Le guarigioni attuate da Yeshùa sono numerose. Qui ne esamineremo alcune, ripartire secondo le diverse malattie.

 

 

Lebbrosi

 

   La lebbra (lepra tuberosa) è malattia infettiva, endemica in alcuni paesi e prodotta dal myco bacterium lepre o bacillo di Hansen. Per la verità, la nostra legislazione fa divieto di usare la parola “lebbra”: questa dovrebbe essere sostituita dal termine medico meno orrendo di “morbo di Hansen”. Il morbo di Hansen è caratterizzato da lesioni cutanee e nervose che progrediscono fino a provocare mutilazioni e morte. La sua diffusione è collegata in modo particolare alle condizioni igieniche, per cui contro le migliaia di casi registrati in Europa se ne contano milioni in Asia, centinaia di migliaia in Africa, centinaia di migliaia in America e decine di migliaia in Oceania.

   In Israele, come in tutti i popoli orientali antichi, la malattia era molto diffusa: “Al tempo del profeta Eliseo, c’erano molti lebbrosi in Israele” (Lc 4:27). In passato la cura era impossibile. Le guarigioni spontanee ricordate nella Bibbia sono dovute al fatto che tra esse erano inclusi anche tutti i casi in cui apparivano macchie sul corpo (perfino sugli abiti e sulle pareti di una casa), anche se questi casi non riguardavano la vera lebbra (morbo di Hansen). Dato che tale malattia rendeva impuri, se ne parla in Lv 13 e 14, nella sezione riguardante purità e impurità. La diagnosi era fatta dal sacerdote, non dal medico: “Quando qualcuno avrà sulla pelle del suo corpo un tumore o una pustola o una macchia lucida e vi siano sintomi di piaghe di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aaronne o da uno dei suoi figli che sono sacerdoti. Il sacerdote esaminerà la piaga sulla pelle del corpo” (Lv 13:2,3). Chi veniva definito “lebbroso” rimaneva in stato di impurità e doveva stare lontano dai centri abitati: “Il lebbroso, affetto da questa piaga, porterà le vesti strappate e il capo scoperto; si coprirà la barba e griderà: ‘Impuro! Impuro!’. Sarà impuro tutto il tempo che avrà la piaga; è impuro; se ne starà solo; abiterà fuori del campo” (Lv 13:45,46). In aperta campagna egli doveva vivere di carità e contendere ai cani randagi quello che poteva trovare. Da questo fatto derivavano la disperazione dei lebbrosi e le loro incursioni nei villaggi.

   Chiunque fosse guarito doveva recarsi dal sacerdote per fargli constatare la guarigione. In caso affermativo, il sacerdote sgozzava un uccellino sopra un vaso d’acqua corrente, poi v’immergeva un altro uccellino vivo, con un pezzo di legno di cedro, un filo di porpora e un ciuffo di issopo; infine ne aspergeva per sette volte il guarito e lasciava andare l’uccellino vivo. Passati sette giorni, il lebbroso guarito doveva radersi totalmente e lavarsi. Il giorno successivo offriva nel Tempio due agnelli, una pecora, del fiore di farina e dell’olio. Mentre offriva l’olocausto, il sacerdote lo ungeva con sangue e olio sul lobo dell’orecchio destro. – Lv 14:1-32.

   Era predetto che all’effusione dei beni messianici avrebbero avuto parte anche i lebbrosi, che sarebbero stati liberati dalla loro malattia: “Là sarà una strada maestra, una via che sarà chiamata la Via Santa; (nessun impuro vi passerà)” (Is 35:8). Gli impuri (lebbrosi compresi) dovevano essere dunque purificati. Ciò avvenne al tempo di Yeshùa: “I lebbrosi sono purificati” (Mt 11:5). Yeshùa diede questo potere anche ai suoi apostoli: “Purificate i lebbrosi” (Mt 10:8). La guarigione dei lebbrosi da parte di Yeshùa e dei suoi apostoli aveva quindi un significato messianico.

