I nostri sensi sono davvero un grande dono del Creatore: ci permettono di godere la vita. Alla vista di un cibo o di una bevanda, gli occhi brillano; udendo l’invito: “Vuoi?”, ne siamo allettati e stendiamo la mano; toccando, ci viene l’acquolina in bocca e quando quel cibo giunge alle nostre labbra, ancor prima di gustarlo, ne annusiamo la fragranza. Per il credente il corpo non è una tomba, perché viviamo essendo stati creati a somiglianza di Dio. Anzi, il corpo del credente è la dimora dello spirito di Dio: “Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio?” (1Cor 6:19). I nostri sensi, allora, non vanno negati. Dobbiamo invece volgerli in sensi spirituali. Il vero credente non si limita a dire: “Credo che Dio esiste”. “Anche i demòni lo credono e tremano” (Gc 2:19). Il vero credente cammina per fede “come se vedesse colui che è invisibile” (Eb 11.27), ode e ascolta perché “chi è da Dio ascolta le parole di Dio” (Gv 8:47, TNM), sa apprezzare il “profumo di odore soave” del sacrificio di Yeshùa (Ef 5:2), sa gustare “che il Signore è buono” (1Pt 2:2,3), tocca con mano la salvezza, “maneggiando rettamente la parola della verità” (2Tm 2:15, TNM). Pregando con le preghiere bibliche dei Salmi, che sono poesie, il credente sa usare tutti i suoi sensi. “Il poeta ebreo ci fa vedere, udire, toccare con mano. Le sensazioni fisiche sono fresche e vive . . . Il poeta pensa per immagini, e le immagini sono tratte dal campo della vita di ogni giorno comune a tutti gli uomini”. – An Introduction to the Revised Standard Version of the Old Testament, 1952, pagg. 63, 64.
La preghiera ci porta nel mondo dello spirito, il mondo reale di Dio. “Quel che abbiamo udito, quel che abbiamo visto con i nostri occhi, quel che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato della parola della vita (poiché la vita è stata manifestata e noi l’abbiamo vista e ne rendiamo testimonianza, e vi annunziamo la vita eterna che era presso il Padre e che ci fu manifestata), quel che abbiamo visto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché voi pure siate in comunione con noi; e la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia completa”. – 1Gv 1:1-4.
I nostri sensi devono partecipare alla preghiera. Solo gli idoli “hanno la bocca, e non parlano, gli occhi e non vedono. Hanno orecchi, e non ascoltano, naso e non sentono odori. Le loro mani non toccano, i loro piedi non camminano, la loro gola è senza voce” (Sl 115:5-7, PdS). Il nostro Dio è “Colui che vive per i secoli dei secoli” (Ap 4:9, TNM). I morti non possono lodare né pregare Dio; è chi vive che può farlo.
“Non è il soggiorno dei morti che possa lodarti,
non è la morte che ti possa celebrare;
quelli che scendono nella tomba non possono più sperare nella tua fedeltà.
Il vivente, il vivente è quello che ti loda,
come faccio io quest’oggi”. – Is 38:18,19.
Origène, teologo e scrittore greco del 3° secolo, così illustra le potenzialità spirituali dei nostri sensi: “La vista che può fissare le realtà superiori … l’udito, che percepisce dei suoni che non si trovano realmente nell’aria; il gusto che ci fa assaporare il pane vivo disceso dal cielo … allo stesso modo quei profumi di cui parla Paolo, che sono ‘per Dio buon odore di Cristo’; il tatto, grazie al quale Giovanni afferma di aver toccato le mani del verbo della vita”. – Origène, Contro Celso, 1,48.
Come possiamo usare i nostri sensi in modo spirituale nella preghiera? Sebbene la cosa possa apparire curiosa, i sensi usati spiritualmente ci rendono più sensibili, più concentrati e più coinvolti nella preghiera.
