I devoti ebrei ritenevano il deserto il luogo ideale per una vita spirituale più profonda perché richiamava il periodo in cui Dio si era fidanzato nel deserto sinaitico con il suo popolo dopo averlo liberato dalla schiavitù egizia: “Così dice il Signore: Io mi ricordo dell’affetto che avevi per me quand’eri giovane, del tuo amore da fidanzata, quando mi seguivi nel deserto” (Ger 2:2). Il deserto divenne così il simbolo di un periodo privilegiato della storia ebraica. In esso gli ebrei avevano ricevuto la Legge, l’alleanza con Dio e avevano sperimentato la provvidenza miracolosa di Dio che aveva donato loro la manna (Es 16; Nm 11:4-9), l’acqua dalla roccia (Es 17:1-7), il serpente di bronzo contro il morso velenoso delle serpi (Nm 21:9). È per questo che il deserto (la steppa) attraeva in modo particolare Osea che riporta le parole di Dio alla sua nazione:
“Ecco, io l’attrarrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Di là le darò le sue vigne e la valle d’Acor come porta di speranza; là mi risponderà come ai giorni della sua gioventù, come ai giorni che uscì dal paese d’Egitto”. – Os 2:14,15.
Yeshùa, prima di iniziare la sua missione, si ritirò nel deserto (Mt 14:13; Mr 1:35;6:31, sgg.; Lc 5:16). Anche Giovanni il battezzatore visse nel deserto durante la sua predicazione, servendosi del medesimo passo isaiano anche utilizzato dagli esseni di Qumràn e che anche i Vangeli riproducono, anche se spesso la sua traduzione è inesatta. Di solito si traduce con:
“Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri”. – Mt 3:3.
Il testo dei Vangeli segue, infatti, la versione greca che ha il punto dopo “deserto”. Con punto s’intende il punto in alto, che in greco esprime il nostro due punti: ἐν τῇ ἐρήμῳ·, “Nel deserto:”. Così anche TNM: “Qualcuno grida nel deserto:”. Tuttavia, dal momento che la punteggiatura non era segnata nei codici antichi, quel segno di punteggiatura può essere spostato dal traduttore. Se si mette il punto prima di “deserto”, si ha l’accordo perfetto tra Vangelo, testo ebraico di Is e rotoli di Qumràn:
“Voce di uno che grida:
nel deserto preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri!”. – Mt 3:3, Dia.
Infatti, anche se Giovanni non obbligava i suoi seguaci ad abbandonare la vita comune (Lc 3:10-14) per vivere nel deserto come facevano gli esseni a Qumràn, egli li obbligava però a recarsi “nel deserto” per esservi battezzati e per decidere l’inizio di una vita di ravvedimento nell’attesa del messia. Mt 3:1, in cui si afferma che “comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea”, non ha nulla a che fare con la successiva citazione (“Nel deserto preparate la via del Signore”, v. 3), perché non solo lui ma anche gli altri dovevano recarsi “nel deserto”, dove egli si trovava, per ravvedersi, farsi battezzare e prepararsi alla venuta del messia.
Il deserto, nella Bibbia è simbolo del peccato e del male: “Quando lo spirito immondo esce da un uomo, si aggira per luoghi aridi” (Mt 12:43; cfr. Lc 11:24; cfr. Is 13:21;34:14; Ap 18:2). Lo stesso Yeshùa, dopo il battesimo, “fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo”. – Mt 4:1.
Il “grande e spaventevole deserto” (Dt 1:19), il “grande e terribile deserto, pieno di serpenti velenosi e di scorpioni, terra arida, senz’acqua” (Dt 8:15), “paese di solitudine e di crepacci . . . un paese di siccità e di ombra di morte” (Ger 2:6), simbolo malefico di peccato, doveva accogliere Azazel. In Lv 16:10 è detto che il capro doveva “restare vivo dinanzi a Geova in modo da fare espiazione per esso” (TNM), poi era libero di andarsene. Ora, dove c’è espiazione c’è anche perdono. Qui si vedono la misericordia e la bontà di Dio.
