Coloro che – non avendo approfondito la conoscenza dell’apostolo delle genti – ritengono Paolo un misogino, citano tra gli altri questa sua dichiarazione:

“Non abbiamo il diritto di condurre con noi una moglie, sorella in fede, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?”. – 1Cor 9:5.

   Paolo specifica qui di avere il diritto di sposarsi, menzionato insieme al “diritto di non lavorare” (v. 6). Più avanti spiega la ragione per la quale non se ne avvale: “Non ho fatto alcun uso di questi diritti, e non ho scritto questo perché si faccia così a mio riguardo; poiché preferirei morire, anziché vedere qualcuno rendere vano il mio vanto. Perché se evangelizzo, non debbo vantarmi”. – 1Cor 9:15,16.

   Mentre è comprensibile che egli rinunci al suo diritto di essere mantenuto nel suo lavoro missionario, perché rinuncia ad diritto di sposarsi? Paolo dice che non vuole rendere vano il suo vanto. Non essendo mantenuto nel suo lavoro di evangelizzazione, poteva vantarsi di fare tutto con le sue proprie forze non essendo di peso ad alcuno. Tale motivazione è valida anche per la sua scelta di rimanere celibe, giacché egli accomuna in 1Cor 9:5,6 le due scelte (lavorare e non sposarsi).

    Questo fatto di rinunciare a una moglie merita di essere esaminato più a fondo. Paolo dice:

ἀδελφὴν γυναῖκα περιάγειν, ὡς καὶ οἱ λοιποὶ ἀπόστολοι καὶ οἱ ἀδελφοὶ τοῦ κυρίου καὶ Κηφᾶς

adelfèn ghynàika periàghein, os kài oi loipòi apòstoloi kài oi adelfòi tù kyrìu kài Kefàs

sorella donna [= moglie], come anche i rimanenti apostoli e i fratelli del Signore e Kefa [= Pietro]

   Si noti quel “noi”: “Portare con noi”. E si noti anche quel “sorella [come] moglie”. Se si fosse sposato, Paolo avrebbe condotto con sé e con i suoi collaboratori (“con coi”) una donna credente in qualità di moglie. Il fatto che menzioni semplicemente una “sorella” in fede, quindi una credente, ci fa pensare che non sarebbe stata una sua collaboratrice nell’attività apostolica, come lo erano Timoteo e Silvano. Ciò comporta che quella “sorella” avrebbe avuto solo le incombenze quotidiane di una moglie relegata alla cura del marito, senza molto spazio per una vita davvero condivisa, situazione che anche molte donne di oggi purtroppo sperimentano quando i mariti sono presi solo dal lavoro.

   È il caso di ricordare il faticoso e continuo lavoro di Paolo:

  • “Spesso in viaggio, in pericolo sui fiumi, in pericolo per i briganti, in pericolo da parte dei miei connazionali, in pericolo da parte degli stranieri, in pericolo nelle città, in pericolo nei deserti, in pericolo sul mare, in pericolo tra falsi fratelli; in fatiche e in pene; spesse volte in veglie, nella fame e nella sete, spesse volte nei digiuni, nel freddo e nella nudità. Oltre a tutto il resto, sono assillato ogni giorno dalle preoccupazioni che mi vengono da tutte le chiese”. – 2Cor 11:26-28.
  • “Tre volte sono stato battuto con le verghe; una volta sono stato lapidato; tre volte ho fatto naufragio; ho passato un giorno e una notte negli abissi marini”. – 2Cor 11:25.

   Qualche studioso ha fatto i conti e ha calcolato che Paolo abbia percorso durante la sua attività missionaria ben 15.000 km (cfr. R. F. Hock, The Social Context of Paul’s Ministry, Fortress Press, Philadelphia, 1987, pag. 27). Ciò che Paolo dice di se stesso testimonia il suo instancabile lavoro.

   È quindi un assurdo giustificare il celibato paolino con la sua presunta misoginia. Piuttosto, fu così riguardoso verso le donne che non si avvalse del suo diritto di sposarsi per non costringere la sua eventuale consorte a una vita impossibile.

   Pur non volendo imporre a una donna di affiancarlo come moglie in una vita estrema, Paolo si avvalse delle donne così come degli uomini per avere collaborazione localmente, dove c’erano comunità di credenti.

 

 

Evodia  e Sintiche, collaboratrici di Paolo a Filippi

 

   L’inizio della lettera paolina ai filippesi è, per certi versi, preziosissimo: “Paolo e Timoteo, servi di Cristo Gesù, a tutti i santi in Cristo Gesù che sono in Filippi, con i vescovi e con i diaconi” (Flp 1:1). Questa è l’unica lettera di Paolo indirizzata anche ai “vescovi” e ai “diaconi”, nomi che nulla hanno a che fare con quelli attuali della gerarchia cattolica. Si tratta di “sorveglianti” e di “servitori” della comunità.

