe sapeva percepire negli eventi il disegno di Dio preannunciato dai profeti e collaborava, anzi, al loro adempimento (era così anche per Yeshùa; cfr.: “Sia così ora, poiché conviene che noi adempiamo in questo modo ogni giustizia” – Mt 3:15). Giuseppe, ubbidendo, conserva il segreto – ricollegato di solito alle rivelazioni divine – dettogli dall’angelo. Secondo certe tradizioni rabbiniche si pensava che il messia (o unto o consacrato) sarebbe dovuto rimanere nascosto e ignorato da tutti fino al giorno in cui si sarebbe presentato al popolo di Israele in seguito ad una manifestazione divina. Di questo abbiamo traccia in Gv 7:26: “Quando il Cristo verrà, nessuno saprà di dove egli sia”.
Diverse sono le spiegazioni date dagli esegeti per chiarire come mai Giuseppe possa essere stato detto “giusto” per il fatto che intendeva lasciare Miryàm.
Secondo un’opinione risalente a Giustino (2° secolo), Giuseppe aveva deciso di ripudiare la sposa adultera ma senza creare scandalo; egli avrebbe quindi temperato i rigori della giustizia con la misericordia. Il Crisostomo ne prende anzi lo spunto per combattere l’assurda gelosia di certi mariti: “Ammirate dunque Giuseppe, quest’uomo ‘filosofo’, nei confronti di colei che lo aveva realmente ingannato, mentre voi spesso non avete che dei semplici sospetti” (In Matth. Hom. I, pagg. 57,44. Cfr. Giustino, Dialogo 78,8, pagg. 6,657; Ambrogio, PL 16,315 e 15,1554; Agostino, Sermone 51,9 PL 38,338). In questo caso Giuseppe si sarebbe mostrato giusto per il fatto che (secondo il pensiero di Filone, contemporaneo di Yeshùa) seppe scegliere la soluzione migliore. Con il ripudio Miryàm non avrebbe più potuto essere accusata di adulterio: la situazione sarebbe stata in certo qual modo legittimata dallo stesso fidanzamento che permetteva i rapporti intimi tra fidanzati, anche se non erano ben visti dai rabbini. È vero che la Bibbia afferma che “il giusto ha pietà e dona” (Sl 37:21), ma questo non è davvero il caso di Giuseppe. La spiegazione proposta è del tutto contraria alla Scrittura. La Bibbia afferma chiaramente che Giuseppe ebbe la spiegazione dall’angelo e credette.
Girolamo pensa invece che il modo di agire di Giuseppe non sia stato suggerito dalla bontà ma dalla fiducia che egli aveva in Miryàm. Giuseppe, nonostante le apparenze contrarie, non sarebbe stato convinto della colpa e, sospettando un mistero, anziché denunciarla preferì dimetterla in segreto. E qui si fanno ipotesi sulle ipotesi. Si era forse trattato di violenza sessuale durante il suo viaggio da Elisabetta? O di qualche altro mistero? “Giuseppe, conoscendo la castità di Maria e stupito di quanto era accaduto, nasconde con il suo silenzio ciò di cui ignorava il mistero” (Girolamo, Comment in Matt. 1,1 PL 26,24). C’è da domandarsi come mai si debba arrivare a queste ipotesi umane. La Bibbia è così chiara da sola.
Oltretutto, le due precedenti ipotesi non spiegano affatto come Giuseppe possa essere chiamato “giusto” in senso biblico con il suo comportamento. Se per Giuseppe Miryàm fosse stata un’adultera, si comprende che volesse ripudiarla, ma non si capisce perché in segreto. D’altra parte, se Giuseppe la crede innocente, se ne può approvare la bontà ma non la ‘giustizia’.
Il testo biblico non presenta alcun accenno all’ipotesi che Giuseppe non ritenesse Miryàm innocente. La Legge poi non obbligava il marito a ripudiare la moglie adultera. La Legge condannava alla lapidazione una donna trovata nell’atto dell’adulterio (una fidanzata era sotto questo aspetto equiparata alla moglie), ma non prescriveva nulla per una donna trovata già incinta. Dt 22:23,24 riguarda il caso di una fidanzata colta in flagrante adulterio con un uomo, non il caso che venga trovata incinta più tardi: “Quando una fanciulla vergine è fidanzata e un uomo, trovandola in città, si corica con lei, condurrete tutti e due alla porta di quella città, e li lapiderete a morte”; solo la legislazione talmudica posteriore impone l’esecuzione della donna trovata incinta non del marito (Maimonide). In questi casi i beduini del deserto, fino a tempi recenti, uccidevano la donna; i rabbini insegnavano che bisognava strangolarla; l’atto meno peggiore, ma non obbligatorio, era quello di ripudiarla col divorzio. Quindi, la qualifica di “giusto” non si riesce a spiegare bene queste ipotesi.
