Camutal (חֲמוּטַל, Khamutàl, “suocero di rugiada”)
“Camutal, figlia di Geremia”. – 2Re 23:31.
Questa donna era figlia di Geremia, ma non del profeta; era “figlia di Geremia da Libna” (2Re 23:31), una città sacerdotale. Fu la moglie del re Giosia e madre di Ioacaz e Sedechia, tutti e due re di Giuda. – 2Re 23:30,31;24:17,18; Ger 52:1.
Candace (Κανδάκη, Kandàke, “regina”)
“Egli [Filippo] si alzò e partì. Ed ecco un etiope, eunuco e ministro di Candace, regina di Etiopia”. –
Iniziamo con l’Etiopia. Si noti Gn 2:13: “Il paese di Cus”. In ebraico “Cus” è כּוּשׁ (Kush). La LXX greca traduce questo termine ebraico con Αἰθιοπία (Aithiopìa), “Etiopia”. La LXX rende sempre con “Etiopia” l’ebraico “Cus”, eccezion fatta per Ez 30:5. Questa traduzione della LXX ha complicato le cose e portato alla conclusione fuorviante che Kush dovrebbe essere equiparata all’odierna Etiopia.
Il Regno di Cus era un antico stato africano nella regione che è ora la Repubblica del Sudan. Era una delle prime civiltà sviluppatesi nella valle del Nilo. Fu anche denominato Nubia ed Etiopia nell’antica civiltà greco-romana. L’antico Regno d’Etiopia non corrispondeva a ciò che è oggi l’Etiopia, ma alla Nubia (la parte meridionale dell’attuale Egitto e la parte settentrionale dell’attuale Sudan).
Gli stessi studi moderni sull’antico Egitto e sul Sudan spesso non riescono a fare alcuna distinzione tra cusiti e nubiani. Consapevolmente o no, la maggior parte di questi studi usano i termini Kush e Nubia indifferentemente quando si riferiscono ai popoli che vivevano nella parte meridionale dell’attuale Egitto e nella parte settentrionale dell’attuale Sudan. Questo è un travisamento d’identità e della storia di questi due grandi popoli che sono stati la spina dorsale delle culture e delle civiltà degli antichi Sudan ed Egitto.
Kush (כּוּשׁ) era il figlio maggiore di Cam, uno dei tre figli di Noè, e fu padre di Nimrod (Gn 10:1,6-8; 1Cron 1:8-10). Dai figli di Noè “uscirono le nazioni che si sparsero sulla terra dopo il diluvio” (Gn 10:32), per cui Cus (כּוּשׁ, Kush) è considerato come eponimo ed è usato nelle Scritture Ebraiche per indicare i suoi discendenti e le regioni che essi abitarono. Da Gn 10:6 apprendiamo che “i figli di Cus furono: Seba, Avila, Sabta, Raama e Sabteca” (oltre a Nimrod menzionato in Gn 10:8). Questi nomi sono identificati dagli studiosi moderni con tribù arabe.
Giuseppe Flavio rende conto della popolazione di Cus, figlio di Cam e nipote di Noè: “Cus regnò sugli etiopi, che esistono fino ad oggi, chiamati da tutti gli uomini in Asia cusiti”. – Antichità Giudaiche 1,6.
La domanda proverbiale e retorica: “Può un Cusita cambiare pelle?” (Ger 13:23), implica che i cusiti avessero una pelle nettamente diversa dalla pelle degli israeliti; oggi diremmo che erano persone di colore. Questo paese fu chiamato dai greci Meroe. Fu a lungo al centro dei rapporti commerciali tra l’Africa e sud dell’Asia, e fu famoso per la sua ricchezza. – Is 45:14.
I cusiti attribuivano un onore speciale alle loro regine perché credevano che queste donne fossero le mogli di un dio. Quando un loro re moriva, sua madre diventava regina madre e governava da sola. Ci fu una serie impressionante di regine guerriere della Nubia. Queste furono conosciute come kandàke (in greco: κανδάκη); furono conosciute nella storia come “regine nere kandàke di Nubia”. “Candace” era quindi un titolo, non un nome proprio. Esattamente come “faraone” era un tutolo e non un nome; così anche per “Cesare” e per “Tolomeo”.
La maggior parte degli studiosi vorrebbe respingere i resoconti di Erodoto, Strabone e Diodoro, che sono prove convincenti per sostenere l’esistenza di donne guerriere in Africa. Occorre però dire che questi scrittori antichi si sono dimostrati accurati e che le loro descrizioni sono risultate esatte. Le loro asserzioni sono verificabili. Col passare del tempo le prove a sostegno di una tradizione di donne guerriere africane crescono e sono ormai convincenti. Strabone, Plinio il Vecchio ed Eusebio usarono il titolo “candace” riferito alle regine di Nubia. “La città [Meroe, capitale dell’antica Etiopia] ha pochi edifici. Dicevano che vi regnava una donna nominata Candace, nome che si era tramandato per molti anni a quelle regine”. – Plinio il Vecchio, Naturalis Historia VI, XXXV, 186.
La Nubia non entrò mai a far parte dell’Impero Romano, anche se i romani ci provarono. Lo stesso Alessandro il Grande, quando si trovò di fronte l’esercito di una regina nera, si fermò. Dopo aver studiato la tattica militare che questa donna stava mettendo in campo con una strategia micidiale, si rese conto che cercare di contrastarla gli sarebbe stato fatale. Portò quindi le sue armate lontane dalla Nubia e si rivolse contro l’Egitto. L’intelligenza di questa “candace” superò l’astuzia del grande conquistatore macedone. Sebbene alquanto singolare, la sovranità femminile sembra proprio aver prevalso in Etiopia.
È più che probabile che l’ebraismo avesse messo radici in Etiopia. A Cus si erano stabiliti diversi ebrei esiliati dopo la conquista di Giuda da parte dei babilonesi (Is 11:11). Quindi la visita del tesoriere della regina nera Candace a Gerusalemme per celebrare una festa ebraica, si piega. Di certo era un proselito ebreo circonciso (At 8:27-39). Si noti che la Bibbia dice che lui “era venuto a Gerusalemme per adorare” (At 8:27). Quando Filippo lo incontrò, quest’uomo stava rientrando in patria dopo essere stato a Gerusalemme, “seduto sul suo carro, leggendo il profeta Isaia” (At 8:28). Con tutta probabilità, leggeva dalla LXX greca, la traduzione in greco fatta dal Tanàch (la Bibbia ebraica) ad Alessandria d’Egitto. Che sapesse leggere il greco non fa meraviglia: il regno etiopico era stato ellenizzato sin dai tempi di Tolomeo II (308-246 a. E. V.). Tra l’altro, Sl 68:31 (v. 32, nel testo ebraico) aveva profetizzato: “L’Etiopia [כּוּשׁ (Kush)] s’affretterà a tender le mani verso Dio”.