La congregazione dei discepoli di Yeshùa è la sua chiesa nel deserto, per la quale si fa espiazione come sul secondo capro. “Sgozzerà il capro [quello “del Signore” – v. 8] del sacrificio per il peccato, che è per il popolo, e ne porterà il sangue di là dalla cortina” (Lv 16:15). Questo è il sacrificio di Yeshùa “per il popolo” di Dio; il suo sangue è portato alla presenza di Dio nel Santissimo; Yeshùa “è entrato una volta per sempre nel luogo santissimo, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue. Così ci ha acquistato una redenzione eterna”. – Eb 9:12.
Il deserto è il luogo della rivelazione di Dio. “Ecco, io l’attrarrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2:14). È nel deserto che Dio parla al cuore delle persone. Il deserto non è un luogo piacevole, ricco di comodità e in cui la gioia rende tutto facile. Il deserto non è neppure un luogo dietro l’angolo, che si possa raggiungere facilmente; non fa neppure parte dei nostri soliti itinerari. Nella mappa della nostra vita abitudinaria non è neppure segnato, le cartine geografiche delle direzioni che prendiamo nella vita non lo indicano. Eppure è il luogo in cui Dio si rivela. Lì Dio parla da un fuoco in un cespuglio che arde senza consumarsi (Es 3:2). Il deserto è il luogo in cui la persona conosce i suoi limiti, la sua debolezza, la sua scarsa resistenza e la dura lotta per la vita. Il deserto è il luogo dove la fede si fa difficile e richiede una scelta personalissima e definitiva.
Nel ricercare volontà di Dio si può cadere facilmente in errore. Affidandosi alle fedi religiose che sono solo il prodotto delle forzo umano di raggiungere Dio, ci si può illudere. Il rischio è di inventarsi un dio a nostra immagine e somiglianza. Per incontrare Dio, per farci incontrare da lui, dobbiamo uscire dal nostro io e dai nostri stereotipi.
“Tutto ciò che fu scritto nel passato, fu scritto per nostra istruzione, affinché mediante la pazienza e la consolazione che ci provengono dalle Scritture, conserviamo la speranza” (Rm 15:4). È nella Bibbia che troviamo le ragioni della nostra fede e della nostra speranza. L’esperienza che il popolo ebraico ebbe di Dio ci insegna. Tale storia ci conduce più preparati a Yeshùa, il consacrato, il figlio d’Israele per eccellenza. La storia sacra del popolo amato da Dio inizia con un uomo, Abraamo, che per fede abbandonò una fertile regione per recarsi dove Dio voleva condurlo. A mano a mano che la famiglia e la cerchia che faceva capo ad Abraamo diventa popolo, Dio si rivela. Il momento decisivo in cui il popolo di Dio si distingue e si separa dagli altri popoli, assumendo la propria caratteristica, è all’Esodo. Ed è nel deserto che si forgia il carattere spirituale. È nel deserto che si avverte la presenza attenta di Dio e la sua sollecitudine. È nel deserto che il culto di Dio diventa serio e vero.
Il deserto si fa luogo della rivelazione di Dio. La sua invisibile e misteriosa presenza diventa tangibile in momenti che sono straordinari. Oggi come allora incontriamo Dio del deserto della solitudine, della difficoltà, nel renderci conto della nostra povera condizione, quando nella fatica di un cammino che è vagare sentiamo impellente il bisogno di Dio. Finché rimaniamo nelle comodità, protetti dalle nostre fragili sicurezze, finché ci sentiamo appagati solo dai miseri piaceri delle cipolle egiziane, finché facciamo affidamento solo su noi stessi, Dio è lontano. Lo trascuriamo, non lo capiamo neppure. Non c’è posto per Dio in una mente occupata unicamente da pensieri scaltri che tendono soltanto alla realizzazione del proprio tornaconto.
È solo il deserto in senso spirituale che ci insegna a cercare Dio, perché è nel deserto che l’essere umano è privato della sua prosopopea che lo illude di poter bastare a se stesso. Il deserto riduce la persona a un essere totalmente bisognoso fisicamente, psicologicamente e spiritualmente. Lì impara finalmente la verità su se stesso. È nel deserto che la persona si rende conto di tutti i suoi limiti e soprattutto della sua incapacità di superarli. Solo allora può gridare a Dio e chiedere soccorso. Nel deserto nessun altro ode la richiesta disperata di aiuto. Se non ci fosse Dio ad ascoltare, il grido umano si perderebbe lungo le dune sabbiose e si morirebbe nell’angoscia. “Camminarono tre giorni nel deserto e non trovarono acqua. … Allora il popolo mormorò contro Mosè, dicendo: «Che berremo?». Così egli gridò all’Eterno”. – Es 15:22-25.
