Il sesto capitolo del Vangelo di Giovanni riferisce di un discorso tenuto da Yeshùa in una primavera alla fine degli anni Venti della nostra èra nella cittadina di Cafàrnao, sulle rive del lago di Galilea. Il giorno prima Yeshùa aveva miracolosamente sfamato cinquemila persone. Si era poi sottratto alla folla esaltata che voleva farlo re su di loro, ritirandosi da solo su una montagna. Il giorno seguente questi avvenimenti la folla lo cercava ancora, e infine lo trovò a Cafàrnao. Yeshùa inizia allora con loro una conversazione che culmina in un discorso, per certi versi inquietante, nella sinagoga di Cafàrnao. Ecco cosa accadde:

   – Voi ricercate, ma non per i segni miracolosi! Ve lo dico io: voi mi cercate solo perché avete mangiato il pane e vi siete levati la fame. Non datevi da fare per il cibo che si consuma e si guasta, ma per il cibo che dura e conduce alla vita eterna. Ve lo darà il figlio dell’uomo. Dio ha messo su di lui un segno di approvazione.

   – Che cosa fai di straordinario, perché crediamo in te? I nostri antenati mangiarono la manna nel deserto; come dice la Bibbia: Ha dato loro da mangiare un pane venuto dal cielo. Tu, che opere fai?

   Gesù rispose loro:

   – Ve lo assicuro: non è Mosè che vi ha dato il pane venuto dal cielo. È il Padre mio che vi dà il vero pane venuto dal cielo. Il pane di Dio è quello che viene dal cielo e dà la via al mondo. Io sono il pane che dà la vita. Chi si avvicina a me con fede non avrà più fame.

   Quegli ebrei che parlavano con Yeshùa si misero a protestare perché aveva detto: “Io sono il pane venuto dal cielo”.

   – Smettetela di protestare tra di voi. I vostri antenati nel deserto mangiarono la manna e poi morirono ugualmente; invece, il pane venuto dal cielo è diverso: chi ne mangia non morirà. Io sono il pane, quello vivo, venuto dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà per sempre. Il pane che io gli darò è il mio corpo, dato perché il mondo abbia la vita. Io vi dichiaro una cosa: se non mangiate il corpo del figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia il mio corpo e beve il mio sangue ha la vita eterna, perché il mio corpo è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane unito a me e io a lui. Questo è il pane venuto dal cielo. Non è come il pane che mangiarono i vostri antenati e morirono ugualmente; chi mangia questo pane vivrà per sempre.

   Molti discepoli, sentendo Gesù parlare così, dissero:

   – Adesso esagera! Chi può ascoltare cose simili?

 – Gv 6:26-60, passim, PdS.

   Yeshùa insiste molto, in questo discorso, sull’obbligo che ogni credente ha di mangiare la sua carne e di bere il suo sangue. Egli è chiaro: “Io vi dichiaro una cosa: se non mangiate il corpo del figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita”. – V. 53.

   Cosa intende dire Yeshùa con queste parole a prima vista così dure e enigmatiche? I “cristiani” dei secoli successivi alla primitiva congregazione dei discepoli di Yeshùa, quando ormai rimaneva poco o nulla dell’insegnamento vero del giudeo Yeshùa, pensarono di trovare la spiegazione corretta nell’eucaristia. La tappa fondamentale da cui partirono tutte le proclamazioni di fede riguardanti la presenza reale di Yeshùa sotto le apparenze del pane e del vino consacrati fu il Concilio di Trento (dal 13 dicembre 1545 al 4 dicembre 1563): “Prima di tutto il Sacro Concilio insegna che in questo augusto sacramento della Santissima Eucaristia, dopo la consacrazione del pane e del vino, sotto le apparenze di quelle cose sensibili, si contiene veramente e sostanzialmente il nostro Signore Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo. Se qualcuno negherà che nel santissimo sacramento si contenga veramente e realmente il corpo e il sangue … sia scomunicato”. – Concilio di Trento, Sessione XIII, Capitolo I, Canone I.