Questo etiope o cusita è definito “eunuco e ministro di Candace” (At 8:27). Il termine “eunuco” va capito. Si presti attenzione a Dt 23:1: “L’eunuco, a cui sono stati infranti o mutilati i genitali, non entrerà nell’assemblea del Signore”. Ora, però, è detto che questo “eunuco” era stato ad adorare a Gerusalemme. Come eunuco vero e proprio gli sarebbe stato vietato entrare nel Tempio. Come si spiega? Si spiega col fatto che non era un eunuco in senso fisico. La parola greca usata è εὐνοῦχος (eunùchos) e designa sì “un uomo evirato”, tuttavia, va ricordato che gli agiografi delle Scritture Greche – tutti ebrei – scrivevano sì in greco, ma pensavano in ebraico. Occorre quindi riferirsi alla parola ebraica che sta dietro ad εὐνοῦχος (eunùchos), “eunuco”. Questa parola è סָרִיס (sarìs). Può significare eunuco nel senso comune, ma può anche significare “alto funzionario”, come in 2Re 18:17: “Il re d’Assiria, da Lachis, mandò a Ezechia, a Gerusalemme, il generale in capo, il capo delle guardie [רַב־סָרִיס (rav-sarìs)] e il gran coppiere”. Qui, TNM scambia רַב־סָרִיס (rav-sarìs), “grande eunuco”, per nome proprio: “Rabsaris”, salvo precisare nella nota in calce: “O, ‘il capo funzionario di corte’”. Anche in Gn 39:1 troviamo lo stesso significato di “alto funzionario”: “Potifar, ufficiale [סָרִיס (sarìs)] del faraone, capitano delle guardie”; qui TNM ha “funzionario della corte”. Questo significato particolare di “eunuco” è riferibile all’etiope in questione, che è detto anche “ministro di Candace” e “sovrintendente a tutti i tesori di lei”. – At 8:27.
C’è una tradizione secondo cui questa Candace, di cui era alto funzionario il proselito ebreo che accettò il messaggio di Filippo, si sarebbe alla fine convertita proprio grazie al suo tesoriere. Candace sarebbe divenuta poi ambasciatrice della fede nel suo regno. Ovviamente, è solo leggenda.
Cantanti (מְשֹׁרְרֹות, meshoreròt, “cantatrici”)
“La comunità nel suo insieme contava quarantaduemilatrecentosessanta persone, senza contare i loro servi e le loro serve, che ammontavano a settemilatrecentotrentasette. Avevano anche duecento cantanti, maschi e femmine”. – Esd 2:64,65.
Ci furono 42.360 giudei che tornarono dall’esilio, compresi i funzionari. I cantanti erano segno di dignità e grandezza. A seguito del decreto del re persiano Ciro II, i prigionieri giudei – esuli in Babilonia – poterono tornare a Gerusalemme per riedificare il Tempio (2Cron 36:20,21; Esd 1:1-4). 42.360 persone (oltre a 7.337 schiavi e schiave, cantatori e cantatrici) partirono per il lungo viaggio del rientro. Un commento della Bibbia tradotta dal rabbino americano I. Leeser (6a edizione) calcola un totale di 200.000 persone, includendo donne e bambini.
“I sacerdoti, i Leviti, la gente del popolo, i cantori, i portinai, i Netinei, si stabilirono nelle loro città; e tutti gli Israeliti, nelle rispettive città” (Esd 2:70). Nei raggruppamenti qui indicati, con i sacerdoti e i leviti non c’era tutta “la gente del popolo”, come NR lascia intendere, ma מִנ־הָעָם (min-haàm), “[gente] dal popolo”, ovvero “alcuni del popolo” (TNM). Si noti il possibile raggruppamento: sacerdoti, leviti, alcuni del popolo, cantori, portinai; sembra trattarsi di persone addette al Tempio (cfr. v. 24), tra cui i cantori.
“Alcuni dei figli d’Israele e alcuni dei sacerdoti, dei Leviti, dei cantori, dei portinai e dei Netinei salirono anche loro con lui a Gerusalemme, il settimo anno del re Artaserse. Esdra giunse a Gerusalemme il quinto mese, nel settimo anno del re”. – Esd 7:7,8.
Le cantanti destinate al servizio nel Tempio erano esenti da imposte: Ezra “Vi facciamo inoltre sapere che non si possono esigere tributi o imposte o pedaggi da nessuno dei sacerdoti, dei Leviti, dei cantori, dei portinai, dei Netinei e dei servi di questa casa di Dio”. – Esd 7:24.
“Accumulai argento, oro, e le ricchezze dei re e delle province; mi procurai dei cantanti e delle cantanti e ciò che fa la delizia dei figli degli uomini, cioè donne in gran numero” (Ec 2:8). Il Qohèlet ebbe alla sua corte dei cantanti: avendo cantanti (maschi e femmine) poté vantarsi della sua ricchezza.
“Geremia compose un lamento su Giosia; e tutti i cantori e tutte le cantanti hanno parlato di Giosia nei loro lamenti fino a oggi, tanto da diventarne un’usanza in Israele. Essi si trovano scritti tra i Lamenti”. – 2Cron 35:25.
Cassia (קְצִיעָה, Qetsyàh, “cassia”)
“[Giobbe] ebbe pure sette figli e tre figlie; e chiamò la prima, Colomba; la seconda, Cassia; la terza, Cornustibia. In tutto il paese non c’erano donne così belle come le figlie di Giobbe; e il padre assegnò loro un’eredità tra i loro fratelli. Giobbe, dopo questo, visse centoquarant’anni e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione”. – Gb 42:13-16.
Cassia era una delle tre figlie di Giobbe e fu una delle donne più belle del paese. Cosa insolita per l’epoca, le fu data un’eredità come ai suoi fratelli.
Stranamente, il nome viene tradotto da NR. I nomi non dovrebbero essere mai tradotti. La cassia è un fiore. Forse le fu dato questo nome per la sua eccezionale bellezza.
Chefsiba (חֶפְצִי־בָהּ, Kheftsy-vàh, “mia gioia in lei”)
“Manasse aveva dodici anni quando cominciò a regnare, e regnò cinquantacinque anni a Gerusalemme. Sua madre si chiamava Chefsiba”. – 2Re 21:1.
Questa donna era la moglie del re Ezechia, sovrano del Regno di Giuda, cui successe sul trono il loro figlio Manasse. – 2Re 20:21; 21:1; 2Cron 32:33.
“Chefsiba” – che significa “la mia gioia [è] il lei” – era anche il nome simbolico di Sion:
“Per amor di Sion io non tacerò,
per amor di Gerusalemme io non mi darò posa,
finché la sua giustizia non spunti come l’aurora,
la sua salvezza come una fiaccola fiammeggiante.
Allora le nazioni vedranno la tua giustizia,
tutti i re la tua gloria;
sarai chiamata con un nome nuovo,
che la bocca del Signore pronuncerà;
sarai una splendida corona in mano al Signore,
un turbante regale nel palmo del tuo Dio.
Non sarai chiamata più Abbandonata,
la tua terra non sarà più detta Desolazione,
ma tu sarai chiamata La mia delizia è in lei [חֶפְצִי־בָהּ (kheftsy-vàh)],
e la tua terra Maritata;
poiché il Signore si compiacerà in te,
la tua terra avrà uno sposo”. – Is 62:1-4.
