Tre sono le resurrezioni presentate nei Vangeli: il figlio della vedova di Nain, la figlia di Iairo e Lazzaro.
Resurrezione del giovane di Nain (Lc 7:11-17).
Nain era un villaggio sconosciuto nelle Scritture Ebraiche. Per la sua piccolezza questo villaggio aveva una sola porta (v. 12). Si vuole identificarlo con l’attuale Nain o Nein, sulle pendici settentrionali del Piccolo Hermon, 4 o 5 km a sud del Tabor; il nome, etimologicamente, significa “grazioso”. In alcune Bibbie si potrebbe trovare la grafia “Naim” (con la emme finale): ciò dipende da un errore fatto dalla Vulgata che chiamò il villaggio in tal modo: “In civitatem quae vocatur Naim” (v. 11, Vg; “In una città che è chiamata Naim”). La lezione “Nain” è criticamente sicura.
In un piccolo paese i dolori di una famiglia sono i dolori di tutti, per cui non fa meraviglia vedere la partecipazione di una grande folla nel caso pietoso della morte dell’unigenito di una vedova: “Si portava alla sepoltura un morto, figlio unico di sua madre, che era vedova; e molta gente della città era con lei” (v. 12). La morte di un figlio unico procura uno strazio: “Faranno cordoglio come si fa cordoglio per un figlio unico, e lo piangeranno amaramente come si piange amaramente un primogenito” (Zc 12:10). Tanto più doveva essere straziante il dolore per la morte del figlio unico ghermito a una vedova, e quindi priva di ogni appoggio morale. Il morto veniva portato al sepolcro sopra una barella e con il volto scoperto; infatti, il velario o sudario per coprire il viso veniva posto sul defunto immediatamente prima della sepoltura. Probabilmente ciò avveniva la sera stessa del giorno in cui il giovane era morto: a quel tempo la sepoltura si faceva ben presto dopo la morte.
La descrizione di Luca è stupenda: folla numerosa con Yeshùa, folla con il morto; due folle che si incontrano. Il morto è descritto senza articolo determinativo: “Si portava alla sepoltura un morto” (v. 12), quasi a porre l’enfasi sui vocaboli che presentano un crescendo sempre più patetico: τεθνηκὼς μονογενὴς υἱὸς (tethnekòs monoghenès üiòs), “morto unigenito figlio”; “di sua madre, che era vedova”. – V. 12.
La commozione di Yeshùa non è suscitata dal morto, ma dalla madre desolata: “Vedutala, ebbe pietà di lei” (v. 13). “Fu mosso a pietà per lei” (TNM). “Ne ebbe compassione” (CEI). Il greco, parlando il linguaggio biblico, dice ἐσπλαγχνίσθη (esplanchnìsthe); verbo derivato da σπλάγχνον (splànchon), il cui plurale è σπλάγχνα (splànchna), “viscere”. Si pensava a quel tempo che le viscere fossero l’origine delle passioni più violente, come la rabbia e l’amore; ma per gli ebrei le viscere erano l’origine delle affezioni più tenere, soprattutto la gentilezza, la benevolenza, la compassione. Noi diremmo il “cuore”; ma per gli ebrei il cuore era la sede dei pensieri. Il testo ha quindi, letteralmente, “si commossero le viscere”.
Si tratta quindi di un miracolo compiuto da Yeshùa solo per compassione, senza che gli fosse richiesto nulla (come invece di solito accadeva). Luca ama chiamare Yeshùa con il nome che gli sarà dato dopo la sua resurrezione: “Il Signore [ὁ κύριος (o kΰrios)], vedutala, ebbe pietà di lei” (v. 13). Questo titolo appare qui per la prima volta in un racconto.
Yeshùa dice alla povera donna: “Non piangere” (v. 13). “Non piangere” non rende bene il senso del verbo greco μὴ κλαῖε (me klàie), imperativo presente, che significa: “Non continuare a piangere / Cessa di piangere”. Traduce molto bene TNM: “Smetti di piangere”.
Parlando invece al morto, Yeshùa dice: “Ragazzo, dico a te, àlzati!” (v. 14). Il verbo ἐγέρθητι (eghèrtheti), “alzati/svégliati”, è all’aoristo medio che indica azione puntuativa (subito, all’improvviso – non pian piano). Il morto è chiamato νεανίσκος (neanìskos): si tratta di un giovane di circa 18-20 anni; noi diremmo: giovanotto. Come conseguenza del comando di Yeshùa, “il morto si alzò e si mise seduto, e cominciò a parlare” (v. 15). Quindi Yeshùa “lo restituì a sua madre”. – V. 15.