   “Sotto le apparenze” del pane e del vino “si contiene veramente e sostanzialmente” la carne e il sangue: questo afferma la dottrina della transustanziazione. Le parole di Yeshùa (“questo [pane] è il mio corpo” e “questo [vino] è il mio sangue” – Mt 26:26,28) sono state prese letteralmente. È qui il caso di ripetere che ci sono due modi di leggere le Scritture: prenderle letteralmente o prenderle sul serio. Ancora una volta il lettore occidentale cade nella trappola della propria mentalità occidentale. La mentalità ebraica, invece, mette in luce il dato relazionale ossia il rapporto simbolico del pane e del vino con il corpo e il sangue di Yeshùa, e lo fa alla maniera concreta del modo di pensare mediorientale. Questo modo ebraico, concreto nel suo simbolismo, è stato sostituito dal concetto occidentale di sostanza e apparenza.

   Eppure, Yeshùa esalta la necessità della fede in lui che è “pane della vita” mandato da Dio per dar vita. Ma secondo i teologi cattolici egli parlerebbe invece dell’eucaristia. Questa opinione ha il grave difetto di scindere l’unità armonica del discorso di Yeshùa, introducendo nel contesto del discorso concernente la fede un insegnamento eucaristico che gli uditori di Yeshùa non avrebbero per certo potuto capire. Questo balzo improvviso dalla fede di cui parla Yeshùa all’eucaristia di cui parlano i teologi – senza alcun preavviso o preparazione da parte di Yeshùa – rende disarmonico e incomprensibile il ragionamento di Yeshùa. Per di più, esigerebbe da parte degli uditori un’adesione a una dottrina che sarebbe stata rivelata da Yeshùa solo alla fine della sua vita con l’istituzione della Cena del Signore. Tale incongruenza è resa ancora più dura se si vuole dividere il verso 51 in due parti: quella che parla della fede (“Io sono il pane, quello vivo, venuto dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà per sempre”) e quella che riguarderebbe l’eucaristia (“Il pane che io gli darò è il mio corpo, dato perché il mondo abbia la vita”). Il verbo “io darò” non allude affatto a un futuro dono eucaristico, ma alla futura donazione della vita di Yeshùa (“il mio corpo”) sulla croce su cui morì per la salvezza degli uomini.

   Per rimediare alla grave incongruenza che si viene a creare nel passo giovanneo che stiamo considerando quando si cerca di introdurvi l’idea eucaristica, i soliti teologi ipotizzano un tardo ripensamento della comunità primitiva. Sarebbe cioè accaduto che – secondo i non cattolici – con la creazione del sacramento della Comunione sia stato tradito il pensiero originario di Yeshùa inserendo nel brano dei versetti “eucaristici”; sarebbe invece accaduto che – secondo i cattolici – i versetti provenienti da un altro discorso, totalmente eucaristico, di Yeshùa siano stati lì inseriti da Giovanni per non perdere quella preziosa dottrina. L’incongruenza del brano biblico non risalirebbe dunque a Yeshùa, ma alla comunità primitiva (secondo i non cattolici) o a Giovanni (secondo i cattolici). Ipotesi su ipotesi. E tutto a spese della Scrittura. Ma non viene il dubbio che le ipotesi cerchino di correggere un’incongruenza che nasce solo da una interpretazione sbagliata? Il vizio grave di tutto ciò è quello di interpretare il brano alla luce della teologia odierna, anziché indagare che cosa il brano significasse davvero per l’uditorio contemporaneo di Yeshùa. Solo con questa indagine si può eliminare la difficoltà dell’incongruenza creatasi.

   È questa seria indagine che vogliamo qui portare avanti.

   Il discorso sul pane di vita si apre con alcune battute polemiche legate alla moltiplicazione dei pani e alla manna (vv. 26-34). Il corpo vero del discorso si svolge invece dal v. 35 al v. 58. Di seguito viene ripresentato in due sezioni (vv. 35-47 e vv. 48-58, con una serie di sette strofe ciascuna. Queste strofe vanno intese secondo le regole dello stile orale mediorientale e non secondo lo stile della poesia moderna: vanno quindi intese in senso lato. Lo sviluppo delle due sezioni è parallelo ed esse iniziarono con lo stesso titolo: “Io sono il pane che dà vita” (v. 35 e v. 48) e terminano con il medesimo finale riguardante la vita eterna, frutto del nutrimento offertoci in Yeshùa.

   Questo schema ha lo scopo di mostrare che il discorso di Yeshùa è un tutto armonioso, senza incongruenze. Il risultato finale identico (la vita eterna) dimostra che il procedimento per raggiungere la vita eterna è analogo: non si tratta di eucaristia, ma di fede e di fede soltanto.

   Sono evidenziate la prima sezione e la seconda sezione; i passi paralleli sono evidenziati dai colori uguali che denotano anche le sette strofe: I, II, III, IV, V, VI, VII. La chiusa di ciascuna sezione è simile.