Olfatto. L’olfatto ci comunica ciò che altri sensi sono incapaci di comunicarci, essendo completamente diverso. L’olfatto non tocca ma è toccato; non vede ma percepisce; non ode né gusta, ma avverte e riconosce. Ci introduce nel profondo della relazione, nell’intimità. Sa distinguere tra ciò che è impersonale e ciò che è personalissimo e unico. Percependo i diversi odori della vita ne percepisce le sfumature. La vita è respiro, e la vita ha fragranze che ci seducono. Nella preghiera possiamo avvertire i miasmi provenienti dalla pattumiera dei nostri peccati, ma anche i profumi sublimi dei momenti di vicinanza a Dio, come nel giardino dell’Eden all’inizio, con tutti i suoi alberi e fiori ben irrigati. Quando Rebecca, per far sì che suo marito Isacco, ormai vecchio e con la vista debole, scambiasse Giacobbe per Esaù, “prese i più bei vestiti di Esaù, suo figlio maggiore, i quali erano in casa presso di lei, e li fece indossare a Giacobbe suo figlio minore” (Gn 27:15); il suo intendo è chiaro al v. 27: “Isacco sentì l’odore dei vestiti, e lo benedisse dicendo: ‘Ecco, l’odore di mio figlio è come l’odore di un campo, che il Signore ha benedetto’”. Ciascuno ha un proprio odore. Essendo “rivestiti di Cristo” (Gal 3:27, TNM) che per Dio è “profumo di odore soave” (Ef 5:2), noi stessi “siamo infatti davanti a Dio il profumo di Cristo” (2Cor 2:15). Il senso dell’odorato spirituale ci spinge ad apprezzare di più durante la preghiera l’onore di essere accolti nella cerchia dei discepoli di Yeshùa. La nostra stessa preghiera odora allora di incenso: “La mia preghiera sia incenso che sale fino a te” (Sl 141:2, PdS). Pregare con il senso dell’olfatto spirituale è respirare Dio. Il Cantico dei Cantici, preso spesso come allegoria dell’amore di Dio per il suo popolo, è tutto un sentore di profumi e di effluvi. La ragazza innamorata dice: “Io sono un narciso della pianura di Saron, un giglio delle valli” (Cant 2:1, PdS) e poi prorompe tutta presa d’amore: “Ora che il mio re è qui nel suo giardino, il mio profumo di nardo si spande tutt’intorno. Amore mio, sei come un sacchetto di mirra, di notte riposi fra i miei seni. Amore mio, sei come un mazzo di fiori cresciuti nelle vigne di Engaddi” (Cant 1:12-14, PdS). Questa intimità si fa sentire, nella preghiera, dentro e al di là delle parole. Nella preghiera l’olfatto spirituale ci fa percepire l’intimità, così profonda e completa, che ci lega a Dio. Ciò non è profano, perché nella Bibbia è Dio stesso a paragonarsi ora a un marito ora a una madre. Oggi gli antichi sacrifici del rituale ebraico sono sostituiti dalle preghiere. Le “coppe d’oro piene di profumi” di Ap 5:8 “sono le preghiere dei santi”, tanto che all’“angelo con un incensiere d’oro … furono dati molti profumi affinché li offrisse con le preghiere di tutti i santi sull’altare d’oro posto davanti al trono” (Ap 8:3) e “il fumo degli aromi salì davanti a Dio insieme alle preghiere dei santi” (v. 4). Questo “altare d’oro posto davanti al trono” ha la sua controparte nell’altare dei profumi o altare dell’incenso, chiamato “l’altare d’oro” in Es 39:38, che era nel Tempio. Su di esso veniva bruciato un incenso speciale due volte al giorno, la mattina e la sera (Es 30:7-9,34-38); la formula segreta di questo particolare profumo fu rivelata da Dio stesso ed era vietato fabbricare quel profumo per uso personale, pena la morte (Es 30:34-38). L’altare dell’incenso si trovava all’interno del tabernacolo, proprio davanti alla cortina del Santissimo, per cui è detto che si trovava davanti all’arca della testimonianza. – Es 30:1,6;40:5,26,27.