Tutto avvenne con semplicità e rapidità stupende. L’effetto fu la paura seguita subito da una commossa esplosione gioiosa: “Furono presi da timore, e glorificavano Dio” (v. 16). I presenti riconoscono due cose: “’Un grande profeta è sorto tra di noi’; e: ‘Dio ha visitato il suo popolo’” (v. 16). Si noti l’aspetto relativo del fatto: Yeshùa è “un grande profeta”, ma è Dio che visita il suo popolo mediante Yeshùa. Il profeta non è Dio. Questo abbinamento Dio-profeta (Dio e suo rappresentante) può servire per illuminare molti altri passi biblici simili in cui Yeshùa viene presentato come “figlio di Dio” o come “Dio con noi” (significato di “Emanuele”). Il figlio di Dio non è Dio. “Dio è con noi” perché è con noi tramite il suo profeta Yeshùa.
Molti studiosi si sono dati un gran daffare per eliminare il miracolo. Ma fu più facile per Yeshùa fare il miracolo che per quegli studiosi eliminarlo.
Per lo studioso Paulus, il giovanotto non era ancora morto; colpito da una sincope, per ignoranza sarebbe stato ritenuto morto dalla madre e da quelli del villaggio. Secondo il Paulus, Yeshùa si sarebbe accorto subito, con un colpo d’occhio, del tragico errore e sarebbe intervenuto scongiurando il peggio. L’immaginazione popolare – sempre secondo il Paulus – avrebbe trasformato il tutto in resurrezione.
Ma, si sa, ci sono anche i cultori delle allegorie. Per questo gruppo di studiosi il racconto sarebbe appunto un’allegoria. Il giovanotto diventerebbe così il popolo ebraico morto a motivo della Legge; la madre vedova sarebbe Gerusalemme che piange il suo popolo; Yeshùa riporterebbe in vita Israele nella chiesa, conducendo i “cristiani” all’immortalità (Loisy I,657). Non vogliamo cadere nella tentazione di fare facile ironia, domandando cosa mai simboleggerebbe la barella. Ci limitiamo a rispondere da studiosi. Il simbolismo proposto non può essere accolto, perché sarebbe un simbolismo biblicamente molto strano. Nella Scrittura, Israele è paragonata ad una persona inferma e non a un cadavere: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, bensì i malati”. – Lc 5:31.
Per altri studiosi avremmo qui l’applicazione a Yeshùa di un miracolo di resurrezione che si trova nelle Scritture Ebraiche, cioè quello compiuto da Elia e da Eliseo. Ad Elia, dobbiamo riconoscerlo, allude indubbiamente il gesto “lo restituì a sua madre” (v. 15): “Elia prese il bambino dalla camera di sopra e lo portò al pian terreno della casa, e lo restituì a sua madre” (1Re 17:23). L’elogio “un grande profeta è sorto tra di noi” (v. 16) sembra voler dire che Yeshùa era superiore al grande profeta Elia. Si capisce così la superiorità del gesto di Yeshùa su quello dei profeti: il morto sta già per essere sepolto e Yeshùa lo resuscita con facilità tramite un semplice comando. Elia dovette stendersi tre volte sul cadavere del piccino: “Si distese quindi tre volte sul bambino e invocò il Signore, e disse: ‘Signore mio Dio, torni, ti prego, l’anima di questo bambino in lui!’” (1Re 17:21). Eliseo dovette fare molto di più: “Salì sul letto e si coricò sul bambino; pose la sua bocca sulla bocca di lui, i suoi occhi sugli occhi di lui, le sue mani sulle mani di lui; si distese sopra di lui, e il corpo del bambino si riscaldò” (2Re 4:34). Particolari commoventi simili ce ne sono: era vedova anche la donna incontrata da Elia e a cui risuscitò il bambino (non lo era quella incontrata da Eliseo). Il fatto poi che Nain non fosse lontana da Sunem (2Re 4:8) poteva richiamare alla memoria la sunamita aiutata da Eliseo con la resurrezione di suo figlio. Tuttavia, l’allusione alle resurrezioni operate da Elia e da Eliseo non sono una dimostrazione che Luca abbia inventato il fatto. L’indicazione di Nain, infatti, è un tratto caratteristico della verità storica del racconto: Nain è assente nelle Scritture Ebraiche. Nain è però un villaggio esistente sulle pendici settentrionali del Piccolo Hermon. È un particolare significativo, anzi più che significativo, se si tiene conto che Luca è abitualmente poco preciso per quanto riguarda la topografia. Il racconto poi è così vivo da supporne per se stesso la storicità.