In 1Cor 11:10 Paolo scrive: “La donna deve, a causa degli angeli, avere sul capo un segno di autorità”. Il greco originale dice:
διὰ τοῦτο ὀφείλει ἡ γυνὴ ἐξουσίαν ἔχειν ἐπὶ τῆς κεφαλῆς διὰ τοὺς αγγέλους
dià tùto ofèilei e günè ecsusìan ècheiv epì tes kefalès dià tus anghèlus
per questa cosa deve la donna autorità avere su il capo
Il vocabolo greco ἐξουσία (ecsusìa), numero Strong G1849, è un sostantivo femminile che significa “potere di scelta / libertà di fare come piace / abilità o forza che si possiede o si esercita / potere di autorità /un segno d’autorità”. Questo termine greco appare molte volte nelle Scritture Greche, per cui non sarà difficile confermarne il significato dal contesto in cui gli agiografi lo collocano.
In Mt 7:29 è detto di Yeshùa che “egli insegnava loro come uno che ha autorità [ἐξουσία (ecsusìa)]”. Il centurione che chiede l’intervento di Yeshùa perché gli guarisca il suo servo, chiedendogli di dire solo una parola senza entrare in casa sua, cosa di cui si ritiene indegno, mostra la sua fede nell’autorevole parola di Yeshùa con questo paragone: “Anch’io sono un uomo sottoposto ad autorità [ἐξουσία (ecsusìa)]” (Mt 8:9, TNM). Yeshùa ha “autorità [ἐξουσία (ecsusìa)] di perdonare i peccati” (Mt 9:6). “Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, [Yeshùa] diede loro il potere [ἐξουσία (ecsusìa)] di scacciare gli spiriti immondi e di guarire qualunque malattia e qualunque infermità” (Mt 10:1). I capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo domandano a Yeshùa: “Con quale autorità [ἐξουσία (ecsusìa)] fai tu queste cose? E chi ti ha dato questa autorità [ἐξουσία (ecsusìa)]?” (Mt 21:23). Dopo la sua resurrezione Yeshùa dichiara: “Ogni autorità [ἐξουσία (ecsusìa)] mi è stata data in cielo e sulla terra” (Mt 28:18). Ai discepoli Yeshùa ricorda: “Non spetta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riservato alla propria autorità [ἐξουσία (ecsusìa)]” (At 1:7). “Simone [Mago], vedendo che per l’imposizione delle mani degli apostoli veniva dato lo Spirito Santo, offrì loro del denaro, dicendo: ‘Date anche a me questo potere [ἐξουσία (ecsusìa)]’” (At 8:18,19). Il discepolo Anania rammenta intimorito a Yeshùa che gli appare chiedendogli di aiutare Saulo: “Qui [a Damasco, in Siria] ha ricevuto autorità [ἐξουσία (ecsusìa)] dai capi dei sacerdoti per incatenare tutti coloro che invocano il tuo nome”. – At 9:14.
Possono esserci ancora dubbi sul significato della parola ecsusìa (ἐξουσία)? Essa indica la piena autorità, con buona pace di coloro che erroneamente credono che ciò che la donna deve avere “sul capo” (epì tes kefalès) debba essere segno di sottomissione. Costoro, leggendo superficialmente il testo paolino, deducono che la donna debba essere velata in certe occasioni per riconoscere la sua sottomissione all’autorità maschile. È davvero il caso di esaminare la mentalità giudaica di Paolo.
Va rammentata l’allegoria del profeta Ezechiele in cui Dio, passando accanto a Israele (paragonata ad una donna), la trova nuda e abbandonata nel deserto. Essere nudi significa nella Scrittura essere senza appartenenza, senza rango. Nell’allegoria Dio stende il suo mantello e la copre: nel simbolo dell’unione matrimoniale, Dio contrae così con Israele un’alleanza.