   Da Flp 4:2,3 veniamo a sapere che Paolo aveva lì a Filippi, tra i suoi collaboratori, anche due donne: “Evodia … Sintìche … queste donne, che hanno lottato per il vangelo insieme a me, a Clemente e agli altri miei collaboratori i cui nomi sono nel libro della vita”. Paolo mette queste due donne insieme a Clemente e ad altri includendole nel gruppo dei suoi συνεργῶν (synergòn), “collaboratori”.  Questo vocabolo è composto da syn- (“insieme”) e fa èrgon (“lavoro”), venendo a indicare un “collega”, un “compagno di lavoro”.

  Dal fatto che Paolo dice anche che queste due donne “hanno lottato per il vangelo” insieme a lui, fa supporre che ebbero un ruolo non indifferente nella fondazione della comunità di Filippi. Utili dettagli di queste lotte a Filippi li ricaviamo dal libro di Atti:

“Presero Paolo e Sila e li trascinarono sulla piazza davanti alle autorità; e, presentatili ai pretori, dissero: «Questi uomini, che sono Giudei, turbano la nostra città, e predicano riti che a noi Romani non è lecito accettare né praticare». La folla insorse allora contro di loro; e i pretori, strappate loro le vesti, comandarono che fossero battuti con le verghe. E, dopo aver dato loro molte vergate, li cacciarono in prigione, comandando al carceriere di sorvegliarli attentamente. Ricevuto tale ordine, egli li rinchiuse nella parte più interna del carcere e mise dei ceppi ai loro piedi”. – At 16:19-24.

   In questo caso si trattò di fustigazione pubblica e di carcerazione senza processo. – Cfr. At 16:37.

   Paolo ricorda il suo periodo filippese dicendo di aver “sofferto e subìto oltraggi … a Filippi” (1Ts 2:2). Non è quindi campato in aria supporre che Evodia e Sintiche avessero avuto un certo ruolo nella fondazione della chiesa di Filippi: “Evodia … Sintìche … queste donne, che hanno lottato per il vangelo insieme a me, a Clemente e agli altri miei collaboratori i cui nomi sono nel libro della vita”.

   Possiamo sinceramente immaginare che Paolo potesse rivolgersi a queste due donne dicendo di loro: “La donna impari in silenzio con piena sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare né di esercitare autorità sull’uomo, ma stia in silenzio” (1Tm 2:11,12, TNM)? Piuttosto, Paolo afferma che i loro “nomi sono nel libro della vita”.

 

 

Lidia

 

   Sebbene Lidia non fosse di Filippi ma di Tiàtira (odierna Turchia), questa donna fu la prima ad accettare il vangelo a Filippi. Luca, presente all’evento, narra:

“Il sabato andammo fuori dalla porta, lungo il fiume, dove pensavamo vi fosse un luogo di preghiera; e sedutici parlavamo alle donne là riunite. Una donna della città di Tiatiri, commerciante di porpora, di nome Lidia, che temeva Dio, ci stava ad ascoltare. Il Signore le aprì il cuore, per renderla attenta alle cose dette da Paolo”. – At 16:13,14.

   Questa donna, sincera e generosa, ebbe subito la meglio su Paolo. Sapendo come Paolo non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno, suscita simpatia l’atteggiamento positivo e battagliero di Lidia. È sempre Luca che riferisce:

“Poi ci invitò a casa sua: ‘Se siete convinti che ho accolto sinceramente il Signore, siate miei ospiti’. E ci costrinse ad accettare”. – At 16:15, TILC.

   Sarà anche un caso, ma della comunità di Filippi conosciamo per nome un solo uomo: Clemente. Il testo sacro ci conserva però ben tre noni di donne: Evodia, Sintiche e Lidia. Più che un caso, appare chiaro che Paolo sente il bisogno di nominarle per nome, il che denota l’importanza che esse avevano per lui.

   Se teniamo conto che quella di Filippi fu probabilmente la prima chiesa fondata da Paolo, è maggiormente degno di nota che Paolo non impiegò delle donne quale ripiego, ma che si avvalse di loro per scelta. Si conferma così il ruolo femminile nella chiesa sin dall’inizio.

