Della cosiddetta “lettera di Paolo agli ebrei” va subito detto che non è una lettera, non è di Paolo e non è indirizzata agli ebrei.
Paragonata alle lettere paoline, Eb si differenzia sin dal suo inizio. Paolo, infatti, iniziando le sue lettere, segue uno schema preciso. Egli indica subito mittente e destinatario, aggiungendo il saluto e il ringraziamento. A mo’ d’esempio, riportiamo l’inizio della lettera ai romani:
“Paolo, servo di Cristo Gesù, chiamato a essere apostolo, messo a parte per il vangelo di Dio, che egli aveva già promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sante Scritture riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, dichiarato Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità mediante la risurrezione dai morti; cioè Gesù Cristo, nostro Signore, per mezzo del quale abbiamo ricevuto grazia e apostolato perché si ottenga l’ubbidienza della fede fra tutti gli stranieri, per il suo nome – fra i quali siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo – a quanti sono in Roma, amati da Dio, chiamati santi, grazia a voi e pace da Dio nostro Padre, e dal Signore Gesù Cristo. Prima di tutto rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi”. – Rm 1:1.8.
Ben diversa è Eb, che inizia immediatamente con affermazioni importanti, su tema cristologico, che saranno sviluppate poi con coerenza:
“Dio, dopo aver parlato anticamente molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha pure creato i mondi. Egli, che è splendore della sua gloria e impronta della sua essenza, e che sostiene tutte le cose con la parola della sua potenza, dopo aver fatto la purificazione dei peccati, si è seduto alla destra della Maestà nei luoghi altissimi”. – Eb 1:1.3.
Questo inizio non ha nulla a che fare con una lettera: si tratta di uno scritto omiletico ovvero di un’omelia, uno scritto che espone e commenta passi delle Sacre Scritture. Il finale dello scritto assomiglia soltanto a quello di una lettera: “Ora, fratelli, sopportate con pazienza, vi prego, la mia parola di esortazione perché vi ho scritto brevemente. Sappiate che il nostro fratello Timoteo è stato messo in libertà; con lui, se viene presto, verrò a vedervi. Salutate tutti i vostri conduttori e tutti i santi. Quelli d’Italia vi salutano. La grazia sia con tutti voi”. – Eb 13:22-25.
La singolarità della lingua e delle argomentazioni di Eb, ne fanno uno scritto che non ha pari in tutte le Scritture Greche. Il suo vocabolario è ricco, le parole ricercate, il discorso scorre disinvolto, le frasi sono costruite con eleganza. Questo scritto non è un semplice trattato teologico e non appare neppure come una lettera, reale o costruita ad arte come se fosse un’epistola. Appare piuttosto come un’omelia (dal verbo greco ὁμιλέω, omilèo, “conversare”) ovvero un’esortazione da essere letta davanti a una comunità di credenti. Questo spiega il suo splendido linguaggio e la sua retorica così efficace, che non sono bravure letterarie fini a se stesse. Piuttosto, questa eloquenza prosegue la grande tradizione della parola di Dio, il quale “aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti” (Eb 1:1, CEI). Lo stile di Eb è colloquiale, usando frequentemente il “noi”, l’esclusivo “voi” e perfino il coinvolgente “io”. Come giustamente fece osservare H. Thyen: “Qui è un predicatore che parla alla sua comunità”.
La Lettera agli ebrei, contrariamente al resto delle Scritture Greche e alle stesse lettere paoline, è scritta “dal migliore stilista tra gli scritti del Nuovo Testamento” (E. Norden, Agnostos Theòs, Berlin, 1929, pag. 386), scritta forse dal letterato Apollo (“Un ebreo di nome Apollo, oriundo di Alessandria, uomo eloquente e versato nelle Scritture”, At 18:24). La Lettera agli ebrei è comunemente stata attribuita all’apostolo Paolo. Di essa però va detto che:
- Non è una lettera;
- Non è indirizzata agli ebrei;
- Non di Paolo.
