Il cap. 11 di Eb presenta un elenco di eminenti testimoni della fede di cui parla il Tanàch, la Bibbia ebraica. Pur non trascurando le singole trattazioni ovvero i singoli commenti che l’autore fa per ogni testimone di fede, sarebbe un errore soffermarsi solo su ciò e perdere il senso generale di questo capitolo, che si presenta ben compatto. Per apprezzarlo pienamente conviene avere in mente la sua stupenda e coinvolgente conclusione:
“Tutti costoro, pur avendo avuto buona testimonianza per la loro fede, non ottennero ciò che era stato promesso. Perché Dio aveva in vista per noi qualcosa di meglio, in modo che loro non giungessero alla perfezione senza di noi”. – Eb 11:39,40.
Il nostro omileta, che abbiamo già apprezzato per la sua efficace oratoria, dà volutamente al lungo elenco dei testimoni che propone un ritmo particolare, cadenzato, che egli scandisce con ben 18 πίστει (pìstei), “per fede”. Il suo uditorio ne fu sicuramente incantato, nella tensione in crescendo: pìstei … pìstei … pìstei …
L’anàfora
Anàfora è parola derivata dal greco ἀναφορά (anaforá), che significa “ripresa”. Nella retorica, che è l’arte di parlare e di scrivere, l’anàfora è una figura, appunto retorica (ovvero un artificio che nel discorso serve a creare un particolare effetto), che consiste nel riprendere, ripetendola, una parola oppure un’espressione all’inizio di frasi successive. In tal modo viene sottolineata un’idea o un concetto. L’effetto è tanto maggiore quanto più numerose sono le ripetizioni.
Eb 11:3 Πίστει … 4 Πίστει … 5 Πίστει … 7 Πίστει … 8 Πίστει … 9 Πίστει … 11 Πίστει … 17 Πίστει … 20 Πίστει … 22 Πίστει … 22 Πίστει … 23 Πίστει … 24 Πίστει … 27 Πίστει … 28 Πίστει … 29 Πίστει … 30 Πίστει … 31 Πίστει …
Ascoltando quei nomi, l’ascoltatore ne diveniva partecipe. Viveva in prima persona la storia del suo popolo, iniziata in tempi lontanissimi … “Per fede Abele … Per fede Noè … Per fede Abraamo …”. I nomi stessi suscitavano rispetto; distrarsi doveva apparire quasi un sacrilegio. Il nostro omileta, con sapienza e abilità retorica, conduce i suoi attenti ascoltatori in un crescendo che culmina in un ragionamento tanto semplice quanto efficace: “Eccoci dunque posti di fronte a questa grande folla di testimoni. Anche noi quindi liberiamoci da ogni peso, liberiamoci dal peccato che ci trattiene, e corriamo decisamente la corsa che Dio ci propone”. – Eb 12:1, TILC.
Il nostro retore introduce così il suo lungo elenco: “Or la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono” (11:1). Ci viene qui presentato un concetto di fede molto profondo. La fede è definita ὑπόστασις (ypòstasis), “fondamento / ciò che ha vera esistenza”. TNM preferisce “sicura aspettazione”. Il senso è: “La fede è realtà delle cose sperate”. TILC traduce il termine: “Un modo di possedere già”; ciò è conforme al pensiero degli studiosi Moulton e Milligan: “Fede è l’atto di proprietà di cose sperate” (Vocabulary of the Greek Testament, 1963, pag. 660). Negli antichi documenti commerciali su papiro, infatti, la parola ypòstasis indica ciò che garantisce un futuro possesso.
La definizione che fa Eb della fede è completata dalla frase πραγμάτων ἔλεγχος οὐ βλεπομένων (pragmàton èlenchos u blepomènon), “di cose prova [che] non si vedono”. TNM traduce il vocabolo èlenchos con “evidente dimostrazione”, mettendo nella nota in calce: “Convincente prova”. La magistrale definizione di fede data dall’autore di Eb risente chiaramente dell’influenza della filosofia greca.
Per Paolo la fede è un frutto dello spirito (Gal 5:22) e come tale non è data a tutti (2Ts 3:2). Per Eb la fede indica la realtà vera di ciò che non si vede. Non si tratta affatto però di un’opinione simile alla credulità, ma è quanto c’è di più certo. Non indica qualcosa di opinabile o possibile, ma una vera realtà. Anche se questo modo di intendere la fede sembra diverso da quello paolino, in verità coincide. Infatti, essendo la fede un frutto dello spirito (Gal 5:22), occorre avere lo spirito, che è concesso da Dio. La persona sente allora in sé la certezza. “Abbiamo lo sguardo intento non alle cose che si vedono, ma a quelle che non si vedono; poiché le cose che si vedono sono per un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne” (2Cor 4:18); “Camminiamo per fede e non per visione”. – 2Cor 5:7.