Alcuni cosiddetti “padri della Chiesa” ritengono che Giuseppe conoscesse il mistero avveratosi in Miryàm (Eusebio, PG 22,884; Pseudo Basilio, PG 31,1464; Pseudo Origène, GCS XII I 241; Teofilatto, PG 123,156). Le parole di Mt 1:20,21 si possono tradurre anche nel modo seguente: “Giuseppe, figlio di Davide, non aver timore di condurre a casa tua moglie Maria, poiché ciò che è stato generato in lei è dallo spirito santo. Essa partorirà un figlio […]” (TNM). Generalmente questa costruzione esige il correlativo men gar … de (μὲν γὰρ … δὲ), come ad esempio in At 13:36,37: “Poiché [μὲν γὰρ (men gar)] Davide, dopo aver servito nella propria generazione l’espressa volontà di Dio, si addormentò [nella morte] e fu posto con i suoi antenati e vide la corruzione. Invece [δὲ (de)] colui che Dio ha destato […]” (TNM). Nel passo di Mt non abbiamo questa correlazione così come dovrebbe essere: “Poiché [γὰρ (gar); manca il μὲν (men) antecedente] ciò che è stato generato […] [qui TNM non traduce il δὲ (de) che è pur presente nel testo greco] Essa partorirà […]”. Pur non essendo presente la correlazione completa, va tuttavia detto che talora (specialmente presso Mt) il μὲν (men) precedente è sottinteso. Si veda Lc 12:30: “Perché [γὰρ (gar); senza il μὲν (men) antecedente] è la gente del mondo che ricerca tutte queste cose; ma [δὲ (de)] il Padre vostro sa che ne avete bisogno”. Così anche in At 4:16,17;28:22,23; 1Cor 11:7;14:17; 2Cor 9:1-3; Mt 18:7;22:14;24:6). In questi casi (e in quello di Mt 1:20,21) il men [μὲν] forma una specie di parentesi per dare più rilievo alla parte della frase introdotta con il de (δὲ).
Chiarito questo aspetto, tutto diviene chiaro. Giuseppe seppe da Miryàm che il figlio era dovuto a potenza divina; infatti, Mt 1:18 dice che “prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo”. Questo suggerisce che Giuseppe ne fosse al corrente. Allora egli, pur amando Miryàm e pur desiderando di averla, aveva timore a sposarla perché era appartenuta a Dio e non osava adottare quel bambino di origine divina quasi fosse suo. Egli pensa così di lasciarla libera, rimettendo tutto a Dio. Il verbo “non temere” (o “non aver paura”) è nella forma greca del medio (μὴ φοβηθῇς, me fobethès – v. 20), indicando così che quella di Giuseppe è una paura che riguarda se stesso e non Miryàm. Fu per questo che egli formulò il piano (“mentre aveva queste cose nell’animo”, v. 20; ἐνθυμηθέντος, enthümethèntos) di dimetterla senza però deigmatìsai (δειγματίσαι, “esporla” – v.19 -, nel senso di darla in pasto al pubblico). L’angelo del Signore lo tranquillizza e gli indica la missione che doveva compiere riguardo al nascituro, tra cui: “Tu gli porrai nome Gesù” (v. 21). Giuseppe era quindi “giusto” in senso biblico: osservante della Legge, ubbidiente, pronto a collaborare per adempiere i progetti di Dio.
Si noti come ogni comunicazione divina a Giuseppe avvenga in sogno, come spesso ai patriarchi ebrei. Nel sogno Dio gli comunica che pur essendo la gestazione di Miryàm opera della potenza divina (“viene dallo [ἐκ, ek] Spirito Santo”, v. 20; l’ek, ἐκ, ha un senso causale storico), egli aveva ugualmente una missione da compiere: quella di dare un nome al nascituro adottandolo in tal modo e trasmettendogli così la discendenza davidica. Giuseppe ha quindi una funzione indispensabile da svolgere nell’economia della salvezza. Dio agisce direttamente dove l’uomo non arriva, ma utilizza l’uomo fin dove egli può arrivare.
Né legalmente né dinanzi all’opinione pubblica Yeshùa poteva essere considerato figlio di Davide, erede delle promesse e delle benedizioni, da parte materna. La successione secondo il diritto ebraico passava solo tramite il padre, e quindi tramite “Giuseppe, figlio di Davide” (v. 20), come l’angelo lo interpella sin dall’inizio. Giuseppe, “giusto”, accetta con fede e umiltà la missione conferitagli, contento di accogliere Miryàm in casa sua. Questo brano di Mt non intende esaltare Miryàm, ma Giuseppe.