 

 

Cloe, collaboratrice di Paolo

 

   “Fratelli miei, mi è stato riferito da quelli di casa Cloe …” (1Cor 1:11). Chi erano “quelli di Cloe”? Suoi familiari, suoi figli, suoi servitori? Non lo sappiamo. Chi informa Paolo, è vero, non è Cloe in persona ma i ‘suoi’. Tuttavia perché Paolo non li menziona direttamente invece di parale in modo specifico di Cloe? Evidentemente il punto di riferimento era lei. E doveva essere un riferimento ben fidato, perché Paolo rimprovererà aspramente i corinti in base alle informazioni ricevute. Ragionando meglio sul testo si può capire che “quelli di casa Cloe” non sono menzionati perché non così importanti: forse altre volte Cloe usava come messaggeri altre persone che facevano la spola tra lei e Paolo. Il riferimento di Paolo era comunque lei.

 

 

Priscilla, collaboratrice di Paolo

 

   Prisca, il cui diminutivo è Priscilla, è la donna più spesso menzionata nella parte greca della Bibbia. Dai dati biblici sappiamo che il primo incontro tra Paolo e Prisca avvenne a Corinto. Lei e suo marito Aquila erano stati cacciati da Roma perché giudei e ciò in base all’editto imperiale dell’imperatore Claudio.

“[Paolo] lasciò Atene e si recò a Corinto. Qui trovò un ebreo, di nome Aquila, oriundo del Ponto, giunto di recente dall’Italia insieme con sua moglie Priscilla, perché Claudio aveva ordinato a tutti i Giudei di lasciare Roma. Egli si unì a loro. Essendo del medesimo mestiere, andò ad abitare e a lavorare con loro. Infatti, di mestiere, erano fabbricanti di tende”. – At 18:1-3.

   Lì a Corinto Paolo “stette un anno e sei mesi, insegnando fra loro [fra i corinti] la parola di Dio” (At 18:11, TNM), poi “prese commiato dai fratelli e … s’imbarcò per la Siria con Priscilla e Aquila”. – V. 18, NR.

   Si noti come il nome Priscilla viene anteposto da Luca (lo scrittore di Atti) a quello del marito. Questo non è un vezzo di Luca, anche se è stato definito l’evangelista delle donne, perché Paolo fa la stessa cosa:

  • “Date i miei saluti a Prisca e Aquila”. – Rm 16:3, TNM.
  • “Dà i miei saluti a Prisca e ad Aquila”. – 2Tm 4:19, TNM.

   Solo in 1Cor 16:19 si ha prima Aquila: “Vi mandano i loro saluti. Aquila e Prisca insieme alla congregazione che è nella loro casa” (TNM), probabilmente perché Paolo riferisce i saluti nell’ordine in cui gli erano giunti.

   Degno di nota è un episodio dell’apostolato efesino di Prisca e Aquila:

“Un ebreo di nome Apollo, oriundo di Alessandria, uomo eloquente e versato nelle Scritture, arrivò a Efeso. Egli era stato istruito nella via del Signore; ed essendo fervente di spirito, annunciava e insegnava accuratamente le cose relative a Gesù, benché avesse conoscenza soltanto del battesimo di Giovanni. Egli cominciò pure a parlare con franchezza nella sinagoga. Ma Priscilla e Aquila, dopo averlo udito, lo presero con loro e gli esposero con più esattezza la via di Dio”. – At 18:24-26.

   Questo ebreo proveniente da Alessandria d’Egitto, nonostante le sue lacune, era comunque “uomo eloquente e versato nelle Scritture”. È significativo che a fargli da maestri furono Priscilla e Aquila, che “gli esposero con più esattezza la via di Dio”.

   In Rm 16:3, come abbiamo già notato, Paolo scrive: “Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù”. Qui vogliamo rimarcare la parola “collaboratori”, già esaminata. Si tratta di quelli che con termine moderno diremmo “colleghi”. Non solo Paolo include Prisca tra i suoi colleghi di servizio ma antepone il suo nome a quello del marito.

   Questo fatto di anteporre Prisca al marito non è di poco conto. Basti pensare che qualche antico copista dovette sentirsi offeso fino la punto di cambiare il testo sacro che stava ricopiando. Ci riferiamo al passo di At 18:26, che nella versione genuina dice: “Priscilla e Aquila, dopo averlo udito, lo presero con loro e gli esposero con più esattezza la via di Dio”. Le versioni siriache (del 5° secolo) presentano la lezione rettificata ‘Aquila e Priscilla’, così come il Codice di Beza (del 6° secolo). Si tratta di una lezione antifemminista che non è di Paolo ma degli scribi incaricati di ricopiare i testi paolini.