Sion era la fortezza gebusea chiamata poi “città di Davide” (1Re 8:1; 1Cron 11:5), dove il re Davide stabilì la sua residenza reale (2Sam 5:6,7,9). Dio chiama Sion suo monte santo (Sl 2:6). Successivamente, a Sion fu unita l’area del monte Moria su cui fu eretto il Tempio, e venne così ad indicare l’intera città di Gerusalemme (Cfr. Is 1:8;8:18). Dato che in Sion, nel Tempio, era custodita l’Arca rappresentante la presenza di Dio (Es 25:22; Lv 16:2) e dato che Sion era simbolo di realtà spirituali, questa cittadella era considerata la dimora di Dio. – Sl 9:11;74:2;76:2;78:68;132:13,14;135:21.
Chelea (חֶלְאָה, Khelàh, “ruggine”)
“Asur, padre di Tecoa, ebbe due mogli: Chelea e Naara”. – 1Cron 4:5.
Questa donna fu una delle due mogli di Asur, della tribù di Giuda e suo pronipote (1Cron 2:4,5,24), dal quale ebbe tre figli, elencati nelle genealogie di Giuda: “I figli di Chelea: furono Seret, Iesocar ed Etnan”. – 1Cron 4:1,5,7.
Chetura (קְטוּרָה, Qeturàh, “incenso”)
“Abraamo prese un’altra moglie, di nome Chetura. Questa gli partorì Zimran, Iocsan, Medan, Madian, Isbac e Suac”. – Gn 25:1,2.
Abraamo la sposò probabilmente dopo la morte di Sara, sua precedente moglie (Gn 23:1,2;24:67;25:1). 1Cron 1:32 la chiama “concubina d’Abraamo”.
I sei figli di Chetura divennero gli antenati di vari popoli dell’Arabia settentrionale. – Gn 25:2,6; cfr. Gn 17:5.
Claudia (Κλαυδία, Klaudìa, “zoppa”)
“Ti salutano Eubulo, Pudente, Lino, Claudia e tutti i fratelli”. – 2Tm 4:21.
Una congettura vorrebbe vedere in lei una donna inglese, figlia del re Cogidunus, che era un alleato di Roma; avrebbe assunto il nome dell’imperatore Claudio, suo mecenate, e sarebbe stata moglie di Pudente. In verità, di lei sappiamo solo che era una credente di Roma, da cui Paolo scrisse la sua seconda lettera a Timoteo.
Cloe (Χλόη, Chlòe, “erba verde”)
“Mi è stato riferito da quelli di casa Cloe che tra di voi ci sono contese”. – 1Cor 11:1.
Nulla sappiamo di questa donna. Tramite la sua famiglia Paolo fu informato dei dissensi che c’erano nella chiesa di Corinto. Se poi abitasse lei stessa a Corinto non è detto. È comunque notevole che Paolo parli di “casa Cloe”, mettendo lei come riferimento.
Codes (חֹדֶשׁ, Khòdesh, “novilunio”)
“Da Codes sua moglie [Saaraim] ebbe: Iobab, Sibia, Mesa, Malcam, Ieus, Sochia e Mirma. Questi furono i suoi figli, capi di famiglie patriarcali”. – 1Cron 8:9,10.
Cogla (חָגְלָה, Khoglàh, “pernice”)
“Selofead, figlio di Chefer, non ebbe maschi ma soltanto delle figlie; e i nomi delle figlie di Selofead erano: Mala, Noa, Cogla, Milca e Tirsa”. – Nm 26:33.
Cogla era la terza delle cinque figlie di Selofead. Non essendoci figli maschi, l’eredità di Selofead fu divisa fra le cinque figlie. Unica condizione fu che dovevano sposarsi con uomini della loro stessa tribù (Manasse), cosicché l’eredità paterna non si disperdesse in altre tribù. – Nm 36:1-12;26:33;27:1-11; Gs 17:3,4.
Il cap. 26 di Nm narra del censimento, ordinato da Dio, della popolazione ebraica prima dell’ingresso nella Terra Promessa. Alla sua conclusione è detto: “Questi sono i figli d’Israele dei quali Mosè e il sacerdote Eleazar fecero il censimento nelle pianure di Moab presso il Giordano di fronte a Gerico. Fra questi non vi era alcuno di quei figli d’Israele dei quali Mosè e il sacerdote Aaronne avevano fatto il censimento nel deserto del Sinai. Poiché il Signore aveva detto di loro: Certo moriranno nel deserto!” (Nm 26:63-65). Si noti che nella popolazione censita “non vi era alcuno” della vecchia generazione che era stata disubbidiente nel deserto e a cui non era consentito d’entrare nella Terra Promessa (Nm 14:19; Eb 3:17). Selofead, padre delle cinque ragazze menzionate in Nm 26:33, era discendente di Manasse (Nm 26:29-33) ed era morto durante i 40 anni di peregrinazione nel deserto, ma “non stava in mezzo a coloro che si adunarono contro il Signore” (Nm 27:3). Queste cinque battagliere ragazze si resero conto che senza un fratello maschio che ereditasse, la loro famiglia non avrebbe ricevuto una porzione di terreno. “Allora si fecero avanti . . . esse si presentarono davanti a Mosè, davanti al sacerdote Eleazar, davanti ai capi e a tutta la comunità” per presentare il loro caso. – Nm 27:1,2.
Queste donne ebbero il coraggio di reclamare il loro diritto non solo davanti a Mosè, ma davanti a Dio stesso tramite il sacerdote. “Mosè portò la loro causa davanti al Signore. E il Signore disse a Mosè: ‘Le figlie di Selofead dicono bene. Sì, tu darai loro in eredità una proprietà’”. – Nm 27:5-7.
E non solo. La loro causa (vinta) divenne un precedente legale, tanto che Dio fece inserire delle deroghe nella sua Legge, così che fu “per i figli d’Israele una norma di diritto, come il Signore ha ordinato”. – Nm 27:8-11.
Colomba (יְמִימָה, Yemimàh, “colomba”)
“[Giobbe] ebbe pure sette figli e tre figlie; e chiamò la prima, Colomba; la seconda, Cassia; la terza, Cornustibia. In tutto il paese non c’erano donne così belle come le figlie di Giobbe; e il padre assegnò loro un’eredità tra i loro fratelli. Giobbe, dopo questo, visse centoquarant’anni e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione”. – Gb 42:13-16.
Colomba era una delle tre figlie di Giobbe e fu una delle donne più belle del paese. Cosa insolita per l’epoca, le fu data un’eredità come ai suoi fratelli.
Stranamente il nome viene tradotto da NR. I nomi non dovrebbero essere mai tradotti.
Compagna – definizione (ebraico: רַעְיַת, rayàt; greco: mancante; “compagna”)
Il termine “compagna” oggi si usa molto per indicare una donna con cui si convive senza essere sposati. Il termine può anche indicare un’amica o una collega. Questi significati sono presenti anche nella Bibbia.