Dopo il Diluvio, quando Noè “offrì olocausti sull’altare”, “il Signore sentì un odore soave” (Gn 8:20,21). D’altra parte, Dio garantisce al suo popolo infedele: “Non aspirerò più il soave odore dei vostri profumi” (Lv 26:31). Yeshùa è “profumo di odore soave” (Ef 5:2), ed è spiritualmente seducente questa fragranza trascendente; i suoi discepoli sono “il profumo di Cristo fra quelli che sono sulla via della salvezza” e “fra quelli che sono sulla via della perdizione” (2Cor 2:15), essendo per questi ultimi un afrore, “per questi, un odore di morte, che conduce a morte”. – V. 16.
Udito. Dio ode. “Colui che ha fatto l’orecchio forse non ode?” (Sl 94:9). Dio ascolta le preghiere: “Nella mia angoscia invocai il Signore, gridai al mio Dio. Egli udì la mia voce dal suo tempio, il mio grido giunse a lui, ai suoi orecchi” (Sl 18:6). Dio però può rendersi sordo alle nostre suppliche, se viviamo nel peccato: “Per quanto gridino ad alta voce ai miei orecchi, io non darò loro ascolto” (Ez 8:18). Noi stessi possiamo ascoltare Dio, ubbidendo, o turarci gli orecchi: “Il cuore di questo popolo si è fatto insensibile: sono diventati duri d’orecchi”. – Mt 13:15.
“Ascolta, popolo mio” (Sl 81:8). Dio parla e chiede ascolto. “Se tu mi ascoltassi!” (Ibidem). È un invito paterno, proferito con amore. “Ma il mio popolo non mi ha ascoltato, Israele non ha voluto saperne” (Sl 81:12, PdS). Consapevoli della chiamata di Dio, siamo invitati ad ascoltare. Quando Dio parla, esprime verità che sono per in nostro bene.
“Il Signore, tuo salvatore,
il Santo d’Israele ti assicura:
‘Io, il Signore, sono il tuo Dio.
Sono io che ti faccio sapere
quel che ti potrà servire;
sono io che ti faccio camminare
sulla strada che devi seguire.
Perché non hai ascoltato
quel che ti ho comandato!
Avresti ricevuto un fiume di benedizioni,
la salvezza ti sarebbe arrivata
come le onde del mare!”.
– Is 48:17,18, PdS.
“Fa’ attenzione, popolo mio, ora parlerò … Io sono Dio, il tuo Dio!” (Sl 50:7, PdS). È da stolti non ascoltare quando Dio parla: “Porgete l’orecchio e venite a me; ascoltate e voi vivrete” (Is 55:3). Yeshùa espresse magnificamente la relazione tra il nostro ascolto della parola di Dio e la nostra stessa vita: “Sta scritto: ‘Non di pane soltanto vivrà l’uomo, ma di ogni parola che proviene dalla bocca di Dio’”, riallacciandosi a Dt 8:3: “In quella situazione difficile ti ha fatto provare la fame; poi ti ha nutrito con la manna: tu non sapevi cos’era, e neppure i tuoi padri l’avevano mai conosciuta. Il Signore voleva farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che egli vive della parola del Signore” (PdS). Il vero fedele ascolta la parola di Dio e la gusta: “Quanto gustose sono le tue parole: le sento più dolci del miele”. – Sl 119:103, PdS.
Possiamo pregare: “Dà dunque al tuo servo un cuore intelligente” (1Re 3:9); nella Bibbia il cuore è la sede dei pensieri, quello che per noi occidentali è la mente, e il testo originale ebraico ha לֵב שֹׁמֵעַ (lev shomèa), “un cuore che oda”. Come possiamo udire e ascoltare Dio? La Sacra Scrittura è tutta parola di Dio. La saggezza personificata esorta in Pr 1:33: “Chi mi ascolta starà al sicuro, vivrà tranquillo, senza paura di nessun male”. Durante la preghiera la nostra mente può andare a passi della Scrittura che ci appaiono sotto una nuova luce che li attualizza, e li applichiamo così alla nostra situazione del momento.