“’Tu eri nuda e scoperta. Io ti passai accanto, ti guardai, ed ecco, il tuo tempo era giunto: il tempo degli amori; io stesi su di te il lembo della mia veste e coprii la tua nudità; ti feci un giuramento, entrai in un patto con te’, dice il Signore, Dio, ‘e tu fosti mia’”. – Ez 16:7,8.
L’unione matrimoniale reca alla donna l’onore e la gloria della casa maritale. La donna partecipa così alla gloria del marito. Ecco perché Paolo dice: “La donna è la gloria dell’uomo” (1Cor 11:7). Si rammenti che nella legge della gelosia, quando un marito sospettava la moglie di adulterio, egli la portava davanti al sacerdote per interrogare Dio e “il sacerdote farà quindi stare la donna in piedi davanti al Signore, le scoprirà il capo”. – Nm 5:8.
Perché allora Paolo comanderebbe, secondo certe interpretazioni, che la donna sia velata quando prega o profetizza? Sta forse affermando che la donna sia più distante da Dio? Così un semplice potrebbe intendere leggendo l’argomentazione paolina: “L’uomo non viene dalla donna, ma la donna dall’uomo; e l’uomo non fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo” (1Cor 11:8,9). Ma Paolo stesso aggiunge subito dopo: “D’altronde, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo senza la donna. Infatti, come la donna viene dall’uomo, così anche l’uomo esiste per mezzo della donna e ogni cosa è da Dio” (1Cor 11:11,12). Inoltre, Paolo afferma in Gal 3:27,28 senza tentennamenti: “Voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è qui . . . né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù”. A proposito di Gal 3:28 facciamo notare l’errata traduzione che ne fa CEI: “Non c’è più uomo né donna”; dire che “non c’è più” fa intendere che prima c’era, ma per Yeshùa non ci fu mai tale distinzione. Comunque, perché mai Paolo consentirebbe che l’uomo preghi in subordinazione diretta a Yeshùa, suo capo, mentre la donna sarebbe posta in relazione a Dio attraverso l’uomo? Egli dice: “Il capo di ogni uomo è Cristo, che il capo della donna è l’uomo, e che il capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza a capo coperto fa disonore al suo capo; ma ogni donna che prega o profetizza senza avere il capo coperto fa disonore al suo capo” (1Cor 11:3-5). Dove sarebbe la libertà recata a tutti dal messia e la parità tra i sessi di cui Paolo stesso parla? Va ricordato che il verso appena citato è tratto da una traduzione, non dalla Bibbia.
La questione si complica considerando che Paolo non fonda la sua argomentazione sul piano coniugale, ma sul piano antropologico. Per Paolo, sia l’uomo che la donna sono due parti essenziali nella costituzione dell’umanità” (1Cor 11:11,12). Se la questione fosse posta nella prospettiva coniugale, il problema sarebbe risolto con il testo di Ezechiele: dopo il peccato, la donna è soggetta all’uomo (Gn 3:16) e la vicenda di Rut mostra come l’uomo “ricompri” (in base alla legge del levirato, già considerata) la donna entrando in alleanza con lei. – Rut 3.
Paolo parrebbe fare una lettura pessimistica e antifemminile di Gn, vedendo nella donna la radice del peccato (1Tm 2:11-15). In tale prospettiva Paolo sembrerebbe ricorrere al modello giudaico in cui viene privilegiato il ruolo familiare della donna.