In Cant 1:9, quando l’innamorato dice alla bella sulamita: “Amica mia”, l’ebraico ha רַעְיָתִי (rayìty), “mia compagna”. La parola ebraica רְעוּת (reùt) indica più una vicina che una compagna, come in Ger 9:20: “Ognuna insegni alla sua compagna dei canti funebri!”, dove sarebbe meglio tradurre “alla sua vicina (di casa)”.
La parola ebraica vera e propria per “compagna” sarebbe חֲבֶרֶת (khavèret), che è poi anche quella che si usa nell’ebraico moderno, diventata חברה (khaveràh), “compagna / amica / fidanzata”.
La parola greca μέτοχος (mètochos), “compagno / collega / condividente”, nella Bibbia non compare al femminile. Di certo però le donne sono incluse nella farse “fratelli santi, che siete partecipi [μέτοχοι (mètochoi)] della celeste vocazione”. – Eb 3:1.
In 1Cor 15:33 troviamo questa frase: “Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi” (che ha originato il proverbio italiano che recita: “Le cattive compagnie conducono l’uomo alla forca”). Ora, qui c’è una curiosità. Ciò che è tradotto “compagnie” è nel testo greco ὁμιλίαι (omilìai) che significa “conversazioni”; letteralmente il testo dice: “Conversazioni cattive corrompono buoni costumi”. Il verbo collegato a questa parola greca è ὁμιλέω (omilèo), “essere in compagnia di / associarsi con / stare con / conversare”, e lo troviamo – ad esempio – in At 20:11: “Dopo aver conversato [ὁμιλήσας (omilèsas)]” (TNM). Ora, questo verbo può significare non solo “stare in compagnia”, non solo “conversare”, ma anche lo stare in intimità tra coniugi. Tale verbo lo usa infatti la LXX greca nel tradurre Es 21:10: “Se prende un’altra moglie, non toglierà alla prima né il vitto, né il vestire, né la coabitazione”. Ciò che è reso da NR “coabitazione” è nella nota traduzione greca della Bibbia ὁμιλίαν (omilìan), reso da TNM “debito coniugale”.
Le discepole di Yeshùa, come i loro confratelli, evitano compagnie non buone: “Chi va con i saggi diventa saggio, ma il compagno degli insensati diventa cattivo” (Pr 13:20). Le donne che amano Yeshùa dovrebbero tener presente l’esempio di Dina (vedere la voce Dina): per aver cercato la compagnia di ragazze che non appartenevano al popolo di Dio, si mise nei guai e fu perfino violentata. – Gn 34:1,2.
Concubina – definizione (פִילֶגֶשׁ, pilèghesh, “concubina”)
Nella Bibbia la concubina era una donna unita ad un uomo in un rapporto di tipo coniugale ma con un ruolo inferiore a quello di una moglie. La concubina era una moglie di rango secondario. Non aveva autorità nella famiglia né poteva partecipare alla sua conduzione. C’erano limiti imposti alla sua posizione. – Gn 21:14;25:6.
Va detto subito che il disegno iniziale di Dio non prevedeva questa forma di poligamia, in realtà nessuna forma di poligamia. Il matrimonio tra uomo e donna doveva essere monogamo e indissolubile. – Gn 2:24; Mt 19:4-6.
Fu solo in seguito al peccato delle origini che si verificò la conseguenza che intaccava tale rapporto e che Dio annunciò alla donna: “I tuoi desideri si volgeranno verso tuo marito ed egli dominerà su di te”. – Gn 3:16.
La degenerazione aveva consolidato nel tempo l’abitudine al concubinato. Questo esisteva già prima che Dio donasse il suo Insegnamento (Toràh). L’umanità peccatrice era quello che era e, prendendone atto, la Legge regolò la situazione, proteggendo i diritti sia delle mogli che delle concubine (Es 21:7-11; Dt 21:14-17). La concubina non aveva ovviamente gli stessi diritti di una moglie; in più, un uomo poteva avere più mogli e più concubine (1Re 11:3; 2Cron 11:21). Un caso tipico era quello in cui una moglie sterile dava la sua serva come concubina la marito; il tal caso, il figlio nato dalla concubina era legalmente della moglie. – Gn 16:2;30:3;49:16-21; cfr. 30:3-12.
Da un’analisi biblica risulta che le concubine erano a livello delle schiave; se ne possono identificare quattro categorie: 1. Quelle vendute schiave dal padre (Es 21:7-9); 2. Donne straniere comprate come schiave (1Re 11:1); 3. Donne straniere prigioniere di guerra (Dt 21:10-14); 4. Schiave della moglie (Gn 16:3,4;30:3-13; Gdc 8:31;9:18). Le concubine di un re passavano di diritto al nuovo re (si veda in 2Sam 16:21,22 il caso di Absalom che, cercando di usurpare il trono di suo padre Davide, ebbe rapporti sessuali con le sue dieci concubine).
Occorreva attendere Yeshùa perché fosse ristabilita la norma originale divina ovvero la monogamia. – Mt 19:5,6; 1Cor 7:2; 1Tm 3:2.
Concubina di Gedeone (פִילַגְשֹׁו, piylaghshò, “concubina di lui”)
“Gedeone ebbe settanta figli, che gli nacquero dalle sue molte mogli. La sua concubina, che stava a Sichem, gli partorì anche lei un figlio, al quale pose nome Abimelec”. – Gdc 8:30,31.
Concubina di un levita (פִילֶ֔גֶשׁ, pylèghesh, “concubina”)
“In quel tempo non c’era re in Israele. Un Levita, il quale abitava nella parte più lontana della regione montuosa di Efraim, si prese per concubina una donna di Betlemme di Giuda. Questa sua concubina gli fu infedele e lo lasciò per andarsene a casa di suo padre a Betlemme di Giuda, dove stette per un periodo di quattro mesi”. – Gdc 19:1,2.
In Gdc 19 abbiamo uno dei resoconti più inquietanti della Bibbia. Spesso si sente dire da maschilisti poco informati che la Bibbia non condanna il patriarcato e il maltrattamento delle donne povere, ma la verità è che i giudici ebrei applicarono una condanna. Sebbene non espressamente indicata, l’eco della condanna è nelle immagini che l’autore ispirato evoca e nelle domande che l’autore solleva, tanto che alcuni studiosi ritengono che la preoccupazione per le donne mostrata in Giudici rifletta la mano di una donna che ne sarebbe stata l’autrice.
Il passo di Gdc 19:1,2 solleva domande sui tipi di matrimonio praticati nell’antica Israele. Dio aveva decretato che un uomo avrebbe lasciato la sua famiglia e si sarebbe unito a sua moglie (Gn 2:24), ma, come sappiamo, in genere ciò non accadde. Tuttavia, la parola tradotta “concubina” qui può riflettere proprio il tipo di matrimonio come doveva essere (ma come non fu). L’uomo infatti non appare sposato: viaggia da solo. E la traduzione “risiedeva temporaneamente” fatta da TNM è arbitraria; l’ebraico ha לֵוִי גָּר (levì gar), “un levita residente”. Comunque, la donna si sentì più a proprio agio tornando a casa dal padre, quando lei si arrabbiò con il marito.