Ci vuole coraggio per inoltrarsi nel deserto, per entrare in quel luogo di solitudine in cui Dio ci chiama per mostrarci tutto il suo amore e la sua sollecitudine. Solamente avendo il coraggio di guardare in faccia la verità delle nostre sconfitte, iniziamo a scoprire il nostro vero valore e a renderci conto che aspiriamo a quella completezza che sempre ci è sfuggita. Occorre il coraggio di ritirarsi nel deserto.
“La porterò nel deserto e le dirò parole d’amore”. – Os 2:16, PdS.
“Israele, ti farò mia sposa,
e io sarò giusto e fedele.
Ti dimostrerò il mio amore
e la mia tenerezza.
Sarai mia per sempre.
Manterrò la mia promessa
e ti farò mia sposa.
Così tu saprai che io sono il Signore.
In quel giorno, – lo affermo io,
il Signore, –
io benedirò il mio popolo:
il cielo manderà la pioggia,
la terra sarà fertile,
produrrà grano, vino e olio.
Verrò incontro alle necessità d’Israele. Io farò prosperare il mio popolo nella sua terra. Mostrerò il mio amore a quelli che erano chiamati ‘Non-Amati’. A quelli che erano chiamati ‘Non-Mio-Popolo’ dirò: ‘Voi siete il mio popolo’, ed essi diranno: ‘Tu sei il nostro Dio!’’”. – Os 2:21-25, PdS.
C’è qui un corteggiamento da parte di Dio. Il nostro Dio corteggia e seduce. È nel deserto che Dio si svela e dichiara il suo amore. E questo amore ci fa sciogliere, ci fa innamorare. Tutto dimentichiamo e non pensiamo che a Lui. È la conversione. “Darò loro un cuore per conoscere me che sono il Signore; saranno mio popolo e io sarò loro Dio, perché si convertiranno a me con tutto il loro cuore”. – Ger 24:7.
“Di sicuro ti impegnerò a me nella fedeltà” (Os 2:20, TNM). È il fidanzamento. “Io ti fidanzerò a me per l’eternità; ti fidanzerò a me in giustizia e in equità, in benevolenza e in compassioni. Ti fidanzerò a me in fedeltà” (Os 2:19,20). E la promessa sarà mantenuta.
“Felice l’uomo
al quale Dio ha perdonato la colpa e
condonato il peccato.
Felice l’uomo
che ha il cuore libero da menzogna
e che il Signore non accusa di peccato.
Finché rimasi in silenzio,
ero tormentato tutto il giorno
e le mie forze si esaurivano.
Giorno e notte, Signore,
su di me pesava la tua mano,
la mia forza s’inaridiva
come sotto il sole d’estate.
Allora ti ho confessato la mia colpa,
non ti ho nascosto il mio peccato.
Ho deciso di confessarti il mio errore
e tu hai perdonato il peccato e la colpa.
Perciò i tuoi fedeli ti pregano
quando scoprono il proprio peccato.
Potrà anche venire un diluvio,
ma non riuscirà a sommergerli.
Tu sei per me un rifugio;
mi proteggi da ogni avversità
e mi circondi con canti di salvezza”.
– Sl 32:1-7, PdS.
Deserto
Il deserto ci affascina, eppure il deserto è una sfida. Lì siamo piccoli e insignificanti, lì siamo solo bisognosi. Il deserto è una condizione. Siamo nel deserto quando siamo soli, preda della nostra stessa angoscia, sprovvisti della capacità di sopravvivere; senza orientamento, perché quando nel deserto si va cercando una via d’uscita, si gira solo intorno. Nel deserto non c’è possibilità di nascondersi agli altri e neppure a se stessi. Lì emergono tutte le nostre paure che si fanno inquietudine insostenibile. In quella condizione solamente la preghiera dà sicurezza. Ecco che allora il deserto diventa luogo della scelta. Nella lotta interiore tra la persona autonoma e indipendente che pensa di avere già tutto in sé e la persona bisognosa di fronte alla realtà che lo schiaccia, si può soccombere oppure arrendersi a Dio, riconoscendo che solo lui può soddisfare i nostri veri bisogni. La preghiera diventa allora fede e il deserto rifiorisce.
“Il deserto e la terra arida si rallegrino,
la steppa fiorisca ed esulti!