Va detto che nella cultura giudaica di Paolo il velo non era affatto un segno di sottomissione della donna. Nel giudaismo odierno è l’uomo che si copre in capo con la kippàh (כִּפָּה); è uso degli ebrei osservanti coprirsi il capo in segno di rispetto verso Dio. Per Paolo la diversità dei sessi ha un significato profondo, ecco perché richiede alla donna l’ecsusìa (ἐξουσία), l’“autorità” sulla testa, espressione della sua funzione femminile. Mentre Paolo prima dice che “l’uomo non viene dalla donna, ma la donna dall’uomo”, poi parla della supremazia femminile sull’uomo dicendo che “l’uomo esiste per mezzo della donna”; infine dice che i sessi trovano la loro unità nel Signore perché “ogni cosa è da Dio” (1Cor 11:8,11,12). La sessualità è per Paolo consapevolezza di dipendenza reciproca: “Né la donna è senza l’uomo, né l’uomo senza la donna” (Ibidem, v. 11). In ciò Paolo si rifà a Gn che afferma che Dio creò l’essere umano (uno) maschio e femmina: “Dio creò l’uomo . . . li [il testo ebraico non dice “li”, ma “lo”, “lo creò”:בָּרָא אֹתֹו (barà hu)] creò maschio e femmina” (Gn 1:27). Paolo, seguendo la mentalità del suo tempo, pone una scala gerarchica: “Voglio che sappiate che il capo di ogni uomo è Cristo, che il capo della donna è l’uomo, e che il capo di Cristo è Dio” (1Cor 11:3). I cardini sono: Dio, Yeshùa e l’essere umano. Nella differenziazione maschio-femmina, che rimane subordinata a Yeshùa, la donna è subordinata all’uomo. Secondo la mentalità antropologica dell’epoca, Paolo vede la funzione dell’uomo diversa da quella della donna. L’uomo ha una funzione organizzativa, per questo è “capo” in relazione alla donna: “Mogli, siate sottomesse ai vostri mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della chiesa” (Ef 5:22,23). Nell’organizzazione teocratica la gerarchia è Dio → Yeshùa → uomo → donna. Va detto che secondo Paolo questa funzione organizzativa dell’uomo come capo rispetto alla donna è servizio, esattamente “come anche Cristo è capo della chiesa”. Per Paolo la situazione della donna non significa che lei sia inferiore: significa semplicemente che la sua funzione è altra.
L’atteggiamento e l’abbigliamento della donna devono proclamare la sua funzione e la sua dignità. Nella mentalità del tempo, la donna, per essere degna di rispetto, doveva far riferimento alla casa paterna o a quella del fratello o a quella del marito. L’alternativa era prostituirsi o vendersi schiava. Anche nella liturgia, quindi, il suo abbigliamento doveva indicare la sua relazione con l’uomo. In Israele le donne dovevano presentarsi in pubblico con un abbigliamento che ne indicasse la loro appartenenza. Se rinunciavano a quell’abbigliamento erano private di protezione legale, e perfino di identità. Se si spogliavano significava che volevano darsi alla prostituzione. Della donna che simboleggia Gerusalemme è detto che nessuno ebbe riguardi per lei, tanto che fu lasciata in aperta campagna nuda; quando Dio la trova e si innamora di lei, la veste e le dà così dignità, mettendole addosso vesti ricamate. “’Ti avevo rivestita della mia magnificenza’, dice il Signore, Dio”. Inebriata dalla propria bellezza, questa donna/Gerusalemme si offrì a chi la voleva, prostituendosi. Si toglie allora gli abiti. – Ez 16.
L’abbigliamento femminile, consono ad una donna dignitosa, prevedeva in Israele i capelli lunghi e ben ordinati. I rabbini ritenevano che una donna che si tagliasse i capelli disonorasse Dio. Paolo lo ricorda dicendo: “Per una donna è cosa vergognosa farsi tagliare i capelli”, “Se una donna porta la chioma, per lei è un onore; perché la chioma le è data come ornamento”. – 1Cor 11:6,15.
Condotta femminile nelle riunioni di culto
I misogini, sebbene religiosi, amano riferirsi ad un testo biblico, diventato ormai luogo comune e che appare antifemminista:
“Come si fa in tutte le chiese dei santi, le donne tacciano nelle assemblee, perché non è loro permesso di parlare; stiano sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualcosa, interroghino i loro mariti a casa; perché è vergognoso per una donna parlare in assemblea”. – 1Cor 14:34,35.
