Dopo il solenne inizio della sua omelia, lo scrittore ispirato di Eb ne trae le conseguenze pratiche:
“Perciò bisogna che ci applichiamo ancora di più alle cose udite, per timore di essere trascinati lontano da esse. Infatti, se la parola pronunciata per mezzo di angeli si dimostrò ferma e ogni trasgressione e disubbidienza ricevette una giusta retribuzione, come scamperemo noi se trascuriamo una così grande salvezza? Questa, dopo essere stata annunciata prima dal Signore, ci è stata poi confermata da quelli che lo avevano udito, mentre Dio stesso aggiungeva la sua testimonianza alla loro con segni e prodigi, con opere potenti di ogni genere e con doni dello Spirito Santo, secondo la sua volontà”. – Eb 2:1-4.
Già nella sua introduzione l’agiografo celava un intento nelle sue riflessioni e tale intento ora si svela in tutta la sua pienezza: occorre una dedizione forte e completa, richiesta dalla grandezza dell’evento con cui Dio conferisce la pienezza a Yeshùa: “Perciò bisogna che …”.
Con bravura ed efficacia oratoria, l’omileta inizia a presentare le applicazioni pratiche con una frase molto vigorosa tesa a incitare ed esortare, che nel testo greco risuona letteralmente: “Perciò è necessario ancor più attendere noi alle cose udite, così che non [le] sfuggiamo”. Particolare efficacia assume quel coinvolgente “noi”, che è in genere sottinteso in greco ma che qui è espresso. Non si tratta di autorevolezza (in tal caso avrebbe detto “io”), ma di coinvolgimento appassionato con cui si associa alla comunità cui è legato. A questa frase così pregante di energia segue poi un’estesa motivazione che ricalca quanto detto in precedenza ma con un rigore nuovo.
L’argomentazione che usa è forte ed efficace, suscitando ammirata partecipazione: Se Dio manda addirittura le potenze celesti per aiutare gli umani a ottenere la salvezza, se é stato smosso nientemeno che il cielo, non è davvero possibile rimanere indifferenti ma occorre essere più che mai determinati. L’oratore sta rimarcando che qualcosa di unico ed irripetibile è successo. Bisogna quindi applicarsi con impegno maggiore. Molto efficace è anche l’uso del verbo ἀμελέω (amelèo, trascurare, non darsi pensiero) in Eb 2:3; c’è qui l’idea del passare oltre, facendo finta di nulla.
La salvezza, dice il predicatore, “dopo essere stata annunciata prima dal Signore, ci è stata poi confermata da quelli che lo avevano udito”, il che ci fa arguire che egli non fu tra i discepoli di Yeshùa quando il Maestro era in vita. Non può richiamarsi a un’esperienza diretta di Yeshùa neppure come nel caso di Paolo, che incontrò Yeshùa risuscitato. Egli si pone tra quelli che si affidano alla testimonianza di coloro che furono testimoni diretti: “Ci è stata poi confermata da quelli che lo avevano udito”. C’è però molto ma molto di più: “Dio stesso aggiungeva la sua testimonianza alla loro con segni e prodigi, con opere potenti di ogni genere e con doni dello Spirito Santo”. Davvero, “perciò bisogna che ci applichiamo ancora di più alle cose udite”.