   Va qui rimarcato che Paolo dice che Priscilla e Aquila ἐξέθεντο (ecsèthento) ad Apollo ἀκριβέστερον (akribèsteron) la via di Dio. Il verbo ἐκτίθεμαι (ektìthemai) indica l’esporre per mezzo di spiegazioni; l’avverbio akribèsteron significa “più esatto/perfetto”. Se questo non è insegnamento, che cos’è?

   Ora, ci è possibile immaginare che Paolo possa riferire a Priscilla le parole che troviamo nel testo attuale di 1Tm 2:11,12? “La donna impari in silenzio con piena sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare né di esercitare autorità sull’uomo, ma stia in silenzio”? –1Tm 2:11,12, TNM.

   Se poi teniamo presente che Apollo “era ben versato nelle Scritture” (At 18:24, TNM), anzi, per dirla con il testo biblico, era “potente [δυνατὸς (dynatòs), “potente/forte”] nelle Scritture”, l’insegnamento di Priscilla dovette essere davvero a ottimo livello. Paolo non teme di dire che anche Priscilla istruì il già competente Apollo, anzi premette il nome di lei a quello di suo marito. Non solo si tratta di insegnamento da parte di Priscilla, una donna, ma di insegnamento molto qualificato e dei più alti perché concerne “la via di Dio”. – At 18:26.

   Occorre anche tener conto che negli elenchi biblici il primo nome è quello che spicca. Evidentemente Priscilla era la più attiva e preparata della coppia.

   Troviamo insomma in Priscilla una donna dinamica che sapeva il fatto suo e che Paolo stimava come sua collaboratrice e collega. Dobbiamo ripetere il ritornello: È mai possibile che Paolo ordinasse alle donne (che includevano Priscilla) di stare in silenzio e non permettersi di insegnare agli uomini?

   Stando allo scrittore ecclesiastico Epifanio (4° secolo), “Aquila, di cui Paolo fa menzione, divenne vescovo di Eraclea; Pisca, di cui Paolo fa menzione, divenne vescovo di Colofone”. – Epifanio, Index discipulorum, 125,16-17.

   A buona ragione lo studioso B. Byrne scrive: “Prisca, donna sposata e fedele coadiutrice di Paolo nel suo ministero di divulgazione del messaggio evangelico, colei che secondo la testimonianza di At 18,26 istruì Apollo nella fede, dovremmo forse immaginarcela costretta a sedere in silenzio nell’assemblea?”. – Paolo e la donna cristiana, pagg. 99-100.

 

 

Affia, donna preminente nella chiesa di Colosse

 

   Nella lettera più breve dell’epistolario paolino (Filemone, tanto breve che ha solo versetti e non capitoli) sono menzionati diversi nomi, esattamente sette; questi sette nomi sono menzionati anche nella lettera di Paolo ai colossesi. Incrociando i dati delle due lettere, veniamo a sapere che due di questi sette erano di Colosse:

1)       Onesimo. “Il fedele e caro fratello Onesimo, che è dei vostri”. – Col 4:9.

2)       Epafra. “Epafra, che è dei vostri”. – Col 4:12.

   Tuttavia, Onesimo ed Epafra non erano persone di primo piano nella comunità di Colosse. I preminenti a Colosse erano Filemone ed Archippo. A questa conclusione arriviamo analizzando il testo paolino:

“Paolo, prigioniero per amore di Cristo Gesù, e Timoteo, [nostro] fratello, a Filemone, nostro diletto e compagno d’opera … e ad Archippo, nostro commilitone”. – Flm 1:1,2, TNM.

   Va ricordato che i titoli dei libri biblici non sono ispirati ma sono stati aggiunti per identificare gli scritti. Quella che è nota come lettera a Filemone, è in verità una lettera a Filemone e ad Archippo, e non solo a loro, come vedremo. Oltre al fatto che i due sono menzionati quali destinatari della lettera che in ultima analisi è rivolta “alla congregazione che è in casa tua” ovvero di Filemone (Flm 1:2, TNM), per stabilire la loro preminenza abbiamo anche i loro titoli:

  • Filemone: “Diletto e compagno d’opera” (TNM). Detto meglio, con la Bibbia: τῷ ἀγαπητῷ καὶ συνεργῷ (tò agapetò kài synergò), “l’amato e collega”. Il termine “collega” (greco συνεργός, synergòs) è lo stesso usato da Paolo per Prisca e Aquila (cfr. Rm 16:3) e per Evodia e Sintiche. – Cfr. Flp 4:3.
  • Archippo: “Commilitone” (TNM). Detto meglio, con la Bibbia: τῷ συνστρατιώτῃ (tò synstratòte), “il compagno d’armi”.