“Suo marito si mosse e andò da lei per parlare al suo cuore e ricondurla con sé. Egli aveva preso con sé il suo servo e due asini. Lei lo condusse in casa di suo padre; e come il padre della giovane lo vide, gli si fece incontro festosamente. Suo suocero, il padre della giovane, lo trattenne ed egli rimase con lui tre giorni; mangiarono, bevvero e pernottarono là. Il quarto giorno si alzarono di buon’ora e il Levita si disponeva a partire; il padre della giovane disse a suo genero: ‘Prendi un boccone di pane per fortificarti il cuore; poi ve ne andrete’. Si sedettero ambedue, mangiarono e bevvero insieme. Poi il padre della giovane disse al marito: ‘Ti prego, acconsenti a passare qui la notte e il tuo cuore si rallegri’. Ma quell’uomo si alzò per andarsene; nondimeno, per l’insistenza del suocero, pernottò di nuovo là. Il quinto giorno egli si alzò di buon’ora per andarsene; e il padre della giovane gli disse: ‘Ti prego, fortificati il cuore e aspettate finché declini il giorno’. Si misero a mangiare insieme. Quando quell’uomo si alzò per andarsene con la sua concubina e con il suo servo, il suocero, il padre della giovane, gli disse: ‘Ecco, il giorno volge ora a sera; ti prego, trattieniti qui questa notte; vedi, il giorno sta per finire; pernotta qui e il tuo cuore si rallegri; domani vi metterete di buon’ora in cammino e te ne andrai a casa’”. – Gdc 19:3-9.
La Bibbia non spiega perché il padre della donna insistesse tanto per trattenere il marito di sua figlia. Considerato il fatto che la donna, scontenta, era tornata alla casa paterna e considerato il seguito del racconto (da cui appare la grettezza del marito), possiamo ipotizzare che quest’uomo cercasse di difendere la figlia tenendola al sicuro in casa sua. In ogni caso, il levita decide di non rimanere e riparte con la sua concubina.
“Il marito non volle passarvi la notte; si alzò, partì, e giunse di fronte a Gebus, che è Gerusalemme, con i suoi due asini sellati e con la sua concubina. Quando furono vicini a Gebus, era quasi notte; il servo disse al suo padrone: ‘Vieni, ti prego, dirigiamo il cammino verso questa città dei Gebusei e passiamoci la notte’. Il padrone gli rispose: ‘No, non dirigeremo il cammino verso una città di stranieri i cui abitanti non sono figli d’Israele, ma andremo fino a Ghibea’. Disse ancora al suo servo: ‘Andiamo, cerchiamo d’arrivare a uno di quei luoghi e pernotteremo a Ghibea o a Rama’. Così passarono oltre e continuarono il viaggio; e il sole tramontò quando erano presso Ghibea, che appartiene a Beniamino. Volsero il cammino in quella direzione, per andare a pernottare a Ghibea. Il Levita andò e si fermò sulla piazza della città; ma nessuno li accolse in casa per la notte. Quando ecco un vecchio, che tornava la sera dai campi, dal suo lavoro; era un uomo della regione montuosa d’Efraim, che abitava come forestiero a Ghibea, in mezzo ai Beniaminiti. Il vecchio alzò gli occhi, vide quel viandante sulla piazza della città e gli disse: ‘Dove vai, e da dove vieni?’ Quello gli rispose: ‘Siamo partiti da Betlemme di Giuda e andiamo nella parte più remota della zona montuosa d’Efraim. Io sono di là ed ero andato a Betlemme di Giuda; ora sto andando alla casa del Signore, ma nessuno mi accoglie in casa sua. Eppure abbiamo paglia e foraggio per i nostri asini e anche pane e vino per me, per la tua serva e per il giovane che è con i tuoi servi; a noi non manca nulla’. Il vecchio gli disse: ‘La pace sia con te! Mi incarico io di ogni tuo bisogno; ma non devi passare la notte sulla piazza’. Così lo condusse in casa sua e diede del foraggio agli asini; i viandanti si lavarono i piedi, mangiarono e bevvero. Mentre stavano rallegrandosi, ecco gli uomini della città, gente perversa, circondarono la casa, picchiarono alla porta e dissero al vecchio, al padrone di casa: ‘Fa’ uscire quell’uomo che è entrato in casa tua, perché vogliamo abusare di lui!’”. – Gdc 19:10-22.
Quel levita aveva rifiutato di fermarsi a Gebus, la futura Gerusalemme, perché la gente non era israelita. Invece insistette per viaggiare verso Betlemme, dove il suo popolo viveva. Quando lui e la sua consorte fanno una sosta, si trovano di fronte degli uomini che vogliono far sesso.
“Ma il padrone di casa, uscito fuori, disse loro: ‘No, fratelli miei, vi prego, non fate una cattiva azione; dal momento che quest’uomo è venuto in casa mia, non commettete quest’infamia! Ecco qua mia figlia che è vergine, e la concubina di quell’uomo; io ve le condurrò fuori e voi abusatene e fatene quel che vi piacerà; ma non commettete contro quell’uomo una simile infamia!’” (Gdc 19:23,24). A questo punto l’indignazione che avevamo per quegli uomini depravati svanisce di fronte all’indignazione che monta per il vecchio. Eppure, molti autori hanno difeso l’approccio di quest’uomo, dicendo che i doveri di ospitalità chiedevano di proteggere il visitatore. Questa logica ha tre grossi difetti. In primo luogo, non esiste proprio alcuna prova che tali norme così rigide riguardo all’ospitalità esistessero in quella società. In secondo luogo, anche se tali norme fossero esistite, uno degli ospiti che avrebbe dovuto godere di tali presunte rigide regole dell’ospitalità era proprio la moglie del levita: lei, tanto quanto il marito, era ospite sotto il tetto di quell’uomo. In terzo luogo, la Legge proibiva specificamente che un uomo offrisse la figlia perché se ne abusasse (Lv 19:29). In parole povere, nulla si trova nella Bibbia che renda accettabile che quell’uomo offrisse sua figlia e la concubina del levita; troviamo invece il divieto di farlo (Es 22:16,17; Lv 19:29; Dt 22:28, 29). Solo perché la Bibbia riporta onestamente e crudamente il fatto, non possiamo concludere che ciò avesse il beneplacito divino. Come potrebbe essere? Le azioni di quell’uomo violarono le leggi di Dio e il pensiero stesso di Dio. Invece di proteggere i più deboli, come Dio richiede, quell’uomo li offrì ai lupi.