Conviene davvero analizzare con diligenza questo testo. Ciò è trattato nello studio, in questa stessa sezione, Tacciano i misogini, non le donne. Prima, comunque, presentiamo un’esegesi già avanzata che non tiene conto però dell’analisi critica del testo. In questa esegesi si tiene conto sia del contesto storico sia della non reazione che i discepoli di Yeshùa manifestavano a quel contesto. La congregazione di Yeshùa non era rivoluzionaria e non faceva alcunché per modificare le situazioni anche profondamente ingiuste della società. Mentre i giudei, ad esempio, si davano da fare per rovesciare il potere romano che li aveva ridotti a colonia dell’Impero, i discepoli di Yeshùa avevano imparato ad attendere i tempi di Dio (cfr. At 1:6,7). Paolo dice al riguardo: “Ogni persona stia sottomessa alle autorità superiori; perché non vi è autorità se non da Dio; e le autorità che esistono sono stabilite da Dio. Perciò chi resiste all’autorità si oppone all’ordine di Dio” (Rm 13:1,2). Così, la schiavitù non era combattuta dalla primitiva congregazione, anzi Paolo dice: “Schiavi, siate ubbidienti a quelli che sono i [vostri] signori in senso carnale, con timore e tremore nella sincerità del vostro cuore, come al Cristo” (Ef 6:5); comanda perfino ad Onesimo, uno schiavo che era scappato, di ritornare dal suo padrone (cfr. Flm). Questi sono alcuni esempi. La schiavitù era ingiusta, ma Paolo l’accetta; l’oppressione era ingiusta, ma Paolo l’accetta. Nello stesso modo, Paolo non si oppone alla condizione della donna nella società di allora. Era ingiusta, ma così era. Non spettava alla congregazione debellare le ingiustizie sociali. Basti pensare al fatto che, basandosi sulla condizione femminile di sudditanza che allora era una regola, Paolo arriva a dire ai padri: “Se uno crede far cosa indecorosa verso la propria figliola nubile se ella passi il fior dell’età, e se così bisogna fare, faccia quello che vuole . . . la dia a marito. Ma chi . . . ha determinato in cuor suo di serbare vergine la sua figliola, fa bene” (1Cor 7:37,38). Ritorna qui il padre-padrone che già abbiamo esaminato. Così era. Ingiusto? Certamente, ma Paolo non intende sovvertire l’ordine sociale, per quanto ingiusto. Eppure, oggi, si spera non esistano più credenti che applichino quelle concezioni arcaiche. Oggi, si spera che anche i più bigotti lascino alla figlia la scelta se sposarsi o no e, nel caso, di scegliersi il marito che vuole.
Ci pare che l’atteggiamento di Paolo sia ben dimostrato. Occorre distinguere tra mentalità del tempo e rivelazione. Paolo stesso spiega bene: “Quanto alle vergini non ho comandamento dal Signore; ma do il mio parere, come uno che ha ricevuto dal Signore la grazia di essere fedele” (1Cor 7:25). Paolo manteneva la mentalità giudaica del tempo e, sebbene in buona fede faccia pesare che ha “ricevuto dal Signore la grazia di essere fedele”, non si arroga la grazia di parlare a nome di Dio, ma riconosce onestamente che non ha in merito “comandamento dal Signore”. Si tratta di un consiglio, non di un precetto rivelato; al massimo, è un precetto circostanziale.
In 1Tm 2:11-14 sembrerebbe esserci un altro precetto:
“La donna impari in silenzio con ogni sottomissione. Poiché non permetto alla donna d’insegnare, né di usare autorità sul marito, ma stia in silenzio. Infatti Adamo fu formato per primo, e poi Eva; e Adamo non fu sedotto; ma la donna, essendo stata sedotta, cadde in trasgressione; tuttavia sarà salvata partorendo figli, se persevererà nella fede, nell’amore e nella santificazione con modestia”.