   Abbiamo osservato che quella che è nota come lettera a Filemone, è in verità una lettera ad Filemone e ad Archippo, e non solo a loro. L’intestazione completa della lettera è questa:

“Paolo, prigioniero per amore di Cristo Gesù, e Timoteo, [nostro] fratello, a Filemone, nostro diletto e compagno d’opera, e ad Affia, nostra sorella, e ad Archippo, nostro commilitone”. – Flm 1:1,2, TNM.

   Giacché abbiamo fatto notare che la preminenza di Filemone e di Archippo è data anche dai titoli che Paolo attribuisce loro, si potrebbe notare che nel caso di Apfia tali titoli di preminenza mancano, perché lei è definita semplicemente “sorella”, termine che potrebbe indicare una semplice credente. Tuttavia, ci sono validi motivi per non ritenerla una semplice appartenente alla comunità colossese.

   Prima di tutto, va notato che una semplice credente non sarebbe stata citata (e per nome) nell’intestazione della lettera. In più, una semplice sorella non sarebbe stata nominata prima di Archippo, “commilitone” di Paolo. Relegare quindi Affia a semplice sorella non ha basi serie, soprattutto se si nota che anche Timoteo è detto da Paolo semplicemente “fratello”: “Paolo, prigioniero per amore di Cristo Gesù, e Timoteo, [nostro] fratello, a …” (Flm 1:1, TNM). Di certo nessuno si basa su ciò per asserire che Timoteo fosse semplicemente un credente senza incarichi.

   Qualcuno ritiene che Affia fosse la moglie di Filemone, così che si legge in un’opera religiosa: “Pare che Affia e Archippo facessero parte della famiglia di Filemone, poiché anch’essi sono menzionati nell’intestazione della lettera personale inviatagli da Paolo. Affia forse era moglie di Filemone, e Archippo suo figlio” (Perspicacia nello studio delle Scritture, Vol. 1, pag. 930). Questa opinione si basa sul pensiero di Giovanni Crisostomo e di Teodoreto (4°-5° secolo). Questa ipotesi però traballa, perché Affia è nominata con un suo titolo personale (“sorella”), mentre in altri casi Paolo mette insieme i coniugi, come Prisca e Aquila detti ambedue da Paolo “collaboratori”. – Cfr Rm 16:3.

   L’intestazione paolina della lettera a Filemone ci dice che Affia non solo era una persona preminente nella chiesa di Colosse, ma veniva prima di Archippo. Detto in termini moderni, lei era n. 2.

“Paolo, prigioniero per amore di Cristo Gesù, e Timoteo, [nostro] fratello, a [1] Filemone, nostro diletto e compagno d’opera, e ad [2] Affia, nostra sorella, e ad [3] Archippo, nostro commilitone”. – Flm 1:1,2, TNM.

   Lei era una delle colonne della comunità colossese, al pari di Filemone e di Archippo. Di nuovo dobbiamo domandarci: Ma è davvero pensiero autentico di Paolo che a una donna come Affia si potesse dire: “La donna impari in silenzio con piena sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare né di esercitare autorità sull’uomo, ma stia in silenzio” (1Tm 2:11,12, TNM)?

 

 

Febe, la diaconessa

 

   Al termine della sua lettera ai romani Paolo saluta molti credenti. Nell’elenco delle persone menzionate compaiono molte collaboratrici di Paolo, sia della chiesa destinataria della lettera sia di quella da cui Paolo scriveva. Vi sono annoverate una trentina di persone, ed è interessante notare che la prima dell’elenco è una donna. Si tratta di Febe. Evidentemente l’apostolo delle genti sentiva il bisogno di parlare, prima di tutti, di lei.

   Febe non era della comunità romana, ma in essa si stava recando, perché Paolo scrive ai confratelli romani:

“Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è diaconessa della chiesa di Cencrea, perché la riceviate nel Signore, in modo degno dei santi, e le prestiate assistenza in qualunque cosa ella possa aver bisogno di voi; poiché ella pure ha prestato assistenza a molti e anche a me”. – Rm 16:1,2.

   Paolo chiama Febe “sorella”. Come abbiamo già osservato, questo semplice titolo, che indica una credente, non basta in sé a relegare questa donna tra gli appartenenti alla chiesa che non hanno voce quanto ad amministrazione ecclesiale. Febe è detta chiaramente “diaconessa”. Lei svolgeva dunque un ministero che la distingueva dai semplici credenti.