“Ma quegli uomini non vollero dargli ascolto. Allora l’uomo prese la sua concubina e la condusse fuori da loro; ed essi la presero, abusarono di lei tutta la notte fino al mattino; poi, allo spuntar dell’alba, la lasciarono andare” (Gdc 19:25). Ancora una volta, molti commentatori giustificano incredibilmente quest’azione, sostenendo che un levita (quindi della classe sacerdotale) doveva rimanere puro. Questa giustificazione è semplicemente assurda in modo vergognoso. Nulla, ma proprio nulla, nella Legge suggerisce che un levita dovesse sacrificare la vita di un altro figlio o figlia di Dio per proteggere la sua purezza rituale. Infine, il comportamento successivo del levita conferma che non agiva secondo il pensiero di Dio. Quella donna fu spinta fuori dalla porta e consegnata nelle mani della banda che la violentò ripetutamente. Le sue urla di dolore e di terrore dovettero di certo giungere, per tutta la notte, al marito che, solo pochi giorni prima aveva parlato teneramente “al suo cuore”.
“Quella donna, sul far del giorno, venne a cadere alla porta di casa dell’uomo presso il quale stava suo marito e rimase lì finché fu giorno chiaro” (Gdc 19:26). Dopo che quelle bestie di uomini avevano finito con lei, la poveretta cade davanti alla porta di casa, esausta, forse svenuta. Vi rimase, sola nel buio, fino all’alba.
“Suo marito, la mattina, si alzò, aprì la porta di casa e uscì per continuare il suo viaggio, quand’ecco la donna, la sua concubina, giaceva distesa alla porta di casa, con le mani sulla soglia. Egli le disse: ‘Àlzati, andiamocene!’ Ma non ebbe risposta. Allora il marito la caricò sull’asino e partì per tornare a casa sua” (Gdc 19:27,28). Questo grand’uomo si alza al mattino come se niente fosse e, come se niente fosse, esce “per continuare il suo viaggio”. Ci tocca il cuore la sensibilità dell’agiografo (o agiografa?) che in tanto squallore punta l’attenzione su un particolare che, muto, dice tutto l’inesprimibile: “La sua concubina, giaceva distesa alla porta di casa, con le mani sulla soglia”. Mani di donna tese vanamente a cercare un aiuto. Indifferente a quello strazio, quel piccolo uomo (chiamarlo bestia sarebbe un’offesa agli animali), che la sera prima, vigliaccamente, “prese la sua concubina e la condusse fuori da loro”, ora sa solo dare un brusco comando: “Àlzati, andiamocene!” Invece di cercare di curare le sue ferite o di darle conforto, cercando di riparare l’irreparabile, sa solo limitarsi a caricarla sul suo asino come un bagaglio e tornarsene a casa.
“Quando giunse a casa, si munì di un coltello, prese la sua concubina e la divise, membro per membro, in dodici pezzi, che mandò per tutto il territorio d’Israele” (Gdc 19:29). Il lettore attento si rende conto che nel racconto manca un passaggio. Quando e dove si dice che questa donna era morta? Morì da sola, nel buio della sua mente? O forse morì mentre era trasportata come un qualsiasi carico in groppa all’asino? O, peggio, fu il marito ad ucciderla quando “si munì di un coltello”? La Bibbia non rispondere a queste domande. Molte volte citiamo la Bibbia per richiamare belle storie sul matrimonio, ma anche nella Bibbia il matrimonio non è sempre una fantastica storia da libro illustrato. Persone crudeli ed egoiste ne esistono, soprattutto uomini. La Bibbia ci dice tutto l’amore di Dio e la sua sollecitudine per noi, ma troppo spesso facciamo pessimo uso del libero arbitrio. I malvagi possono fare e fanno cose cattive. La gente egoista compie azioni egoistiche.
Di questa donna è detto, all’inizio del racconto, che, nei confronti del marito, “gli fu infedele e lo lasciò per andarsene a casa di suo padre”. Nessuno vuole scusare la sua infedeltà, che rimane una grave mancanza, ma dobbiamo domandarci cosa la motivò. Se era semplicemente un’avventuriera che seguiva i suoi capricci, perché non si diede alla bella vita invece di tornarsene alla casa paterna? Ci viene il dubbio che l’insistenza di suo padre nel voler trattenere la coppia nella propria casa sia stata motivata dalla pietà per la figlia, per non farla tornare a vivere con un uomo insensibile e duro. La vita di quella povera donna doveva essere davvero buia. Eppure, lei fece quello che il marito voleva, tornando con lui. Dio non intervenne miracolosamente a salvarla. Dalla prima deviazione umana, l’umanità è lasciata responsabile di se stessa. Dio, proprio perché è Dio, non corre ogni volta a porre rimedio alle conseguenze delle nostre scelte sbagliate.
Possiamo inquietarci ed essere profondamente turbati, ma questa storia è parte della Bibbia, tanto quanto le parti che ci piacciono. La Bibbia offre molto di più di sole belle storie edificanti. Dobbiamo ascoltarne gli avvertimenti più tragici come pure ascoltiamo le meravigliose promesse divine.
Proseguendo nella storia, il levita usa il corpo (già martoriato dalla violenza maschile inflitta nottetempo) di questa donna per ottenere l’aiuto che gli occorre per vendicarsi dell’oltraggio che ha subito (lui!, non la povera donna) dai beniaminiti. “I figli di Beniamino udirono che i figli d’Israele erano saliti a Mispa. I figli d’Israele dissero: ‘Parlate! Com’è stato commesso questo delitto?’ Allora il Levita, il marito della donna che era stata uccisa, rispose: ‘Io ero giunto con la mia concubina a Ghibea di Beniamino per passarvi la notte. Ma gli abitanti di Ghibea insorsero contro di me e circondarono di notte la casa dove stavo; avevano l’intenzione di uccidermi; violentarono la mia concubina e lei morì. Io presi la mia concubina, la feci a pezzi, che mandai per tutto il territorio della eredità d’Israele, perché costoro hanno commesso un delitto e una infamia in Israele”. – Gdc 20:3-6.
Non una sola volta lui ammette la sua colpevolezza negli eventi, e non una volta si mette in discussione. Cerca solo il sangue per vendicarsi. Dà perfino una versione accomodata dei fatti. Non dice che proprio lui ha consegnato la donna alla banda, trascinandola fuori dalla porta per placare quegli uomini assatanati. Dice che l’hanno violentata fino alla sua morte, ma è vero? Forse era morta in attesa che lui aprisse la porta, mentre “giaceva distesa alla porta di casa, con le mani sulla soglia”. O forse fu lui stesso a ucciderla con il suo coltello. In entrambi i casi lei, la donna, ora è la scusa per la sua vendetta.
La popolazione rimase indignata e si organizzò per muovere contro i beniaminiti (Gdc 20). Tutto si è svolto finora sotto lo sguardo onnipresente di Dio, che rimase silenzioso. Il pensiero di Dio appare poi chiaro: “Il popolo d’Israele invocò il Signore e gli domandò: ‘Dobbiamo ancora attaccare i nostri fratelli della tribù di Beniamino oppure dobbiamo fermarci?’ E il Signore rispose: ‘Sì, attaccateli! Domani vi darò la vittoria su di loro’”. – Gdc 20:27,28, PdS.