   Il lebbroso (Mr 1:40-45; Mt 8:1-4; Lc 5:12-14). In Mr 1:40,41 si legge: “Venne a lui un lebbroso e, buttandosi in ginocchio, lo pregò dicendo: ‘Se vuoi, tu puoi purificarmi!’. Gesù, impietositosi, stese la mano, lo toccò e gli disse: ‘Lo voglio; sii purificato!’”. Gran parte dei codici ha la lezione “adiratosi” anziché “impietositosi”. E potrebbe anche essere la lezione originaria: è più facile comprendere la mutazione da “adiratosi” a “impietositosi” che non il contrario. La guarigione è ottenuta non solo con la parola, ma anche con il tocco della mano: “Lo toccò e gli disse” (v. 41). In 2Re 5:10 si ha una guarigione dalla lebbra con la sola parola: “Eliseo gli inviò [a Naaman] un messaggero a dirgli: ‘Va’, làvati sette volte nel Giordano; la tua carne tornerà sana, e tu sarai puro’”. Ovviamente è Dio che compie il miracolo; Eliseo dà solo istruzioni. Nel caso di Yeshùa, oltre alla parola, c’è il suo tocco: quasi ad indicare che il lui dimora la potenza divina.

   Al v. 43 Yeshùa caccia via severamente e in malo modo il lebbroso guarito. Le traduzioni, chissà perché, si sentono in dovere di addolcire il passo: “Gesù lo congedò subito, dopo averlo ammonito severamente”; “Gli diede severi ordini e subito lo mandò via” (TNM). Marco dice altro: ἐμβριμησάμενος (embrimesàmenos), “sbuffando”. Nel migliore dei casi, letteralmente, si può tradurre: “E sdegnandosi con lui rapidamente lo rimandò”. Lo “sbuffare” è un gesto che nelle Scritture Ebraiche è collegato a Dio (Ger 8:16). Il verbo greco usato da Marco è ἐμβριμάομαι (embrimàomai), da  ἐν (en) e brimàomai (“sbuffare con rabbia”), numero Strong 1690. È simile all’ἐνεφύσησεν (enefΰsesen) usato dai LXX in Gn 2:7: “Dio il Signore formò l’uomo dalla polvere della terra, gli sbuffò nelle narici” (traduzione dalla LXX greca); il verbo deriva da da  ἐν (en) e fusào (“sbuffare”), numero Strong 1720. Perché Yeshùa lo manda via in fretta? Egli vuole che si rechi subito dal sacerdote. In tal modo Yeshùa non passerà per un rivoluzionario. “Va’, mostrati al sacerdote, offri per la tua purificazione quel che Mosè ha prescritto; questo serva loro di testimonianza” (v. 44). Yeshùa gli aveva ordinato di “di non dire nulla a nessuno” (v. 44), ma il miracolato non sa contenere la gioia e parla: “Ma quello, appena partito, si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare apertamente in città”. – V. 45.

   Tutti questi particolari seccanti e urtanti (ira, sbuffare, disubbidienza del guarito) vengono tolti sia da Matteo che da Luca. Il loro intento è chiaramente quello di eliminare dal racconto quei particolari che potevano intaccare in qualche modo la personalità di Yeshùa.

Mt 8:2-4

Lc 5:12-14

“Ecco un lebbroso, avvicinatosi, gli si prostrò davanti, dicendo: ‘Signore, se vuoi, tu puoi purificarmi’. Gesù, tesa la mano, lo toccò dicendo: ‘Lo voglio, sii purificato’. E in quell’istante egli fu purificato dalla lebbra. Gesù gli disse: ‘Guarda di non dirlo a nessuno, ma va’, mostrati al sacerdote’”.

“Ecco un uomo tutto coperto di lebbra, il quale, veduto Gesù, si gettò con la faccia a terra e lo pregò dicendo: ‘Signore, se vuoi, tu puoi purificarmi’. Ed egli stese la mano e lo toccò, dicendo: ‘Lo voglio, sii purificato’. In quell’istante la lebbra sparì da lui. Poi Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno. ‘Ma va’’, gli disse, ‘móstrati al sacerdote’”.