Lo stile è, infatti, molto diverso da quello delle lettere paoline (il greco di Eb è molto elegante). L’errore probabilmente sta nel fatto che essa era stata accettata come epistola di Paolo da alcuni dei primi scrittori ecclesiastici: il papiro Chester Beatty II (P46), del 200 circa E. V., la incluse fra nove lettere paoline, ed Eb fu elencata fra le “quattordici lettere di Paolo l’apostolo” nel “canone di Atanasio”, del 4° secolo E. V.. Lo scrittore di Eb non si identifica, però, per nome. Cosa già di per sé sospetta, perché in tutte le sue lettere Paolo appone il proprio nome. L’assenza del nome dello scrittore, più che non escludere a priori che sia stato Paolo a scriverla, indica che non ne fu lui l’autore. L’evidenza intrinseca della lettera non indica necessariamente Paolo come scrittore. Eb 13:24, nella chiusa dello scritto, non è una prova che la lettera (ammesso che lo sia) fu scritta dall’Italia, infatti il testo ha οἱ ἀπὸ τῆς Ἰταλίας (òi apò tes Italìas), “quelli dall’Italia” (e non “quelli che sono in Italia”, TNM). Da notare poi Eb 13:23: “Notate che il nostro fratello Timoteo è stato liberato, col quale, se viene abbastanza presto [“più resto”, prima del previsto, nel testo greco], vi vedrò” (TNM). Lo scrittore di Eb menziona la liberazione di Timoteo e si augura che questi vada da lui prima del previsto. Se si trattasse di Paolo, questo non avrebbe senso, dato che Timoteo era a Roma con Paolo (è menzionato da Paolo nelle sue lettere scritte da Roma durante la sua detenzione lì: Flp 1:1;2:19; Col 1:1,2; Flm 1). Se era stato liberato dopo essere stato in prigione con Paolo, che senso avrebbe augurarsi che Timoteo andasse da lui “più presto” del previsto? E che senso avrebbe progettare di vedere i destinatari di Eb con Timoteo se Paolo era sempre in prigione? Inoltre, Paolo aveva in programma (se l’appello a Cesare fosse andato a buon fine) di recarsi in Spagna. Lo scrittore di Eb appare invece un uomo libero con i suoi programmi: se Timoteo andrà da lui prima di quanto previsto, insieme vedranno i destinatari di Eb, altrimenti li vedrà da solo.
La struttura dell’omelia è conforme a quelle usate nella sinagoga, il cui livello culturale era elevato. L’apertura di Eb è solenne: “Dio, dopo aver parlato anticamente molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose” (Eb 1:1,2). Yeshùa viene esaltato, collegandolo alla proclamazione annunciata nei Salmi. Dopo aver fatto risaltare la superiorità di Yeshùa rispetto agli angeli, viene richiamato Sl 110:1: “A quale degli angeli disse mai: ‘Siedi alla mia destra finché abbia posto i tuoi nemici come sgabello dei tuoi piedi’?” (Eb 1:13; cfr Sl 110:1). Come nelle sinagoghe, la spiegazione ricorre ai testi della Bibbia. Lo stile è enfatico e declama. La struttura dello scritto è a più livelli, concatenati; i temi vengono ripresi. Dalla sua struttura emergere il grande impegno intellettuale dell’autore, abile nella retorica. Gli ascoltatori che udirono l’omelia di Eb furono di certo condotti nei processi mentali dei loro pensieri, essendo coinvolti con richiami scritturali semplici di cui si forniva l’interpretazione.