Quello che Paolo nega non è l’insegnamento da parte della donna, come alcuni erroneamente pensano. “Chi profetizza edifica la chiesa” (1Cor 14:4), dice Paolo. Il verbo che lui utilizza, οἰκοδομέω (oikodomèo), significa “costruire una casa, ripristinare costruendo, ricostruire, riparare” e metaforicamente (come in questo caso) “fondare, stabilire, promuovere la crescita nella saggezza”. Non è insegnamento vero e proprio, ma lo comporta. Il carisma di profetizzare, per le donne Paolo lo ammette. Il fatto stesso che egli dica che “ogni donna che prega o profetizza senza avere il capo coperto” (1Cor 11:5; la traduzione è da verificare sul testo greco) dimostra che rispettava il profetizzare femminile; anzi, lo incoraggiava. – 1Cor 14:5.
Ora, il fatto che alla donna verrebbe vietato di pregare e profetizzare senza il capo coperto (secondo una certa interpretazione del testo biblico) nella congregazione, non può non portare alla conseguenza che potrebbe essere ritenuta inferiore all’uomo. Come accordarlo allora con la realtà che “non c’è né maschio né femmina” perché tutti sono “uno in Cristo Gesù” (Gal 3:28)? Intanto va ricordato che non tutti gli uomini, per il solo fatto di essere maschi, profetizzavano ed erano insegnanti. L’insegnamento nella congregazione era riservato ai più preparati. In 1Tm 3:1-7 sono stabiliti i requisiti per l’episcopato ovvero per la soprintendenza e la sorveglianza della congregazione; tra questi requisiti c’è quello che l’aspirante deve essere “capace di insegnare”; egli potrebbe avere tutti gli altri requisiti, ma se manca di questo non sarà “vescovo” o sorvegliante. Ma, mentre molti uomini erano esclusi dall’insegnamento, rimane la domanda: perché tutte le donne dovrebbero velarsi in certe circostanze? Forse Paolo temeva che le riunioni degenerassero in conversazioni e pettegolezzi in cui una donna potesse prendersi la rivincita per come era trattata nella società? Paolo rimprovera ai corinti: “Ci sono tra di voi gelosie e contese” (1Cor 3:3), caratteristiche tipicamente anche femminili. Nella congregazione di Corinto, in Grecia, c’erano discussioni e un bisogno quasi morboso di discutere. Nella sua prima lettera, Paolo raccomanda prima di tutto l’unità (1:1–4:21), poi esorta a non ricorrere così spesso ai tribunali per comporre le frequenti liti che c’erano tra loro (6:1-9), a tener conto degli altri e a non abusare egoisticamente della propria libertà come erano soliti fare (8:1–10:33); cerca, insomma, di ristabilire l’ordine nella congregazione (11:1–14:40), ed è in questa sezione che parlerebbe del copricapo (stando alle traduzioni) per le donne e vieterebbe loro di parlare (sempre stando alle traduzioni): forse tutto quel disordine si poteva evitare con una proibizione generale? Paolo scrive ai corinti: “Quando vi riunite in assemblea ci sono divisioni tra voi” (1Cor 11:18; cfr. 1:10). Quella congregazione era davvero turbolenta, e Paolo dovette scriverle una seconda lettera appellandosi a tutta la sua autorità e autorevolezza di apostolo, dovendo perfino difendere la sua posizione. – 2Cor 5:12,13;10:7-12;11:16-20,30-33;12:11-13.
Nel mondo greco (e Corinto era in Grecia), le donne avevano una certa posizione, addirittura privilegiata, sia nella vita cittadina che nel culto. Le religioni pagane mostravano molta accoglienza alle donne. Non solo molte dee erano adorate con grande devozione, ma si attribuivano alle donne capacità sacerdotali. Il culto reso alla Bona Dea o “Grande Madre” era affidato totalmente a donne. A Roma, le famose vestali erano sacerdotesse consacrate alla dea Vesta. Proprio a Corinto era praticata l’adorazione della dea Afrodite (la Venere romana, l’Astarte fenicia e cananea, l’Ishtar babilonese).