Sebbene Eb elabori il suo pensiero sulla fede in una concezione filosofica, non si tratta affatto di un atteggiamento razionale. La fede, che è prova della realtà impercettibile, ha in sé una garanzia incontestabile, anche se non è prova per chi fede non ha. È come quando si ama profondamente qualcuno: solo chi ama sa di amare davvero e ne ha la certezza; ad altri non è dato di provare quello stesso sentimento che la persona innamorata prova; possono immaginare, rimanerne finanche stupefatti, ma non possono condividere quel sentimento provandolo come chi lo prova davvero. In un certo senso è la reciprocità di quanto detto in 2Tm 2:19: “Il Signore conosce quelli che sono suoi”; chi ha fede, sa di appartenergli.
Siccome “la fede è certezza di cose che si sperano”, la speranza vi è implicata. La fede sta proprio nel paradosso di avere certezza di ciò che si spera. Per chi non ha fede si tratta non solo di una stranezza ma perfino di un’astrusità irrazionale in quanto “dimostrazione di realtà che non si vedono”. Chi non ha fede crede solo a ciò che vede e per lui la fede è un’assurdità perché in contrasto proprio con la realtà visibile.
“Chi ha fede non è in grado di definirla, e per chi non ce l’ha l’ombra della sventura grava sulla sua definizione”. – Franz Kafka. |
“Per fede comprendiamo che i mondi sono stati formati dalla parola di Dio; così le cose che si vedono non sono state tratte da cose apparenti” (Eb 11:3). Prima di iniziare il suo elenco dei testimoni della fede, Eb declama una verità fondamentale, e lo fa in terza persona plurale (“comprendiamo”), coinvolgendo gli ascoltatori. Questa dichiarazione ripete il concetto già espresso (“La fede è … dimostrazione di realtà che non si vedono”, v. 1) fornendone un esempio. Paolo argomenta con i filosofi di Atene sul ‘cercare Dio, se mai si giunga a trovarlo, come a tastoni, benché egli non sia lontano da ciascuno di noi’ (At 17:27) e così ragiona in Rm 1:19,20: “Quel che si può conoscere di Dio è manifesto in loro [negli uomini], avendolo Dio manifestato loro; infatti le sue qualità invisibili, la sua eterna potenza e divinità, si vedono chiaramente fin dalla creazione del mondo essendo percepite per mezzo delle opere sue; perciò essi sono inescusabili”. Si nota qui come ciò che appare irrazionale si basi sul razionale. Chi non crede ritiene irrazionale l’esistenza di Dio, eppure la deduzione razionale derivante dall’osservazione del creato conduce al Creatore. Tuttavia, è specificato in Eb che è “per fede” che comprendiamo che tutto ha preso forma da ciò che Dio disse (cfr. “Dio disse” in Gn 19; si veda Sl 33:6), per cui il raziocinio non vi ha un ruolo. Il v. 3 va compreso bene:
a) πίστει νοοῦμεν κατηρτίσθαι τοὺς αἰῶνας ῥήματι θεοῦ
pìstei voùmen katertìsthai tùs aiònas rèmati theù
per fede comprendiamo essere stati disposti i mondi da parola di Dio
b) εἰς τὸ μὴ ἐκ φαινομένων τὸ βλεπόμενον γεγονέναι
eis tò mè ek fainomènon tò blepòmenon ghenèvai
per cui non da cose apparenti l’essente visibile essere stato fatto
La difficoltà di traduzione è data dalle negazione μὴ (mè) posta proprio in quella posizione. Le traduzioni come NR non riferisco la negazione all’intera frase del versetto 3b ma la spostano riferendola al verbo “essere stato fatto” (NR) oppure riferendola alle cose visibili rese invisibili appunto dalla negazione spostata (TNM e CEI). Vediamolo meglio in questo schema:
Il fatto è che la negazione μὴ (mè, “non”) è riferita nel testo greco originale all’intera frase: “Così non da …”. La posizione della negazione non può essere spostata a piacimento. La traduzione corretta di 3b è quindi: “Così la realtà visibile non è stata originata dalla realtà percepita”. Con questa traduzione si rispetta la posizione del μὴ (mè), “non”. Il senso pieno della frase è colto, sorprendentemente, da TILC: “Così che le cose visibili non sono state fatte a partire da altre cose visibili”.