Destinatari di Eb. I destinatari dello scritto erano certamente buoni conoscitori del culto giudaico e conoscevano bene le Scritture Ebraiche, quindi potevano capire tutte le testimonianze che in esse portavano a Yeshùa. Infatti, in 1:1 si esordisce dicendo che Dio ha “parlato anticamente molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti”. Inoltre, quando l’autore dice che Dio ha parlato “per mezzo dei profeti”, non trova necessario dare nessuna spiegazione: segno che l’autorità della Bibbia ebraica era riconosciuta. Così è anche quando al cap. 11 cita gli esempi di fede menzionati nelle Scritture Ebraiche: l’uditorio li conosce e sa di cosa si parla. Fu alla fine del 2° secolo che, fissando il canone, allo scritto venne dato il nome di “agli ebrei”. Tuttavia, è ben difficile che lo scritto fosse rivolto a discepoli di Yeshùa di madrepatria ovvero giudei. Non viene accennato nessun pericolo di giudaizzare, ma solo il timore che si possa perdere la speranza. D’altra parte, il gruppo cui lo scritto fu rivolto, appare serrato in se stesso. Ciò si mostra dalla mancanza di riferimenti al pericolo di apostatare nel paganesimo, sebbene ci sia l’esortazione a mantenere la fede. Poteva trattarsi di una comunità della diaspora? Il predicatore autore di Eb appare come un giudeo che si rivolge a una congregazione di discepoli giudei che non sono nella terra d’origine; in 3:18, infatti, si fa riferimento agli ebrei come a “quelli che furono disubbidienti”, in 3:12 si menziona “un cuore malvagio e incredulo”, espressione tipica per indicare l’indurimento dei giudei.
Datazione. Dallo scritto emerge una comunità che ha accettato Yeshùa da tempo: “Ricordatevi di quei primi giorni, in cui, dopo essere stati illuminati, voi avete dovuto sostenere una lotta lunga e dolorosa” (10:32). Non possiamo però datare la lettera a dopo la distruzione del Tempio nel 70 E. V., perché proprio il Tempio è considerato ancora fondamentale per il culto giudaico, e nello scritto se ne argomenta molto. In più, in Eb non si accenna minimamente alla catastrofe abbattutati su Gerusalemme nel 70 ad opera dei romani; il che indica che non si era ancora verificata.
Di certo era trascorso del tempo dalla fondazione di quella comunità, come si deduce da questi dati:
“Questa [“grande salvezza”, ibidem], dopo essere stata annunciata prima dal Signore, ci è stata poi confermata da quelli che lo avevano udito, mentre Dio stesso aggiungeva la sua testimonianza alla loro con segni e prodigi, con opere potenti di ogni genere e con doni dello Spirito Santo, secondo la sua volontà”. – Eb 2:3,4.
“Dopo tanto tempo dovreste già essere maestri”. – 5:12.
“Ricordatevi di quei primi giorni, in cui, dopo essere stati illuminati, voi avete dovuto sostenere una lotta lunga e dolorosa”. – 10:32.
“Ricordatevi dei vostri conduttori, i quali vi hanno annunciato la parola di Dio; e considerando quale sia stata la fine della loro vita, imitate la loro fede”. – 13:7.
Per Eb si potrebbe supporre ragionevolmente una data intorno all’anno 60. Infatti, si fa riferimento nello scritto al periodo di attesa degli ebrei nel deserto, durato 40 anni: “Noi che abbiamo creduto, infatti, entriamo in quel riposo, come Dio ha detto: «Così giurai nella mia ira: ‘Non entreranno nel mio riposo!’» … Dio stabilisce di nuovo un giorno – oggi” (Eb 4:3,7). Quest’attesa degli antichi ebrei viene applicata dallo scrittore di Eb alla situazione attuale della comunità di Yeshùa a cui scrive. Tenendo conto che Yeshùa era morto nel 30, tale antico periodo di 40 anni era come rivissuto da loro, il che ci conferma che lo scritto è anteriore all’anno 70.
L’autore. Leggendo Eb si percepisce il forte legame che l’autore ha con i destinatari del suo scritto. Aveva già insegnato in quella congregazione? È molto probabile, anzi quasi certo, perché al termine del suo scritto egli esprime questo vivo desiderio: “Io vi sia restituito al più presto” (13:19). È molto probabile che l’anonimo autore di Eb abbia avuto contatti con Paolo; ciò si deduce dai temi teologici che tratta, che sono gli stessi dell’apostolo genti. Si aggiunga che egli menziona Timoteo, discepolo di Paolo (Eb 13:23). Comunque, l’autore appare un pensatore indipendente di grande altezza teologica. Qualche studioso ha ipotizzato una relazione con Luca per via dell’affinità linguistica. Non è necessario ricorrere a questa ipotesi immaginaria. La somiglianza del linguaggio si spiega bene con la formazione filosofica ellenistica dei due, con la differenza che per l’autore di Eb questa ha più a che fare con quella alessandrina di Filone.