Durante la preghiera ci sono momenti in cui occorre stare in silenzio e in ascolto. “Sta’ in silenzio davanti al Signore, e aspettalo” (Sl 37:7). Ci sono diversi tipi di silenzio. Quello vuoto non ci serve a nulla. Quello di rispetto ci fa rammentare di fronte a Chi siamo. Quello di chi non sa cosa dire è solo imbarazzante. Ma c’è anche un silenzio buono da assaporare, che ci fa sentire bene; assomiglia a quello di due innamorati che senza parole vivono profondamente e intensamente il loro stare insieme e sentirsi uniti. Nella preghiera si arriva a questo silenzio dopo che si sono acquietate le nostre battaglie interiori, quando deponiamo ogni cosa e diveniamo consapevoli della presenza di Dio. È un momento di puro e intenso godimento. Possiamo allora dire: “Io ascolterò quel che dirà Dio, il Signore: egli parlerà di pace al suo popolo e ai suoi fedeli” (Sl 85:8). “E la pace di Dio, che è più grande di quanto si possa immaginare, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù”.- Flp 4:7, PdS.
“Beati … i vostri orecchi, perché odono!” (Mt 13:16). Perché l’essere umano si trova molto spesso come impedito nell’ascolto, facendo orecchi da mercante? Ciò ha a che fare con la nostra natura egoistica. Preferiamo udire cose che solleticano la nostra propensione a ciò che ci sta bene. “Ci sarà un periodo di tempo in cui non sopporteranno il sano insegnamento, ma, secondo i loro propri desideri, si accumuleranno maestri per farsi solleticare gli orecchi; e distoglieranno i loro orecchi dalla verità, mentre si volgeranno a false storie” (2Tm 4:3,4, TNM). Per dirla con le parole di Yeshùa: “Chi ha orecchi per udire oda!” (Lc 8:8) o, meglio, “Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti”. – TNM.
Nella preghiera occorre saper ascoltare interiormente e non essere “duri d’orecchi” (Mt 13:15). “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica!” (Lc 11:28). La preghiera è anche tempo d’ascolto, per rammentarci della parola di Dio e proporci davanti a Lui di praticarla, chiedendo il suo aiuto. Più che mai in preghiera dobbiamo prestare attenzione all’avvertimento di Yeshùa: “Attenti dunque a come ascoltate” (Lc 8:18). “Perché, se uno è ascoltatore della parola e non esecutore, è simile a un uomo che guarda la sua faccia naturale in uno specchio; e quando si è guardato se ne va, e subito dimentica com’era. Ma chi guarda attentamente nella legge perfetta, cioè nella legge della libertà, e in essa persevera, non sarà un ascoltatore smemorato ma uno che la mette in pratica; egli sarà felice nel suo operare”. – Gc 1:23-15.
Dio ci parla in silenzio. “La parola è vicino a te, nella tua bocca e nel tuo cuore” (Rm 10:8). Soprattutto in preghiera, mentre parliamo a Dio, il nostro dire si imprime nel nostro cuore, nella nostra mente. Non è Dio che tace ma siamo noi a essere sordi. Nella preghiera, quando si fanno tacere i conflitti interiori che ci lacerano e ci distraggono, ci si abbandona a Dio. Nel nostro intimo, percepiamo allora nella pace interiore e silenziosa, la presenza amorevole di Dio: “Io resto tranquillo e sereno. Come un bimbo in braccio a sua madre è quieto il mio cuore dentro di me”. – Sl 131:2, PdS.
Nel raccoglimento della preghiera tutto in noi diventa ascolto. Di noi stessi, delle nostre emozioni, dei nostri pensieri; di Dio.
Vista. Mosè voleva vedere Dio. “Mosè chiese al Signore: ‘Lasciami vedere il tuo aspetto!’” (Es 33:18, PdS). La risposta di Dio fu: “Tu non puoi vedere la mia faccia, perché nessun uomo può vedermi e vivere” (v. 20, TNM). Mosè, però, “per fede abbandonò l’Egitto, senza temere la collera del re, perché rimase costante, come se vedesse colui che è invisibile”. – Eb 11:27.
“Nessuno ha mai visto Dio” (1Gv 4:12). Il desiderio di vederlo però è forte: “Il mio cuore mi dice da parte tua: «Cercate il mio volto!». Io cerco il tuo volto, o Signore. Non nascondermi il tuo volto” (Sl 27:8,9). Ora, per fede, rimaniamo saldi “come vedendo Colui che è invisibile” (Eb 11:27, TNM), sapendo “che quand’egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo com’egli è”. – 1Gv 3:2.