Se vogliamo esaminare filosoficamente questo concetto tutto sommato alquanto semplice, occorre prendere in considerazione la realtà del creato: da una parte è visibile come realtà vera (oggettiva) e dall’altra come realtà percepita. Guardando una montagna, il mare, un albero, un uccello o una bestia, qualsiasi cosa della cosiddetta natura, al di là di ciò che oggettivamente si vede, c’è una percezione che è personale. Ad esempio, guardando un albero, uno scienziato può vedervi una tappa evolutiva, ma un mistico può vedervi un testimone vivente del Creatore. Ora, Eb dice che solo “per fede comprendiamo che i mondi sono stati formati dalla parola di Dio” (3a). Non si giunge quindi a questa conclusione dopo un ragionamento, partendo dalla percezione della realtà visibile. Possiamo dire che Eb va ben oltre – ma senza contrastarlo! – il pensiero paolino basato sulla Bibbia stessa. Per Paolo, riguardo a Dio, “la sua eterna potenza e divinità, si vedono chiaramente fin dalla creazione del mondo essendo percepite [νοούμενα (noùmena), lo stesso verbo di Eb 11:3a] per mezzo delle opere sue” (Rm 1:19,20). E il Sl 19:1 conferma: “I cieli raccontano la gloria di Dio e il firmamento annuncia l’opera delle sue mani”. Le persone dotate di raziocinio (e i filosofi ateniesi cui Paolo si rivolgeva lo erano) dovrebbero giungere facilmente alla logica conclusione che, per dirla con le parole bibliche proprio di Eb, se “ogni casa è costruita da qualcuno”, è semplicemente ovvio e logico che “chi ha costruito tutte le cose è Dio” (3:4). La mente razionale, prendendo pur atto che la creazione deve pur avuto un Creatore, tuttavia lì si ferma. Paolo, infatti, parla di “quel che si può conoscere di Dio” (Rm 1:19). Eb va oltre: “Per fede comprendiamo che i mondi sono stati formati dalla parola di Dio”. I mondi, non il mondo. Con il raziocinio possiamo al massimo arrivare ad ammettere che l’universo non è sorto per caso; qualcuno può anche arrivare a dare il nome di Dio a chi o cosa sia all’origine dell’universo, ma lì poi si ferma. Per comprendere il disegno di Dio nella creazione, il fatto che i mondi sono stati messi in un certo ordine da Dio, la facoltà di pensare in modo logico non basta: “È per fede che …”.
Non che la fede sia contraria o alternativa alla ragione, no; la fede è oltre il raziocinio, è su un piano più alto, accede a una conoscenza cui l’intelletto non arriva con la sola razionalità.
Dopo questa profondissima e meravigliosa dichiarazione sulla fede, sorprendente quanto semplice, il nostro erudito omileta passa a declamare il suo lungo elenco. Ma ora ciascuno sa cosa vuol dire “per fede”. Ogni volta che sentirà dire pìstei, non penserà semplicemente a una fede che crede in modo migliore, che vive in un’etica superiore, che guarda in alto e ad altro, ma sentirà in sé tutta la forza e la pienezza di quel sapere per fede.
Ciascuno potrà leggere per proprio conto le singole testimonianze di fede elencate e riflettere su come la “fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono” (1:1). Qui vogliamo fare qualche altra considerazione.
Eb 11:13 Tutti costoro sono morti nella fede, senza ricevere le cose promesse, ma le hanno vedute e salutate da lontano, confessando di essere forestieri e pellegrini sulla terra. 14 Infatti, chi dice così dimostra di cercare una patria; 15 e se avessero avuto a cuore quella da cui erano usciti, certo avrebbero avuto tempo di ritornarvi! 16 Ma ora ne desiderano una migliore, cioè quella celeste; perciò Dio non si vergogna di essere chiamato il loro Dio, poiché ha preparato loro una città.
Proprio perché “tutti costoro” vissero in una situazione di fede, non sperimentarono la realizzazione di quanto promesso da Dio e in cui speravano. “La speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora?” (Rm 8:24). Infatti essi “sono morti nella fede”: nella fede, ma morti, e “senza ricevere le cose promesse” (v. 13). Il fatto che però morirono nella fede, mostra che ebbero fede davvero. Costoro, pellegrini in terra straniera e alla ricerca di una patria, in verità anelavano alla patria celeste. Quanto promesso da Dio aveva quindi a che fare con il ritorno alla prospettiva delle origini, quelle edeniche: la patria celeste, la meta eterna, era nel proposito originale di Dio, impedito dal peccato che rese tutti vagabondi sulla terra.