Riguardo al culto della primitiva congregazione dei discepoli di Yeshùa, si nota all’inizio un periodo alquanto caotico: dapprima si riuniscono nel Tempio (At 5:42:22:17), poi nelle sinagoghe (At 13:14-16;14:1;17:1,2,10,17;19:8), poi nelle case private (Rm 16:5; 1Cor 16:19; Col 4:15). Anche le riunioni erano all’inizio alquanto caotiche. Proprio ai corinti Paolo rimprovera questa situazione: “Quando vi riunite, avendo ciascuno di voi un salmo, o un insegnamento, o una rivelazione, o un parlare in altra lingua, o un’interpretazione, si faccia ogni cosa per l’edificazione. Se c’è chi parla in altra lingua, siano due o tre al massimo a farlo, e l’uno dopo l’altro, e qualcuno interpreti. Se non vi è chi interpreti, tacciano nell’assemblea e parlino a se stessi e a Dio. Anche i profeti parlino in due o tre e gli altri giudichino; se una rivelazione è data a uno di quelli che stanno seduti, il precedente taccia. Infatti tutti potete profetare a uno a uno, perché tutti imparino e tutti siano incoraggiati. Gli spiriti dei profeti sono sottoposti ai profeti, perché Dio non è un Dio di confusione, ma di pace” (1Cor 14:26-33). È proprio in questo contesto di confusione che troviamo la frase (attribuita erroneamente a Paolo): “Le donne tacciano nelle assemblee”. – v 34.
Nella comunità di Corinto si manifestavano alcune tendenze personali entusiastiche. Ciò minacciava però la coesione di quella congregazione. Di tali tendenze erano vittime alcune donne che vestivano in maniera non approvata. Paolo prende dunque posizione. Egli per primo riconosce alla donna il diritto di parlare nelle riunioni (1Cor 11:5), ma ciò deve avvenire tenendo conto della sua diversità, che egli fa risalire alla creazione. In quella situazione caotica che si era creata, c’erano forse donne molto ignoranti che bisbigliavano chiedendo spiegazioni e che addirittura interrompevano per far domande ad alta voce, interrompendo i loro mariti mentre parlavano? A queste Paolo direbbe, secondo una certa esegesi: “Se vogliono imparare qualcosa, interroghino i loro mariti a casa”. – V. 35.
In pratica, in quella situazione veniva screditato anche il matrimonio. Forse queste donne erano anche vittime di “quelli che si insinuano nelle case e circuiscono donnette cariche di peccati, agitate da varie passioni, le quali cercano sempre d’imparare e non possono mai giungere alla conoscenza della verità”? – 2Tm 3:6,7.
Come anche oggi la drastica posizione paolina (ammesso che fosse di Paolo) può apparire inopportuna e discriminante, è probabile che quelle stesse donne corinzie se ne risentissero o quanto meno ne fossero sorprese?
Che Paolo non fosse un misogino lo dimostra già il fatto che, come abbiamo visto, non si oppone al profetizzare delle donne. Si consideri poi che, contrariamente alla poligamia tollerata nella società giudaica, egli sostiene in matrimonio monogamico non consentendo che un uomo abbia più di una moglie (1Tm 3:2,12; Tit 1:6; 1Cor 7:2); riguardo alle esigenze sessuali pone un’assoluta parità tra uomo e donna (1Cor 7:3,4). Per ciò che concerne l’educazione dei figli, Paolo attribuisce alla madre sempre un diritto pari a quello di suo marito (Ef 6:1,2; Col 3:20). Paolo si erge contro ogni dispotismo maschile tra le mura domestiche (Ef 5:25-31). Egli proclama la totale parità dei sessi (Gal 3:28). La sua posizione circa la donna nella congregazione va quindi letta nel contesto e non superficialmente con poca intelligenza.
Non va dimenticato che Paolo esprime il principio più audace che la Bibbia contenga in merito alla donna:
“Non c’è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù”. – Gal 3:28