In preghiera invochiamo Dio: “Apri i miei occhi, e contemplerò le meraviglie della tua legge” (Sl 119:18). Vedere Dio con i propri occhi è un desiderio che alberga nel fedele sin da Mosè, che osò chiedere a Dio: “Ti prego, fammi vedere la tua gloria!”, ottenendone un rifiuto così spiegato da Dio: “Tu non puoi vedere il mio volto, perché l’uomo non può vedermi e vivere” (Es 33:18,20). La percezione interiore della fede è allora il senso della vista spirituale, perché “Dio è Spirito; e quelli che l’adorano, bisogna che l’adorino in spirito e verità” . – Gv 4:24.
Gli occhi non sono solo gli organi della vista. Nella Bibbia gli occhi indicano anche tutta la persona nella sua interiorità. “La lampada del corpo è l’occhio. Se dunque il tuo occhio è limpido, tutto il tuo corpo sarà illuminato; ma se il tuo occhio è malvagio, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre” (Mt 6:22,23). Tenere lo sguardo rivolto a Dio significa ricercare il suo aiuto: “I miei occhi sono sempre rivolti al Signore” (Sl 25:15). Il nostro guardare indica la direzione dei nostri pensieri, che possono essere rivolti alla concupiscenza, tanto che 1Gv 2:16 menziona insieme “la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi”. Nello stile concreto ebraico che con concede mezze misure Yeshùa arriva a dire: “Se il tuo occhio ti fa cadere in peccato, cavalo e gettalo via da te; meglio è per te entrare nella vita con un occhio solo, che aver due occhi ed essere gettato nella geenna del fuoco”. – Mt 18:9.
La fede vede senza guardare. “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” (Gv 20:29). Nella preghiera possiamo più che mai purificare la nostra mente e sperimentare ciò Yeshùa ha promesso: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”. – Mt 5:8.
Tatto. Ci sono cose da non toccare (Gn 3:3; Es 19:13; Lv 11:8; Lam 4:14; 2Cor 6:17), altre che vorremmo toccare (Mt 14:36; Mt 6:56). Maria Maddalena avrebbe voluto toccare e stringere a sé il risuscitato Yeshùa. – Gv 20:16,17.
In che modo il senso spirituale del tatto ci può aiutarci nella preghiera? In Es 3:20 si legge: “Io stenderò la mia mano e colpirò l’Egitto”. Nessuno vorrebbe essere toccato dalla mano di Dio in questo modo. Siamo però attratti da quanto detto in Ger 18:6: “Ecco, quel che l’argilla è in mano al vasaio, voi lo siete in mano mia”. La mano di Dio può colpire oppure proteggere: “Tu conducesti il tuo popolo fuori dal paese d’Egitto con miracoli e prodigi, con mano potente e braccio steso, con gran terrore” (Ger 32:21). Il credente desidera essere toccato e protetto da Dio: “La mano del nostro Dio assiste tutti quelli che lo cercano” (Esd 8:22). “Se mi trovo nell’angoscia, tu mi fai vivere. Contro l’ira dei miei nemici stendi la mano, la tua destra mi salva”. – Sl 138:7, PdS.
Il tocco di Dio fa miracoli. “Il Signore stese la mano e mi toccò la bocca; e il Signore mi disse: ‘Ecco, io ho messo le mie parole nella tua bocca’” (Ger 1:9). Dio usa molti modi per toccarci; Daniele testimonia: “Colui che aveva l’aspetto d’uomo mi toccò di nuovo e mi fortificò”. – Dn 10:18.
Dio prende l’iniziativa per toccarci: “Ho detto: ‘Eccomi, eccomi’ a una nazione che non portava il mio nome. Ho steso tutto il giorno le mani verso un popolo ribelle, che cammina per una via non buona, seguendo i propri pensieri” (Is 65:1,2). È con il senso spirituale del tatto che possiamo sentire il caldo e rassicurante abbraccio di Dio, la sua tenerezza, che egli stesso descrive ricordando ciò che aveva fatto per Israele: “Quando Israele era un ragazzo io l’ho amato … Io ho insegnato a Efraim a camminare. Ho tenuto il mio popolo tra le mie braccia, ma non ha capito che mi prendevo cura di lui. L’ho attirato a me con affetto e amore. Sono stato per lui come uno che solleva il suo bambino fino alla guancia. Mi sono abbassato fino a lui per imboccarlo” (Os 11:1-4, PdS). Nella preghiera possiamo abbandonarci nelle braccia di Dio, sentire il suo contatto, tutta la sua dolcezza e tutto il suo premuroso amore.