Si noti il tempo presente al v. 16: “Ma ora ne desiderano una migliore”, “si protendono (verso)”, mantenendoci al greco ὀρέγονται (orègontai). Si tratta di un presente rafforzato da νῦν (nyn), “ora”, “adesso”. Gli antichi patriarchi si fondono così con i credenti del tempo attuale che, come loro, ancora non ricevono l’adempimento delle promesse ma continuano ad anelare alla patria celeste.
Sapientemente, il nostro omileta non pone neppure la domanda se il suo uditorio sia disposto a nutrire la stessa speranza nella promessa della patria celeste. Li coinvolge semplicemente con il suo “ora aspirano a un [luogo] migliore, cioè uno che appartiene al cielo” (v. 16, TNM). Paolo dice: “La nostra cittadinanza è nei cieli”. – Flp 3:20.
Eb 11:32 Che dirò di più? Poiché il tempo mi mancherebbe per raccontare di Gedeone, Barac, Sansone, Iefte, Davide, Samuele e dei profeti, 33 i quali per fede conquistarono regni, praticarono la giustizia, ottennero l’adempimento di promesse, chiusero le fauci dei leoni, 34 spensero la violenza del fuoco, scamparono al taglio della spada, guarirono da infermità, divennero forti in guerra, misero in fuga eserciti stranieri. 35 Ci furono donne che riebbero per risurrezione i loro morti; altri furono torturati perché non accettarono la loro liberazione, per ottenere una risurrezione migliore; 36 altri furono messi alla prova con scherni, frustate, anche catene e prigionia. 37 Furono lapidati, segati, uccisi di spada; andarono attorno coperti di pelli di pecora e di capra; bisognosi, afflitti, maltrattati 38 (di loro il mondo non era degno), erranti per deserti, monti, spelonche e per le grotte della terra.
“Che dirò di più? Poiché il tempo mi mancherebbe per raccontare di …” (v. 32). Questa domanda retorica apparentemente dettata da un impaccio a proseguire nel suo lungo elenco, dice in verità quanto quell’elenco che testimonia la fede sarebbe lunghissimo.
L’oratore fa comunque osservare che tutta la storia di fede di Israele è anche una storia di sofferenza. Insieme alle gesta eroiche ci sono anche sofferenze che agli ascoltatori di Eb vengono evocate da parole che provocano un fremito raccapricciante: scherni, frustate, catene, prigionia, lapidazioni, amputazioni, uccisioni con la spada, miseria e indigenza, afflizioni, maltrattamenti.
L’osservazione che “di loro il mondo non era degno” (v. 38) non è solo un’amara constatazione, ma suscita anche un sussulto interiore di solidarietà e nel contempo di muto orgoglio di appartenenza a Israele. Nelle situazioni di emergenza i fedeli si distinguono sempre dalla comunità umana del mondo.
Eb 11:39 Tutti costoro, pur avendo avuto buona testimonianza per la loro fede, non ottennero ciò che era stato promesso. 40 Perché Dio aveva in vista per noi qualcosa di meglio, in modo che loro non giungessero alla perfezione senza di noi.
In 10:36 era stato detto: “Avete bisogno di costanza, affinché, fatta la volontà di Dio, otteniate quello che vi è stato promesso” e in 11:13 era stato fatto osservare che “tutti costoro sono morti nella fede, senza ricevere le cose promesse”. Ora, in 11:39 viene ribadito il concetto. Il “qualcosa di meglio” che Dio “aveva in vista” (v. 40, NR) è nel testo originale κρεῖττόν τι προβλεψαμένου (krèittòn ti problepsamènu), “di migliore qualcosa avendo provveduto”. Il “provveduto” è un chiaro riferimento al sacrificio di Yeshùa. – Cfr. Eb 2:3;3:1;7:22.
Al v. 40 troviamo un “loro” e un “noi”. “Noi” – ovvero gli ascoltatori di Eb, ma anche tutti i credenti della prima chiesa e tutti i veri credenti di oggi – dobbiamo sapere che tutto il percorso stabilito da Dio, incomprensibile per certi versi agli antenati ebrei, conduce a un “meglio” che ci riguarda, che riguarda “noi” come “loro”.
Tutta la storia della fede è racchiusa dall’inizio alla fine in Yeshùa, che Dio ha provveduto.