Il dilemma su chi sia l’autore di Eb non è così importante, se si considera la grande importanza teologica che lo scritto ha in sé, che passa in primo piano al di là dello scrittore. Tuttavia, considerando la grandiosità e la grande eleganza linguistica di Eb, la curiosità è più che giustificata. La rosa dei candidati proposta dagli studiosi annovera Luca, Clemente Romano, Sila, Apollo, Barnaba, Aquila, Priscilla, Timoteo, Paolo e diversi altri. Pur non potendo dire una parola definitiva, ci sembra che solo la candidatura di Apollo meriti considerazione. Dagli scritti paolini e dagli Atti di Luca conosciamo alquanto bene la personalità di Apollo e la sua missione.
Apollo |
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Ebreo di Alessandria d’Egitto | “Un ebreo di nome Apollo, oriundo di Alessandria”. – At 18:24. |
Molto eloquente | “Uomo eloquente” “Versato nelle Scritture”. – Ibidem. |
Ottimo conoscitore del Tanàch | “Versato nelle Scritture”. – Ibidem. |
Orientato agli ebrei | “Cominciò pure a parlare con franchezza nella sinagoga [di Efeso]”. – At 18:26. |
Ottimo ed efficace argomentatore |
“Con gran vigore confutava pubblicamente i Giudei, dimostrando con le Scritture che Gesù è il Cristo”. – At 18:28. |
Grande incoraggiatore |
“Apollo ha annaffiato”. – 1Cor 3:6. |
Considerato da alcuni superiore a Paolo |
“Nessuno si vanti dunque negli uomini; poiché tutte le cose appartengono a voi, sia Paolo sia Apollo”. – 1Cor 3:21,2 (TNM); cfr. 1Cor 3:4-9. |
Missionario |
“Provvedi con cura al viaggio di Zena, il giurista, e di Apollo, perché non manchi loro niente”. – Tito 3:13. |
Il riferimento a Zena (Tito 3:13) potrebbe confermare che l’attività di Apollo si fosse concentrata sugli ebrei della diaspora. Zena è detto νομικός (nomikòs), che indica una persona edotta nella Toràh e che sa insegnarla; la traduzione “giurista” scelta da NR appare fuori luogo, meglio qui TNM: “versato nella Legge”. Anche Apollo era un ottimo conoscitore delle Scritture Ebraiche (At 18:24). In Tito 3:13 si fa riferimento a un viaggio dei due; evidentemente Zena si trovava a Creta, ma non è precisato dove dovessero andare. Il fatto che però due esperti di Toràh stavano per intraprendere insieme un viaggio missionario, fa pensare a qualche loro missione presso i giudei. Non possiamo comunque andare oltre alle supposizioni, data la carenza di documentazioni certe.
Luogo di composizione. Abbiamo un dato nella finale di Eb: “Quelli d’Italia vi salutano” (13:24). Il greco ha οἱ ἀπὸ τῆς Ἰταλίας, “i da l’Italia”, che TNM rende con “quelli che sono in Italia”. Questi italiani che mandano i loro saluti si trovavano in patria o altrove? Tradurre “che sono in Italia” non lascia dubbi che salutassero da lì. Tuttavia, ciò non è così sicuro. Gruppi di italiani espatriati ce n’erano, come Aquila, “giunto di recente dall’Italia insieme con sua moglie Priscilla” (At 18:2). Il fatto però che la frase di Eb 13:24 è alla fine dello scritto ed espressa in modo generico, fa pensare che lo scritto provenga proprio dall’Italia.