Ci sono che non devono mai essere toccate, e sono i peccati, frutti proibiti da cui stare alla larga: “Dio ha detto: ‘Non ne mangiate e non lo toccate, altrimenti morirete’” (Gn 3:3). “È terribile cadere nelle mani del Dio vivente”. – Eb 10:31.
I lebbrosi dovevano stare a distanza dalla gente sana; erano degli intoccabili. Ci sorprende quindi maggiormente, commuovendoci, l’atteggiamento di Yeshùa quando “un lebbroso, avvicinatosi, gli si prostrò davanti, dicendo: «Signore, se vuoi, tu puoi purificarmi»”, e “Gesù, tesa la mano, lo toccò dicendo: «Lo voglio, sii purificato»” (Mt 8:2,3). Come peccatori, siamo lebbrosi, siamo degli intoccabili. Eppure in preghiera osiamo chiedere: Signore, toccami, abbracciami, tienimi stretto a te. Yeshùa non ebbe paura di toccare un lebbroso; Dio pure si degna di toccarci e guarirci.
Nella preghiera possiamo sviluppare il senso spirituale del tatto, essendo più sensibili e sentendo la vicinanza di Dio e il suo amorevole tocco.
Gusto. In Eb 6:4 è detto che i credenti “hanno gustato il dono celeste”. Pietro invita a nutrirsi con “il puro latte spirituale, perché con esso cresciate per la salvezza, se davvero avete gustato che il Signore è buono”. – 1Pt 2:2,3.
“Gustate e vedete come è buono il Signore” (Sl 34:9, PdS). Ma, come tutti i sensi, anche il gusto può essere impiegato male. Sin dall’inizio fu usato male, quando Eva “vide che l’albero era buono come cibo” (Gn 3:6, TNM). Pietro però incoraggia: “Sbarazzandovi di ogni cattiveria, di ogni frode, dell’ipocrisia, delle invidie e di ogni maldicenza, come bambini appena nati, desiderate il puro latte spirituale, perché con esso cresciate per la salvezza, se davvero avete gustato che il Signore è buono”. – 1Pt 2:1-3.
La lingua è l’organo del gusto, e “la lingua del giusto è argento scelto” (Pr 10:20), “la calma della lingua è un albero di vita” (Pr 15:4, TNM). “Con essa benediciamo il Signore e Padre; e con essa malediciamo gli uomini che sono fatti a somiglianza di Dio. Dalla medesima bocca escono benedizioni e maledizioni. Fratelli miei, non dev’essere così. La sorgente getta forse dalla medesima apertura il dolce e l’amaro? Può forse, fratelli miei, un fico produrre olive, o una vite fichi? Neppure una sorgente salata può dare acqua dolce” (Gc 3:9-12). Specialmente nella preghiera è il momento di usare la lingua per lodare Dio, di calmarci e proferire cose buone, sensibilizzandoci nel gustare la bontà di Dio.
In preghiera rammentiamo la parola di Dio e facciamo l’esperienza del profeta Ezechiele che, nutrendosi del rotolo datogli da Dio, poté dire: “Io lo mangiai, e in bocca mi fu dolce come del miele” (Ez 3:3). La stessa cosa in Ap 10:10, dove Giovanni dice del libretto datogli dall’angelo: “Presi il libretto dalla mano dell’angelo e lo divorai; e mi fu dolce in bocca, come miele”.
“Quanto gustose sono le tue parole:
le sento più dolci del miele”.
– Sl 119:103, PdS.
“I giudizi del Signore sono verità, tutti quanti sono giusti, … sono più dolci del miele, anzi, di quello che stilla dai favi”. – Sl 19:9,10.