   I maschilisti delle religioni, non potendo negare che Paolo la chiama proprio διάκονος (diàkonos), tentano di interpretare e cercano di dare a questo termine tecnico un senso diverso da quello che ha. Sebbene in sé il termine indichi un “servitore”, nella comunità dei credenti designa un incarico ufficiale. La maschilista Watchtower la butta sull’evangelizzazione: “Paolo chiama Febe ‘ministro della congregazione di Cencrea’. Questo induce a chiedersi in che senso sia usato qui il termine diàkonos (ministro). Alcune traduzioni gli danno un significato ufficiale e perciò lo rendono “diaconessa” (CEI, VR). Ma le Scritture non prevedono servitori di ministero donne. Altri attribuiscono al termine significato generico e lo traducono “al servizio” (Ga). Comunque Paolo si riferiva evidentemente a qualche cosa che aveva a che fare con la divulgazione della buona notizia, il ministero cristiano, e parlava di Febe come di una donna ministro associata alla congregazione di Cencrea” (Perspicacia nello studio delle Scritture, Vol. 1, pag. 903). Si noti l’impossibilità mentale ad accettare che una donna sia diacono: “Questo induce a chiedersi in che senso sia usato qui il termine diàkonos (ministro)” (Ibidem). Si dà insomma per scontato che il termine debba avere – solo qui! – un senso diverso dall’usuale. È poi proprio vero che “le Scritture non prevedono servitori di ministero donne” (Ibidem)? I requisiti dei diaconi sono elencati da Paolo in 1Tm 3:1-13:

3 Questa dichiarazione è fedele. Se un uomo aspira all’incarico di sorvegliante, desidera un’opera eccellente. 2 Il sorvegliante deve perciò essere irreprensibile, marito di una sola moglie, di abitudini moderate, di mente sana, ordinato, ospitale, qualificato per insegnare, 3 non ebbro schiamazzatore, non percotitore, ma ragionevole, non bellicoso, non amante del denaro, 4 uomo che diriga la propria casa in maniera eccellente, avendo i figli in sottomissione con ogni serietà; 5 (se in realtà un uomo non sa dirigere la propria casa, come avrà cura della congregazione di Dio?) 6 non un uomo convertito di recente, affinché non si gonfi [d’orgoglio] e cada nel giudizio emesso contro il Diavolo. 7 Inoltre, deve anche avere un’eccellente testimonianza da quelli di fuori, affinché non cada nel biasimo e in un laccio del Diavolo.

8 I servitori di ministero devono similmente esser seri, non doppi di lingua, non dati a molto vino, non avidi di guadagno disonesto, 9 custodendo il sacro segreto della fede con coscienza pura.

10 E questi siano prima provati in quanto all’idoneità, quindi servano come ministri, secondo che siano liberi da accusa.

11 Le donne devono similmente esser serie, non calunniatrici, di abitudini moderate, fedeli in ogni cosa.

12 I servitori di ministero siano mariti di una sola moglie, dirigendo in maniera eccellente i figli e le proprie case. 13 Poiché gli uomini che servono in maniera eccellente si acquistano una posizione eccellente e grande libertà di parola nella fede riguardo a Cristo Gesù”. – 1Tm 3:1-13, TNM.

   Si noti attentamente il v. 11: “Le donne devono similmente …”. Similmente a chi? Ai diaconi maschi di cui Paolo ha appena parlato. E non si pensi che Paolo abbia terminato di parlare dei diaconi maschi e ora rivolga un pensiero alle donne, perche al v. 12 continua a parlare dei diaconi. Paolo include perciò anche le donne nel diaconato. Nella traduzione della Watchtower c’è anche un tentativo di confondere le acque, perché al v. 13 essa traduce “gli uomini che servono”, contro il testo biblico originale che ha invece “i bene aventi servito”, espressione che non può escludere le donne che Paolo ha inserito poco prima. Se poi Rm fosse anteriore a Flp, Febe sarebbe la prima persona nella storia della chiesa a essere chiamata diacono. Cosa curiosa, per Watchtower Rm (da loro datata all’anno 56 circa) è davvero anteriore a Flp (da loro datata all’anno 60-61)!

   Ora si noti che Paolo raccomanda ai fratelli romani, riguardo a Febe, che le si presti “assistenza in qualunque cosa ella possa aver bisogno” (Rm 16:2). Non si tratta di semplice cortesia, perché non ci si esprime così nei riguardi di una persona qualsiasi, fosse anche un sorella in visita. Il verbo greco impiegato ci aiuta a capire meglio la raccomandazione paolina. L’apostolo delle genti dice: παραστῆτε (parastète). Si tratta del verbo greco παρίστημι (parìstemi) che indica il mettersi a disposizione per essere d’aiuto. Ciò indica anche che Febe non andava a Roma per fare una vacanza o perché vi era di passaggio. Il fatto che Paolo specifica che lei deve essere ricevuta “nel Signore” (Rm 16:2) può ben indicare il motivo seriamente spirituale della sua visita.