La signoria universale di Yeshùa
“5 Difatti, non è ad angeli che Dio ha sottoposto il mondo futuro del quale parliamo; 6 anzi, qualcuno in un passo della Scrittura ha reso questa testimonianza: «Che cos’è l’uomo perché tu ti ricordi di lui o il figlio dell’uomo perché tu ti curi di lui? 7 Tu lo hai fatto di poco inferiore agli angeli; lo hai coronato di gloria e d’onore; 8 tu hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi». Avendogli sottoposto tutte le cose, Dio non ha lasciato nulla che non gli sia soggetto. Al presente però non vediamo ancora che tutte le cose gli siano sottoposte; 9 però vediamo colui che è stato fatto di poco inferiore agli angeli, cioè Gesù, coronato di gloria e di onore a motivo della morte che ha sofferto, affinché, per la grazia di Dio, gustasse la morte per tutti. 10 Infatti, per condurre molti figli alla gloria, era giusto che colui, a causa del quale e per mezzo del quale sono tutte le cose, rendesse perfetto, per via di sofferenze, l’autore della loro salvezza. 11 Sia colui che santifica sia quelli che sono santificati provengono tutti da uno; per questo egli non si vergogna di chiamarli fratelli, 12 dicendo: «Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli; in mezzo all’assemblea canterò la tua lode». 13 E di nuovo: «Io metterò la mia fiducia in lui». E inoltre: «Ecco me e i figli che Dio mi ha dati». 14 Poiché dunque i figli hanno in comune sangue e carne, egli pure vi ha similmente partecipato, per distruggere, con la sua morte, colui che aveva il potere sulla morte, cioè il diavolo, 15 e liberare tutti quelli che dal timore della morte erano tenuti schiavi per tutta la loro vita. 16 Infatti, egli non viene in aiuto ad angeli, ma viene in aiuto alla discendenza di Abraamo. 17 Perciò, egli doveva diventare simile ai suoi fratelli in ogni cosa, per essere un misericordioso e fedele sommo sacerdote nelle cose che riguardano Dio, per compiere l’espiazione dei peccati del popolo. 18 Infatti, poiché egli stesso ha sofferto la tentazione, può venire in aiuto di quelli che sono tentati.”. – Eb 2:5-18.
Con 2:5 avviene un taglio netto e un balzo in avanti. Finora era stata richiamata la gravità della disubbidienza alla parola degli angeli, disubbidienza che fu punita. E con ciò si voleva dimostrare come sarebbe ben più grave e punibile la disubbidienza a Yeshùa. Ora si va ben oltre, perché il mondo futuro non sarà sottoposto agli angeli, ma l’universo intero sarà sottoposto a Yeshùa. Chi aspira al mondo futuro non può affidarsi agli angeli; costoro sono sì attualmente i dominatori della terra, ma non del mondo futuro.
Yeshùa è stato umiliato per amore dei suoi fratelli. L’oratore usa un tono molto grave: gli angeli non solo non domineranno sul mondo futuro (2:5), ma Yeshùa non viene in loro soccorso (2:16); eppure c’è qualcosa di inquietante: a Yeshùa non sono ancora state sottoposte tutte le cose (2:8). In ogni caso, c’è la decisione di Dio di sottoporre a lui il mondo futuro. C’è un grande evento che è iniziato ma la cui conclusione è ancora una promessa. Ciò che l’autore sacro vuole rimarcare è che la fede deve rafforzarsi nel convincimento che ciò avverrà, anche quando la fede può essere in crisi.
“Non è ad angeli” (2:5): angeli, senza articolo. Con bravura oratoria, si contrappone Yeshùa al generico “angeli”. Tutto giunge al suo compimento non attraverso un innumerevole moltitudine di angeli, ma attraverso un solo essere: Yeshùa “coronato di gloria e di onore” (2:9). Anche se è tutto futuro, la decisione di Dio è presa, e già ora “vediamo colui che è stato fatto di poco inferiore agli angeli, cioè Gesù, coronato di gloria e di onore” (2:9). Si noti anche l’efficacia del procedere. Yeshùa non viene subito nominato. Prima si dice che gli angeli sono fuori gioco per ciò che riguarda la dominazione del mondo futuro. Possiamo immaginare l’uditorio, attento e a bocca aperta, perché si è creato un vuoto che crea attesa: “Non è ad angeli che Dio ha sottoposto il mondo futuro del quale parliamo …” (2:5). Si apre poi quasi una voragine: “Anzi …” (2:6), da cui si è ricondotti in alto, perché – sebbene, come dice il Sl 8:17, l’uomo è poca cosa per attirare attenzione e la cura Dio, e sebbene sia stato fatto inferiore agli angeli, come detto in Sl 8:5 – l’essere umano è stato “coronato di gloria e d’onore” e addirittura Dio ha “posto ogni cosa sotto i suoi piedi”. – Eb 2:7,8; cfr. Sl 8:5,6.