   I dieci lebbrosi (Lc 17:11-19). Si tratta di un episodio proprio di Luca, da cui traspare la fama taumaturgica e dottrinale di Yeshùa. L’assembramento di dieci lebbrosi (messi al bando dalla società) è fuori dal comune. Usualmente non era permesso loro di riunirsi in gruppi superiori a tre o quattro persone; potevano però riunirsi in tre o quattro per meglio difendersi dagli animali selvaggi e per aiutarsi a vicenda. Gruppi più numerosi facevano paura perché per la loro condizione inumana avrebbero potuto esasperarsi e assaltare carovane o villaggi in cerca di cibo. Inoltre, i contadini che potevano aiutare uno o due lebbrosi (che comunque dovevano vivere lontani dalla loro casa) non avrebbero potuto aiutarne di più.

   Come questi dieci lebbrosi abbiano potuto riunirsi in così tanti e come abbiano fatto a conoscere la fama di Yeshùa, non ci è dato saperlo. Il gruppo si presenta all’ingresso di un villaggio non nominato alla fine del viaggio di Yeshùa verso Gerusalemme. La presenza di un samaritano (Lc 17:18) può farci pensare ad un paese di confine tra la Samaria e la Giudea: “Nel recarsi a Gerusalemme, Gesù passava sui confini della Samaria e della Galilea”. – Lc 17:11.

   Pur stando a dovuta distanza, i dieci si dispongono in modo che Yeshùa, entrando nel villaggio, doveva per forza notarli: “Come entrava in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, i quali si fermarono lontano da lui” (v. 12). Fermandosi “lontano da lui” questi lebbrosi mostrano di non aver intenzioni ostili, soprattutto essendo in gruppo numeroso. Si rivolgono a Yeshùa chiamandolo “maestro”: “Gesù, Maestro [ἐπιστάτα (epistàta)], abbi pietà di noi!” (v. 13). Epistàta: persona dotata di grande sapienza e autorità. TNM, forse cercando di essere “moderna”, cade in un ridicolo: “Gesù, Insegnante, abbi misericordia di noi!”, rendendo così inefficace tutto il significato di quel “maestro”. Forse TNM pensa a maestri tipo quelli di scuola, qualificandoli modernamente come insegnanti. Per gli ebrei “maestro” era molto ma molto di più. Maestri erano i rabbini. Se proprio vogliamo fare un paragone con i nostri giorni, possiamo richiamare un maestro d’arte oppure un direttore d’orchestra (i musicisti sono “professori” d’orchestra, ma il direttore è “maestro”; chi insegna musica ai principianti è solo un “insegnante”). Il termine “maestro” (ἐπιστάτης, epistàtes; di cui epistàta è vocativo) è un termine lucano; significa anche “padrone”.

   Questi dieci lebbrosi gli dicono soltanto: “Abbi pietà di noi!” (v. 13). Non osano chiedere la guarigione, ma solo pietà. Per loro doveva essere meglio morire che vivere da morti vedendo il loro corpo consumarsi inesorabilmente. Yeshùa, senza fare nulla, li manda dai sacerdoti di Gerusalemme: “Vedutili, egli disse loro: ‘Andate a mostrarvi ai sacerdoti’” (v. 14). Essi ubbidiscono umilmente e mentre vanno verso Gerusalemme, per via sono guariti: “Mentre andavano, furono purificati” (v. 14). Uno solo tra loro torna indietro a ringraziare Yeshùa: “Uno di loro vedendo che era purificato, tornò indietro, glorificando Dio ad alta voce; e si gettò ai piedi di Gesù con la faccia a terra, ringraziandolo; ed era un samaritano” (vv. 15,16). “Ed era un samaritano”: forse proprio per questo, non volendosi recare a Gerusalemme, torna indietro. Yeshùa ne esalta la fede e dice che è questa che lo ha guarito: “La tua fede ti ha salvato”. – V. 19.

   Sembra che Luca, nel narrare questo episodio, voglia esaltare la fede e l’obbligo della gratitudine.