“Il Signore sconfisse Beniamino davanti a Israele”. – Gdc 20:35. “”
Concubine di Abraamo (פִּילַגְשִׁים, pylaghshìm, “concubine”)
“Abraamo diede tutto ciò che possedeva a Isacco; ma ai figli delle sue concubine fece dei doni e, mentre era ancora in vita, li mandò lontano da suo figlio Isacco”. – Gn 25:5,6.
Chi non conosce bene la Bibbia crede che Abraamo avesse una sola concubina: Agar, la schiava egiziana di sua moglie Sara (Gn 16:1-4). Il plurale פִּילַגְשִׁים (fylaghshìm), “concubine”, di Gn 25:6 non lascia dubbi: ne aveva diverse.
Concubine di Davide (פִּילַגְשִׁים, piylaghshìm, “concubine”)
“Dopo il suo arrivo da Ebron, Davide si prese ancora delle concubine e delle mogli di Gerusalemme”. – 2Sam 5:13.
Si noti che il testo dice che Davide “prese ancora”. Per comprendere appieno quell’“ancora” dobbiamo ricordare che Davide aveva già sette mogli. Davide aveva preso in moglie Abigail, Ainoam di Izreel, Agghit, Egla, Maaca e Abital. – 2Sam 3:2-4; 1Cron 3:1-3.
Nonostante Dio gli avesse preannunciato una ritorsione sulle sue donne per aver sedotto la moglie di Uria (2Sam 12:7-12), Davide imprudentemente lascia sole dieci sue concubine: “Il re dunque partì, seguito da tutta la sua casa, e lasciò dieci concubine a custodire il palazzo” (2Sam 15:16). La conseguenza fu tragica: suo figlio Absalom approfittò di loro (2Sam 16:21,22). Queste donne furono usate come pedine politiche contro Davide.
Concubine di Roboamo (פִּילַגְשִׁים, piylaghshìm, “concubine”)
“Roboamo amò Maaca, figlia di Absalom, più di tutte le sue mogli e di tutte le sue concubine; perché ebbe diciotto mogli e sessanta concubine, e generò ventotto figli e sessanta figlie”. – 2Cron 11:21.
Concubine di Salomone (פִּילַגְשִׁים, piylaghshìm, “concubine”)
“Il re Salomome . . . ebbe . . . trecento concubine”. – 1Re 11:1,3.
Cornustibia (קֶרֶן הַפּוּך, Qèren Hapùch, “corno del nero”)
“[Giobbe] ebbe pure sette figli e tre figlie; e chiamò la prima, Colomba; la seconda, Cassia; la terza, Cornustibia. In tutto il paese non c’erano donne così belle come le figlie di Giobbe; e il padre assegnò loro un’eredità tra i loro fratelli. Giobbe, dopo questo, visse centoquarant’anni e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione”. – Gb 42:13-16.
Cornustibia era una delle tre figlie di Giobbe e fu una delle donne più belle del paese. Cosa insolita per l’epoca, le fu data un’eredità come ai suoi fratelli.
Stranamente, il nome viene tradotto da NR. I nomi non dovrebbero essere mai tradotti. Il “corno del nero” era un corno usato come contenitore per il colore nero (ricavato dall’antimonio – cfr. 2Re 9:30; Ger 4:30) che serviva per truccarsi gli occhi; noi diremmo: astuccio per il trucco. Lo strano nome forse si riferiva ai suoi occhi particolarmente belli.
Cozbi (כָּזְבִּי, Còsby, “deserto lontano”)
“Ecco che uno dei figli d’Israele venne e condusse ai suoi fratelli una donna madianita, sotto gli occhi di Mosè e di tutta la comunità dei figli d’Israele, mentre essi stavano piangendo all’ingresso della tenda di convegno. E Fineas, figlio di Eleazar, figlio del sacerdote Aaronne, lo vide, si alzò in mezzo alla comunità e afferrò una lancia; poi andò dietro a quell’Israelita nella sua tenda e li trafisse tutti e due, l’uomo d’Israele e la donna, nel basso ventre. E il flagello cessò tra i figli d’Israele. Di quel flagello morirono ventiquattromila persone . . . Ora l’uomo d’Israele che fu ucciso con la donna madianita, si chiamava Zimri, figlio di Salu, capo di una casa patriarcale dei Simeoniti. E la donna che fu uccisa, la Madianita, si chiamava Cozbi, figlia di Sur, capo della gente di una casa patriarcale in Madian”. – Nm 25:6-9,14,15.
Questa è una delle storie più inquietanti delle Scritture Ebraiche. Se dovessimo valutare dal punto di vista degli atteggiamenti di Yeshùa, ci domanderemmo dove sia finita la compassione. Ma la conoscenza del motivo per cui fu uccisa Cozbi lo troviamo nei versetti precedenti, in 25:1-5: “Israele era stanziato a Sittim e il popolo cominciò a fornicare con le figlie di Moab. Esse invitarono il popolo ai sacrifici offerti ai loro dèi; e il popolo mangiò e si prostrò davanti ai loro dèi. Israele si unì a Baal-Peor e l’ira del Signore si accese contro Israele. Il Signore disse a Mosè: ‘Prendi tutti i capi del popolo e falli impiccare davanti al Signore, alla luce del sole, affinché l’ardente ira del Signore sia allontanata da Israele’. Mosè disse ai giudici d’Israele: ‘Ciascuno di voi uccida quelli dei suoi uomini che si sono uniti a Baal-Peor’”.
Le donne madianite avevano attirato gli uomini israeliti nell’immoralità e nell’idolatria. Dio non si limitò a biasimare i madianiti, ma inviò una piaga per correggere Israele. Le madianite offrirono la tentazione, ma gli israeliti scelsero di non resistere a quella tentazione. Proprio nel bel mezzo, “mentre essi stavano piangendo” per il pentimento, “sotto gli occhi di Mosè e di tutta la comunità dei figli d’Israele” arriva Zimri, “uno dei figli d’Israele”, con una donna madianita e sfacciatamente se la porta nella sua tenda. Fineas segue la coppia e giustizia i due.
Cozbi era consapevole di far male o, forse, addirittura agì intenzionalmente.
Cugina – definizione
Il termine greco ἀνεψιός (anepsiòs), “cugino”, ricorre nelle Scritture Greche una sola volta e al maschile: “Marco, il cugino di Barnaba” (Col 4:10). In ebraico non esiste una parola specifica per indicare i cugini; esiste però un giro di parole e questo lo si può notare in Nm 36:11: “Maala, Tirsa, Cogla, Milca e Noa, figlie di Selofead, si sposarono con i figli dei loro zii [ἀνεψιοῖς (anepsiòis) nella LXX greca; “cugini”]”.
La Bibbia riporta dunque diverse donne “cugine” usando questo giro di parole. Acsa era una di queste; suo marito era “Otniel figlio di Chenaz, fratello di Caleb” e “Caleb gli diede in moglie sua figlia” (Gs 15:17); quindi, Acsa era cugina di Otniel. Parlando dell’ebreo Mardocheo alla corte del re persiano si dice che “egli aveva allevato la figlia di suo zio, Adassa, cioè Ester” (Est 2:7); Adassa era dunque cugina di Mardocheo: costei divenne la regina di Persia col nome persiano di Ester (Est 2:16,17). Basmat, che era figlia di Ismaele (Gn 36:3), era cugina di Esaù che sposò; Esaù era figlio di Isacco, fratellastro di Ismaele. – Gn 28:8,9;36:3,4,10.