   Dopo aver detto la qualifica della donna, ovvero che lei è una diaconessa, Paolo informa i destinatari dei motivi per cui Febe deve essere accolta “nel Signore” e per i quali devono mettersi a sua disposizione: “Poiché ella pure ha prestato assistenza a molti e anche a me”. – Rm 16:2.

   E qui facciamo una nuova scoperta. Dietro la traduzione “ella ha prestato assistenza” c’è la parola genuina che Paolo usa: προστάτις (prostàtis). Questo vocabolo femminile indica “una donna con incarichi di comando” (Vocabolario del Nuovo Testamento). Siccome questa parola greca può indicare anche, come secondo significato, “un guardiano femminile, protettrice, patronessa, che si cura delle cose altrui ed li aiuta con le sue risorse” (Ibidem), alcuni studiosi che hanno evidentemente difficoltà ad ammette che nella chiesa ci fossero donne autorevoli, asseriscono che Febe fosse solo una donna che si dedicava all’ospitalità. Contro questa ipotesi molto riduttiva abbiamo il termine omologo alla forma maschile: προστάτης (prostàtes), che indica un capo, un presidente (cfr. Vocabolario Greco Italiano Rocci). I due termini derivano dal verbo greco προΐστημι (proìstemi), “essere sopra, soprintendere, presiedere”. – Vocabolario del Nuovo Testamento.

   Febe, diaconessa, era dunque una donna in prima fila nella chiesa. A lei Paolo dedica una presentazione ricca di dettagli, che non avrebbero ragion d’essere se si trattasse di una semplice credente di passaggio a Roma.

   Di nuovo occorre domandarsi se è possibile immaginare che Paolo avrebbe rivolto a Febe il comando dubbio che le donne debbano tacere in piena sottomissione.

 

 

Giunia

   “Salutate Andronico e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia, i quali si sono segnalati fra gli apostoli ed erano in Cristo già prima di me”. – Rm 16:7.

   Quello di Giunia è un caso interessante. Si legge in un’opera religiosa alla voce “Giunia”: “Cristiano a cui Paolo invia speciali saluti nella lettera ai Romani (16:7)”. – Perspicacia nello studio delle Scritture. Vol. 1, pag. 1168.

   Il nome greco Ἰουνιᾶς (Iuniàs), che significa “giovanile”, è di origine romana. C’è stata e c’è tuttora controversia su questo nome: è maschile o femminile? Per la verità, questo nome era un nome proprio femminile latino molto comune. È ormai accertato come il nome “Giunia” sia stato pregiudizialmente inteso come nome maschile soltanto dall’anno 1298 circa dal Cattolicesimo al tempo di papa Bonifacio VIII (Benedetto Caetani, 1230-1303), famoso anche per la fondazione dell’Università La Sapienza di Roma e la costruzione dei duomi di Orvieto e di Perugia, oltre che per essere stato un personaggio cinico e dispotico, gran peccatore, avido di ricchezze e di potere. Dante lo collocò nell’Inferno, riservandogli un posto nella Bolgia dei Simoniaci (cfr. Paoli, Codex Paulinus). Bonifacio VIII emise un decreto per arginare l’attività religiosa delle suore relegandole a conventi di clausura; lo scopo fu quello di limitare il potere e l’influenza delle donne nella chiesa (Periculoso, De statu Monachorumin sexto; cfr. il cap. 5 della sessione 25, De Regularibus et Monialibus, del Concilio di Trento). Fu proprio durante questo periodo che venne sostenuto che il nome Iuniàs fosse maschile. Si noti, infatti, che il passo biblico sembra includere Giunia tra gli apostoli: “I quali [Andronico e Giunia] si sono segnalati fra gli apostoli” (Rm 16:7). Lo scopo di questo papa era quello di impedire che una donna venisse identificata come apostolo. L’ipotetico nome maschile Iuniàs non è attestato da alcuna iscrizione antica, mai. Però ricorre più di 250 volte come nome di donna, più di 250 volte soltanto fra le iscrizioni dell’antica Roma. Il Crisostomo (354?-407) scrive: “Quanto grande è la devozione di questa donna che essa sia reputata degna dell’appellativo di ‘apostolo” (Omelia su Rm 16, in Philip Schaff, Fathers of the Christian Church, vol. II, A Select Library of the Nicene and Post-Nicene, B. Eerdmans Pub. Co., 1956, pag. 555). Almeno altri 17 cosiddetti padri latini della Chiesa sostengono che si tratti di una donna (Daniel B. Wallace, Junia Among the Apostles: The Double Identification Problem in Romans 16:7). Origène (185?-253) considera Giunia una donna (Epistolam ad Romanos Commentariorum 10, 23, 29). Così pure Girolamo, il traduttore della Vulgata latina. – Liver Interpretationis Hebraicorum Nominum 72, 15, 340-419.

