L’ultimo capitolo di Eb sembrerebbe quasi un’aggiunta, tanto si distingue dai primi dodici per forma e contenuto. Non è però un’aggiunta; potremmo definirla un’appendice. Il cap. 13 dimostra una volta di più che tutto lo scritto è un’omelia, scritta in forma epistolare.
I primi sei versetti di Eb 13 non presentano delle trattazioni a tema, ma contengono vari ammonimenti:
Eb 13:1 L’amor fraterno rimanga tra di voi. 2 Non dimenticate l’ospitalità; perché alcuni praticandola, senza saperlo, hanno ospitato angeli. 3 Ricordatevi dei carcerati, come se foste in carcere con loro; e di quelli che sono maltrattati, come se anche voi lo foste! 4 Il matrimonio sia tenuto in onore da tutti e il letto coniugale non sia macchiato da infedeltà; poiché Dio giudicherà i fornicatori e gli adùlteri. 5 La vostra condotta non sia dominata dall’amore del denaro; siate contenti delle cose che avete; perché Dio stesso ha detto: «Io non ti lascerò e non ti abbandonerò» [Dt 31:6,8]. 6 Così noi possiamo dire con piena fiducia: «Il Signore è il mio aiuto; non temerò. Che cosa potrà farmi l’uomo?» [Sl 56:11;118:6].
Le esortazioni qui presentate, sebbene varie, non sono generiche e date a caso; hanno a che fare con la comunità cui è rivolta l’omelia, e s’intuisce che essa era grande e alquanto agiata, viste le situazioni considerate.
Mentre i precedenti consigli riguardano il singolo credente, i successivi sono rivolti alla comunità nel suo insieme:
Eb 13:7 Ricordatevi dei vostri conduttori, i quali vi hanno annunciato la parola di Dio; e considerando quale sia stata la fine della loro vita, imitate la loro fede. 8 Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e in eterno. 9 Non vi lasciate trasportare qua e là da diversi e strani insegnamenti; perché è bene che il cuore sia reso saldo dalla grazia, non da pratiche relative a vivande, dalle quali non trassero alcun beneficio quelli che le osservavano. 10 Noi abbiamo un altare al quale non hanno diritto di mangiare quelli che servono al tabernacolo. 11 Infatti i corpi degli animali il cui sangue è portato dal sommo sacerdote nel santuario, quale offerta per il peccato, sono arsi fuori dell’accampamento. 12 Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, soffrì fuori della porta della città. 13 Usciamo quindi fuori dall’accampamento e andiamo a lui portando il suo obbrobrio. 14 Perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura. 15 Per mezzo di Gesù, dunque, offriamo continuamente a Dio un sacrificio di lode: cioè, il frutto di labbra che confessano il suo nome. 16 Non dimenticate poi di esercitare la beneficenza e di mettere in comune ciò che avete; perché è di tali sacrifici che Dio si compiace. 17 Ubbidite ai vostri conduttori e sottomettetevi a loro, perché essi vegliano per le vostre anime come chi deve renderne conto, affinché facciano questo con gioia e non sospirando; perché ciò non vi sarebbe di alcuna utilità.
Il v. 8 ha il sapore di una formula di fede dal suono liturgico (si noti come è facile da ricordare): “Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e in eterno”. Si tratta di una formulazione molto audace perché a Yeshùa vengono attribuite le stesse caratteristiche di Dio. Al v. 9 si fa riferimento a “pratiche relative a vivande”. Non si tratta delle leggi bibliche sulla purità dei cibi, perché le pratiche qui menzionate sono abbinate a “diversi e strani insegnamenti”, cosa che non può dirsi davvero della Toràh. Con tutta probabilità si tratta di pratiche ascetiche. “Il regno di Dio non consiste in vivanda né in bevanda”. – Rm 14:17.
Dal v. 10 inizia una delle parti più difficili di Eb: “Noi abbiamo un altare al quale non hanno diritto di mangiare quelli che servono al tabernacolo”. Di quale altare si parla? Giacché da tale altare sono esclusi coloro che prendono parte ai sacrifici levitici, va da sé che l’altare non è quello dei sacrifici. Da tutto il contesto appare che qui l’altare ha un senso spirituale che spiega il v. 15 che a sua volta spiega il v. 10. Si tratta di “sacrificio di lode”, contrapposto ai sacrifici animali nel tabernacolo. Coloro che praticano ancora i sacrifici levitici non hanno diritto a partecipare a questo altare su cui avviene il “sacrificio di lode” perché si sono fermati a quelli, non accogliendo Yeshùa come messia e mediatore. Si tenga presente che nell’antica alleanza il “sacrificio di lode” era costituito da sacrifici commestibili (cfr. Lv 7:11 e sgg.). Però, già in Os 14:2 era profetizzato: “Noi ti offriremo, invece di tori, l’offerta di lode delle nostre labbra”.
Nell’ultima sezione (del capitolo e dell’intero scritto) vengono ripresi i riferimenti personali:
Eb 13:18 Pregate per noi; infatti siamo convinti di avere una buona coscienza, e siamo decisi a condurci onestamente in ogni cosa. 19 Ma ancor più vi esorto a farlo, affinché io vi sia restituito al più presto. 20 Or il Dio della pace che in virtù del sangue del patto eterno ha tratto dai morti il grande pastore delle pecore, il nostro Signore Gesù, 21 vi renda perfetti in ogni bene, affinché facciate la sua volontà, e operi in voi ciò che è gradito davanti a lui, per mezzo di Gesù Cristo; a lui sia la gloria nei secoli dei secoli. Amen. 22 Ora, fratelli, sopportate con pazienza, vi prego, la mia parola di esortazione perché vi ho scritto brevemente. 23 Sappiate che il nostro fratello Timoteo è stato messo in libertà; con lui, se viene presto, verrò a vedervi. 24 Salutate tutti i vostri conduttori e tutti i santi. Quelli d’Italia vi salutano. 25 La grazia sia con tutti voi.
In questa sezione troviamo stretti collegamenti con il formulario paolino. Al v. 19, la richiesta dell’omileta di preghiere a suo favore affinché sia presto restituito alla comunità, lascia aperto il problema della sua identificazione. Lo scrittore era in viaggio? Era un missionario? Forse accompagnava Timoteo, di cui parla al v. 23? Sono tutti problemi che rimangono aperti. Di certo possiamo arguire, dati i riferimenti a Timoteo, che la comunità a cui scrisse era nell’ambito della missione paolina. Dal fatto che parla di restituzione alla comunità (v. 19) deduciamo che con essa aveva avuto stretti rapporti. La stessa cosa vale per Timoteo, come si deduce dal fatto che lo scrittore dà alla comunità notizie di lui, aggiungendo che pensa di andare da loro con lui (v. 23). Non possiamo supporre che l’omileta fosse in carcere, perché ciò per cui è rattristato è l’allontanamento più che la coercizione per forza maggiore.
Dal v. 22 sappiamo che l’omileta ha scritto di sua propria mano. Questo versetto ci dice anche che l’autore non svolgeva funzioni ufficiali in quella comunità, perché prega di accogliere la sua parola con pazienza. Suona invece fuori luogo, a prima vista, la specificazione che ha “scritto brevemente”; in verità, lo scritto è uno dei più lunghi delle Scritture Greche. Tuttavia, il “brevemente” non va valutato alla nostra maniera. Ad esempio, in 5:11, aveva scritto: “Su questo argomento avremmo molte cose da dire”, ma poi ci rinuncia perché li ritiene “lenti a comprendere”.