Il matrimonio fra cugini non era ritenuto incestuoso (Lv 18:8-16). In molte società il matrimonio fra cugini di primo grado è addirittura preferito; all’estremo opposto, la Chiesa Cattolica medievale proibiva il matrimonio anche fra cugini lontani. Le legislazioni variano. In Italia le nozze fra cugini sono previste dalla legge, per la Chiesa Cattolica occorre una dispensa del vescovo. I genetisti non confermano una delle credenze più antiche e diffuse: quella che i figli nati da matrimoni fra cugini primi rischino di contrarre malattie genetiche. Geneticamente, non c’è una valida ragione biologica per scoraggiare il matrimonio fra cugini primi. – Journal of Genetic Counseling.
In Lc 1:36 l’angelo Gabriele (v. 26) dice a Miryàm (v. 27), futura madre di Yeshùa: “Ecco, Elisabetta, tua parente, ha concepito anche lei un figlio”. Però, Did traduce: “Ecco, Elisabetta, tua cugina”. Questa è una traduzione azzardata: il greco ha συγγενίς (sünghenìs), sostantivo femminile che indica una “parente”.
Culda (חֻלְדָּה, Khuldàh, “ratto”)
“Il sacerdote Chilchia, Aicam, Acbor, Safan e Asaia andarono dalla profetessa Culda”. – 2Re 22:14.
Culda era una profetessa durante il regno di Giosia, re di Giuda. Abitava a Gerusalemme. Il sèfer Toràh (ספר תורה), “libro dell’Insegnamento”, era stato ritrovato durante i lavori di riparazione del Tempio. Il re, desideroso di sapere cosa fare, inviò una delegazione a interrogare Dio tramite Culda. “Quando ebbero parlato con lei, lei disse loro: ‘Così dice il Signore, Dio d’Israele: Dite all’uomo che vi ha mandati da me: Così dice il Signore: Ecco, io farò venire delle sciagure su questo luogo e sopra i suoi abitanti, conformemente a tutte le parole del libro che il re di Giuda ha letto. Perché essi mi hanno abbandonato e hanno offerto incenso ad altri dèi provocando la mia ira con tutte le opere delle loro mani; perciò la mia ira si è accesa contro questo luogo, e non si spegnerà. Al re di Giuda che vi ha mandati a consultare il Signore, direte questo: Così dice il Signore, Dio d’Israele, riguardo alle parole che tu hai udite: Poiché il tuo cuore è stato toccato, poiché ti sei umiliato davanti al Signore, udendo ciò che io ho detto contro questo luogo e contro i suoi abitanti, che saranno cioè abbandonati alla desolazione e alla maledizione; poiché ti sei stracciato le vesti e hai pianto davanti a me, anch’io ti ho ascoltato, dice il Signore. Ecco, io ti riunirò con i tuoi padri, e te ne andrai in pace nella tua tomba. I tuoi occhi non vedranno tutte le sciagure che io farò piombare su questo luogo’. E quelli riferirono al re la risposta”. – 2Re 22:14-20; 2Cron 34:14-28.
Nonostante ci fossero a quel tempo dei profeti di sesso maschile, è interessante notare che Dio parlò per mezzo di una donna. I maschilisti che credono che profeti uomini non ce ne fossero al tempo del re Giosia, si mettano l’animo in pace: “Parole di Geremia [profeta] . . . La parola del Signore gli fu rivolta al tempo di Giosia”; “Dal tredicesimo anno di Giosia, figlio di Amon, re di Giuda, sino a oggi, sono già ventitré anni che la parola del Signore mi è stata rivolta e che io vi ho parlato di continuo . . . Il Signore vi ha pure mandato tutti i suoi servitori, i profeti; ve li ha mandati continuamente”. – Ger 1:1,2;25:3,4.
L’importanza di questa profetessa l’apprendiamo esaminando bene il testo di 2Re 22:12-14. In primo luogo, il comando di rivolgersi a lei viene dal re in persona. Si tratta poi di una questione di rilevanza nazionale, in particolare di notevole importanza spirituale. Inoltre, la questione riguarda ciò che è scritto nel sèfer Toràh (ספר תורה), il “libro della Legge”, ovvero la Bibbia stessa, la Sacra Scrittura. La delegazione reale è composta da Chilchia (sacerdote), Aicam (segretario del re), Acbor (funzionario di fiducia della corte reale), Safan (segretario particolare del re) e da Asaia (servitore particolare del re). In pratica, su ordine diretto del re, i notabili di corte si recano da lei. Si tenga presente che due grandi profeti erano viventi e attivi: Geremia (Ger 1:1,3) e Sofonia (Sof 1:1); eppure vanno da questa donna. Detto in altri termini, il re mandò un’importante delegazione da una donna, Culda, per avere rivelazioni autorevoli in materia di Sacra Scrittura.
La risposta coraggiosa di Culda, donna di Dio, ci dice anche della sua autorevolezza. Ella non ebbe timore di annunciare al re le sciagure che si sarebbero abbattute sul suo regno. Si noti anche come lei parli ai delegati reali riferendosi al monarca: “Dite all’uomo che vi ha mandati da me”. Nonostante la sua autorevolezza, Culda si mantiene del tutto dipendente da Dio: “Così dice il Signore, Dio d’Israele”.
Cusim (חוּשִׁים, Khushìm, “ansietà”)
“Saaraim ebbe dei figli nella terra di Moab, dopo che ebbe ripudiato le sue mogli Cusim e Baara”. – 1Cron 8:8.
A quanto pare, queste donne dovevano essere moabite, dato che “Saaraim ebbe dei figli nella terra di Moab, dopo che ebbe ripudiato le sue mogli”. La Bibbia non ci dice quello che è successo a queste donne. Esse possono essere state riprese nelle loro famiglie oppure furono semplicemente lasciate. Comunque, Saaraim ebbe figli con Cusim: “Da Cusim ebbe: Abitub ed Elpaal”. – 1Cron 8:11.
TNM fa confusione: “In quanto a Saaraim, egli generò [figli] nel campo di Moab dopo aver mandato via loro. Le sue mogli furono Usim e Baara”. “Mandato via loro” chi? La frase non è neppure in buon italiano; così com’è tradotta sembrerebbe che egli avesse mandato via i figli prima di averli generati! Comunque, le varie traduzioni di questo brano sono basate su congetture, giacché il testo ebraico pone delle difficoltà. La Bibbia Concordata traduce 1Cron 8:8 così: “Generò pure Saaraim nella campagna di Moab, dopo ch’egli ebbe ripudiate le sue mogli Usim e Baara”, ma non si comprende chi sia stato a generare, dato che al v. precedente si parla di tre persone.