   In quanto all’essere Giunia “fra gli apostoli” (Rm 16:7), occorre come sempre riferirsi alla Bibbia e non alle traduzioni. Il testo ispirato dice: οἵτινές εἰσιν ἐπίσημοι ἐν τοῖς ἀποστόλοις (òitinès eisin epìsemoi en tòis apostòlois), “i quali sono insigni tra gli inviati [apostoli]”. L’aggettivo greco ἐπίσημος (epìsemos) significa “illustre/notorio”. La costruzione ἐν τοῖς ἀποστόλοις (en tòis apostòlois), letteralmente: “negli apostoli”, indica che i due erano ben noti agli apostoli. Si noti la costruzione greca diversa nel passo di Lc 22:37, riferito a Yeshùa, in cui si dice che “è stato contato tra i malfattori”: μετὰ ἀνόμων (metà anòmon), “fra i malfattori”. Si noti, a comprova del fatto che i due erano ben noti fra gli apostoli, che Paolo dice che loro ‘erano in Cristo già prima di lui’. – Rm 16:7.

   In ogni caso, il fatto che Giunia fosse nota agli apostoli già da tempi memorabili, fa di lei una donna importante nella chiesa.

 

 

Le donne che si affaticano nel Signore

 

   Sempre nella sua lettera ai romani, Paolo menziona in Rm 16:6 “Maria, che si è molto affaticata per voi” e in Rm 16:12 “Trifena e Trifosa, che si affaticano nel Signore … la cara Perside che si è affaticata molto nel Signore”.

   Con grande sensibilità verso il gentil sesso, Paolo non si dimentica di salutare per nome quattro donne – Maria, Trifena, Trifosa e Perside – di cui tesse le lodi ricordando il loro duplice impegno:

  • Ecclesiale: “Si è molto affaticata per voi”;
  • Cristologico: “Si affaticano nel Signore”.

   Come può essere compreso il faticare di queste donne? Ovviamente in senso spirituale. L’analisi del testo originale aiuta sempre a cogliere delle sfumature che spesso vanno perse nelle traduzioni. Paolo dice di Maria che lei ἐκοπίασεν (ekopìasen); anche di Persiche dice che lei ekopìasen (ἐκοπίασεν); Trifena e Trifosa le definisce κοπιώσας (kopiòsas). Abbiamo a che fare con il verbo greco κοπιάω (kopiào) che indica lo sfinirsi per un lavoro faticoso. È lo stesso verbo che Paolo usa per la famiglia di Stefana: “Fratelli, voi conoscete la famiglia di Stefana, sapete che è la primizia dell’Acaia, e che si è dedicata al servizio dei fratelli; vi esorto a sottomettervi anche voi a tali persone, e a chiunque lavora e fatica [κοπιῶντι (kopiònti)] nell’opera comune” (1Cor 16:15,16). Paolo usa questo verbo anche per il proprio lavoro di apostolo: “Io sono il minimo degli apostoli, e non sono degno di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio. Ma per la grazia di Dio io sono quello che sono; e la grazia sua verso di me non è stata vana; anzi, ho faticato [ἐκοπίασα (ekopìasa)] più di tutti loro; non io però, ma la grazia di Dio che è con me”. – 1Cor 15:9,10.

   Nel linguaggio paolino “faticare” a favore di una comunità di credenti o “nel Signore” significa prendersi cura dei credenti. Non c’è quindi dubbio che pure le fatiche di quelle quattro donne avevano a che fare con il lavoro ecclesiale. Non ci sarebbe da stupirsi se ciò comportasse anche la guida della comunità, cosa di cui non possiamo essere certi ma che non porrebbe problemi. Certamente non a Paolo! In più va notato che nella lettera ai romani Paolo non fa riferimento ad alcun uomo che si affatica nel Signore. È solamente la componente femminile che – lo dice Paolo a chiare lettere – si affatica nel Signore.

   Non suscita quindi stupore, per chi conosce davvero la Scrittura, la dichiarazione dello studioso P. Ketter: “[Il cap. 16 di Rm è] la più onorifica dichiarazione a favore dell’apostolato della donna nella Chiesa primitiva”. – P. Ketter, Theologisch-praktische Quartalschrift 88, 1935, 49.