Destinatari. Se Eb proviene dall’Italia, come sembra, i destinatari di Eb dovevano trovarsi nella parte orientale dell’Impero Romano, probabilmente si tratta di una comunità nel giro dell’opera missionaria di Paolo, composta prevalentemente da giudei divenuti discepoli di Yeshùa. Il fatto che l’autore esprima il desiderio di tornarvi non appena Timoteo sarà liberato (13:23), ci dice che lì si sentiva a casa.
Lo sfondo giudaico. Indubbiamente, Eb ha un sottofondo giudaico su cui s’intesse lo scritto, date le sue basi prevalentemente poggianti sulle Scritture Ebraiche. Ciò ha fatto dubitare lo studioso Grässer che Eb sia uno scritto anche ellenistico. Che dire? Intanto, lo scrittore di Eb si colloca nell’ambito dell’opera missionaria posteriore di Paolo (intorno al 60 della nostra èra), distinguendosi come indipendente. Analizzando Eb sembrerebbe affiorare un ambiente spirituale attinente alla teosofia di Filone Alessandrino. Non possiamo neppure individuare in Eb elementi gnostici ben definiti, perché la gnosi apparve nel secolo successivo. Non è però necessario ricorrere al pensiero di Filone, basandosi sui passi che parlano della preesistenza di Yeshùa. Se da una parte tale preesistenza non va certamente letta letteralmente all’occidentale, non va neppure riferita al pensiero filosofico greco. Piuttosto, va compresa secondo la mentalità ebraica che con la categoria della preesistenza affermava la realtà delle verità più importanti. Niente a che fare, dunque, con l’idea gnostica dell’incarnazione e della discesa del redentore dai mondi celesti, e neppure con la filosofia greca di Filone. Queste concezioni sono del tutto estranee all’autore di Eb. Infatti, per lui – in armonia con il resto della Bibbia – i credenti non sono figli di Dio per una loro presunta natura celeste, ma perché entrano attraverso Yeshùa in una relazione filiale con Dio. In Eb non c’è affatto l’idea di un passaggio attraverso vari livelli di esistenza sempre più elevati. Il quadro è invece, nella sostanza, molto semplice: il mondo vero è quello celeste, e quello terreno ne è solo una copia. Così, ad esempio, in Eb si contrappone il sacrifico cultuale terreno, che va ripetuto, al sacrificio eterno presentato da Yeshùa nel Tempio celeste.
Filone d’Alessandria. Dato il frequente accostamento che diversi studiosi fanno tra Eb e la filosofia di Filone, è il caso di dire qualcosa sulla questione. Filone nacque intorno al 20 a. E. V. ad Alessandria d’Egitto. Cresciuto nella tradizione giudeo-ellenistica, si dedicò a determinare le verità permanenti della Bibbia ebraica. Nel far ciò si servì dell’interpretazione allegorica, che fece scuola come metodo ermeneutico, teorizzando il metodo dell’interpretazione allegorica fondata sulla distinzione tra due significati presenti nel testo: la lettera e lo spirito; lo spirito racchiude il significato più autentico. Filone fu scrittore molto produttivo e influente. Ebbe anche cariche direttive nell’importante comunità giudaica di Alessandria. Dagli scritti di Filone veniamo a conoscere il modo in cui si svolgeva l’omelia nella sinagoga di Alessandria. L’originalità di Filone sta nell’aver interpretato la Bibbia secondo la filosofia platonica, vedendo nella teoria del demiurgo (cfr. Platone, Timeo) il Dio di Israele.
In definitiva, possiamo dire che l’intento omiletico di Eb è quello di affermare che non c’è altra certezza se non quella della parola di Dio. “Il Signore ha giurato e non si pentirà” (Sl 110:4): è in questo giuramento che troviamo la certezza di poter cogliere Dio nella sua parola. La promessa salvifica di Dio deve allora diventare per il credente certezza incrollabile. La rivelazione definitiva di Dio si attua in Yeshùa e il credente deve porvi fede, fidandosi di Dio.