Si copriranno con fiori di campo,
canteranno e grideranno di gioia;
diventeranno belli come il Libano,
splendidi come il Carmelo
e la pianura di Saron.
Tutti vedranno la gloria del Signore,
la sua grandezza e la sua potenza.
Ridate forza alle braccia stanche
e alle ginocchia che vacillano.
Dite agli scoraggiati:
‘Siate forti, non abbiate timore!
Il vostro Dio viene a liberarvi,
viene a punire i vostri nemici’.
Allora i ciechi riacquisteranno la vista
e i sordi udranno di nuovo.
Allora lo zoppo salterà come un cervo,
e il muto griderà di gioia.
Nel deserto scaturirà una sorgente,
e scorreranno fiumi nella steppa.
Tra la sabbia bruciata
si formerà un lago,
e dalla terra secca sprizzeranno
sorgenti d’acqua.
Dove ora dimora lo sciacallo,
cresceranno l’erba, le canne e i giunchi.
Là ci sarà una strada
e si chiamerà la ‘via santa’.
Nessun impuro e nessun empio
la potrà percorrere.
Sarà il Signore ad aprirla.
Il leone e le bestie feroci
non la renderanno pericolosa.
La percorreranno tutti quelli
che il Signore ha liberato.
Arriveranno gioiosi al monte Sion:
sul loro volto felicità a non finire.
Gioia e felicità rimarranno con loro,
tristezza e pianto scompariranno”.- Is 35, PdS.
Il deserto, a ben vedere, è una necessità. È un’esperienza che la persona che vuole essere sincera con se stessa deve fare. Perché il deserto è luogo di verità. Il deserto è una tappa dello spirito. Quando tutto diventa confuso dentro di noi, si prova perfino nostalgia del deserto, di un luogo dove finalmente far riposare la mente. Nel deserto si può andare allora volontariamente per desiderio di solitudine, di silenzio, di essenzialità. Così il deserto diventa un momento più vero, più profondo e significativo. Diventa tempo di ricerca di un significato interiore. Il deserto è un bisogno per indagare le nostre necessità ed essere poi liberi.
Solo nel deserto possiamo essere purificati. Il compito del deserto è proprio questo. Lì tutto è nitido e il firmamento appare com’è, senza l’offuscamento delle luci artificiali degli abbagli umani. Abbiamo bisogno di scoprire la limpidezza. Ci vuole il deserto per ritrovare la verità su noi stessi, la nostra solitudine e scoprire poi con sorpresa che non siano soli. Il deserto è proprio questa condizione di assoluta necessità che anela alla liberazione. È ora di pensare al nostro deserto, di decidere come ritagliarci il nostro luogo spirituale per pregare in solitudine e nel silenzio, per purificarci. È ora di fare deserto. Quando tutte le voci e i rumori tacciono, come nel deserto, si crea lo spazio per l’ascolto. Possiamo allora udire la voce di Dio che ci parla con le parole della Sacra Scrittura. Il deserto si fa allora luogo della parola di Dio.
Il deserto conduce alla solitudine, esige lo starsene da soli. Esige il silenzio che ci guida alla soglia di noi stessi. Il deserto ci obbliga al dialogo interiore con noi stessi, lasciando affiorare il nostro vero io. È in questa solitudine alla presenza di Dio che possiamo udire le sue parole. “La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore”. – Os 2:14.
Fare silenzio è scendere nel più profondo del nostro animo, stare in solitudine e attenti solo al richiamo di Dio, è fare deserto. È il nostro deserto. Il deserto è una tappa, non la meta. Non si rimane sempre nel deserto. Yeshùa ci rimase quaranta giorni, poi – fortificato – fu pronto per la sua missione. Il deserto è luogo di decisione. Si va nel deserto perché poi si vuole continuare a vivere in modo più vero e più giusto.
Nel deserto ci sono anche le oasi. Dovremmo costruirci le nostre oasi di preghiera per entrarvi regolarmente a ristorarci e a godere della presenza di Dio.
Il deserto continua quotidianamente nella preghiera personale e nei momenti in cui cerchiamo di ritrovare in noi stessi, la presenza di Dio, la sua voce. Se si impara a gustare questi momenti meravigliosi, ogni volta unici, ecco che il deserto diventa richiamo nostalgico. Il deserto ci chiama continuamente.