Prima sezione – Vv. 35-47

35 Gesù disse loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà mai più sete. 36 Ma io ve l’ho detto: “Voi mi avete visto, eppure non credete!” 37 Tutti quelli che il Padre mi dà verranno a me; e colui che viene a me, non lo caccerò fuori; 38 perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. 39 Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nessuno di quelli che egli mi ha dati, ma che li risusciti nell’ultimo giorno. 40 Poiché questa è la volontà del Padre mio: che chiunque contempla il Figlio e crede in lui, abbia vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno». 41 Perciò i Giudei mormoravano di lui perché aveva detto: «Io sono il pane che è disceso dal cielo». 42 Dicevano: «Non è costui Gesù, il figlio di Giuseppe, del quale conosciamo il padre e la madre? Come mai ora dice: “Io sono disceso dal cielo”?» 43 Gesù rispose loro: «Non mormorate tra di voi. 44 Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre, che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 45 È scritto nei profeti: “Saranno tutti istruiti da Dio“. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. 46 Perché nessuno ha visto il Padre, se non colui che è da Dio; egli ha visto il Padre. 47 In verità, in verità vi dico: chi crede in me ha vita eterna.

Seconda sezione – Vv. 48-58

48 Io sono il pane della vita. 49 I vostri padri mangiarono la manna nel deserto e morirono. 50 Questo è il pane che discende dal cielo, affinché chi ne mangia non muoia. 51 Io sono il pane vivente, che è disceso dal cielo; se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; e il pane che io darò per la vita del mondo è la mia carne». 52 I Giudei dunque discutevano tra di loro, dicendo: «Come può costui darci da mangiare la sua carne?» 53 Perciò Gesù disse loro: «In verità, in verità vi dico che se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete vita in voi. 54 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 55 Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda. 56 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me, e io in lui. 57 Come il Padre vivente mi ha mandato e io vivo a motivo del Padre, così chi mi mangia vivrà anch’egli a motivo di me. 58 Questo è il pane che è disceso dal cielo; non come quello che i padri mangiarono e morirono; chi mangia di questo pane vivrà in eterno. – Gv 6.

   Yeshùa, nel suo discorso trasmesso da Giovanni (capitolo 6), sviluppa in due parti armoniche il concetto che lui solo è il vero pane di vita sceso dal cielo cui occorre accostarsi con umile fede.

   Il credente ha così la vita che emana dal consacrato di Dio, si nutre di lui che è vero pane vivificante. Questo il tema unitario sviluppato armoniosamente nelle due parti parallele.

  1. Per fede si accoglie Yeshùa il consacrato, inviato da Dio. Il soggetto è sviluppato sempre più luminosamente nei suoi variegati aspetti, sviluppandosi in sette strofe. Io sono il pane che dà la vita (v. 35): così si apre la prima strofa. Ecco la solenne asserzione che Yeshùa proclama alla folla in cerca di cibo. Quella gente era stata sfamata il giorno precedente e Yeshùa sapeva che cercavano ancora il pane (v. 26); a loro Yeshùa offre un altro “pane”: un pane vivo e vivificante: se stesso. Nelle tre seguenti strofe, tutte terminanti con l’espressione “Lo resusciterò nell’ultimo giorno”, Yeshùa chiarisce che la vita eterna da lui recata avrà la sua realtà completa nel giorno finale della resurrezione di tutti i credenti (vv. 39,40,44). Solo allora coloro che si troveranno uniti a lui per fede entreranno definitivamente nella vita eterna che già possiedono come promessa: “Ve lo assicuro: chi crede ha la vita eterna” (v. 47). È per mezzo della fede che si va a Yeshùa e ci si nutre di lui in modo da non dover più patire fame e sete (v. 35). È Dio, solo Dio, che può condurre le persone attirandole a tale fede salvifica (v. 44). La prima parte del discorso di Yeshùa ha per oggetto unico la fede. L’esigenza della fede non è una novità per il lettore del Vangelo di Giovanni. Essa era già stata presentata sotto le metafore dell’acqua di vita e dello spirito vivificante (capp. 3 e 4). Lo stesso insegnamento è ora presentato qui, al capitolo 6, sotto la metafora del pane di vita, quella stessa metafora che la Bibbia usa spesso: “Venite e mangiate il mio pane, bevete il mio vino aromatizzato; se volete vivere felici non frequentate gli stolti e prendete la via dell’intelligenza” (Pr 9:5,6). Eppure, è proprio questa fede in Yeshùa, pane sceso dal cielo, che costituisce l’ostacolo principale e la più grave pietra d’inciampo per gli ebrei che erano al corrente della sua origine nell’insignificante borgo di Nazaret: “Costui è Gesù, non è vero? È il figlio di Giuseppe. Conosciamo bene suo padre e sua madre. Come mai ora dice: Io sono venuto dal cielo?” (v. 42). Quegli ebrei avevano dunque a disposizione un pane di vita eterna, eppure rifiutavano di cibarsene! Proprio per questo, Yeshùa insiste – nella seconda pare – sulla necessità improrogabile e irrinunciabile di mangiare tale cibo.
  2. Per fede ci si ciba di Yeshùa. Nelle successive sette strofe (vv. 48-58) Yeshùa riprende il tema iniziale: “Io sono il pane che dà la vita” e si sofferma a precisare meglio la necessità di tale cibo per ogni persona. Ciò viene ora ripreso e colorito con abbondanza di metafore mediorientali. Yeshùa inizia col dire che lui può dare la vita perché, a differenza della manna, è un pane vivente (v. 51): “Io sono il pane, quello vivo, venuto dal cielo”. L’elemento nuovo, che è pura sintesi, è l’aggettivo “vivo”, che costituisce il germe della spiegazione successiva. Ecco le tre conseguenze che Yeshùa ne trae:

a)       Carne e sangue. Yeshùa è un pane “vivo” in quanto è una persona umana, composta – secondo la terminologia biblica – di “carne e sangue”. Sono questi i due elementi costitutivi di ogni essere umano qual era allora lo stesso Yeshùa. Oggi i “cristiani” sono soliti dire che l’uomo è composto di “anima e corpo”; gli ebrei dicevano invece di “carne e sangue”. – Mt 16:17.

b)       Mangiare e bere. L’accettazione totale della persona di Yeshùa, composta di “carne e sangue”, poteva quindi essere raffigurata con la metafora del ‘mangiare la sua carne e bere il suo sangue’. Un ebreo, abituato al linguaggio figurato della Bibbia, poteva ben capire che con questa espressione Yeshùa voleva esprimere in modo più concreto la necessità di accogliere per fede la sua persona. L’espressione “se non mangiate il corpo del figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue non avete in voi la vita“ (v. 53) non raffigura quindi due atti distinti (come si attuano nell’eucaristia), ma l’azione unica dell’accettare nella sua interezza la persona di Yeshùa. I due atti del mangiare e del bere sono infatti ricapitolati, poco dopo, con le frasi: “Chi mangia me” (v. 57) e “chi mangia questo pane” (v. 58). “Carne e sangue” equivalgono quindi a “me” e a “pane”: indicano Yeshùa concreto e mortale.

c)       La carne che egli darà. Qui viene toccato l’ultimo concetto dell’insegnamento di Yeshùa. Egli è sorgente di vita proprio perché si consacra alla morte per la salvezza del genere umano: “Il pane che io gli darò è il mio corpo, dato perché il mondo abbia vita” (v. 51). Si noti la motivazione: per la vita. È dando il suo corpo vivo, la sua vita, che Yeshùa diviene alimento vivificante. Perché il sangue possa essere bevuto, occorre che sia versato; perché la carne possa essere mangiata, occorre uccidere prima il corpo. Quindi il simbolismo (concreto, secondo l’uso ebraico) di Yeshùa circa la carne e il sangue, il mangiarne e il berne, porta a concludere che lui, per divenire sorgente di vita, deve prima essere sacrificato. Il che avvenne appunto sulla croce. La carne di Yeshùa è “vero cibo” e il suo sangue “vera bevanda” (v. 55): si tratta di efficacia, non di proprietà commestibili. Qui Yeshùa sottolinea che con la fede il credente partecipa al suo sacrificio. Questo non si riduce a un evento storico del passato di cui dobbiamo solo ricordarci, ma costituisce una realtà sempre presente dei cui frutti ci possiamo nutrire quotidianamente con una fede ubbidiente.

   Il discorso di Yeshùa assume così un’unità meravigliosa che gradatamente conduce al mistero più profondo del piano di Dio. Ci presenta Yeshùa il consacrato che muore per dare la vita a coloro che di lui si nutrono mediante la fede e l’ubbidienza.