La parola ebraica midràsh (מדרש) deriva dal verbo ebraico daràsh (דרש) che nel Tanàch, la Bibbia ebraica, indica principalmente la ricerca, lo scrutamento, l’esame e lo studio. Vediamo ora quali sono i tratti caratteristici del Midràsh.
1) Halachà o sviluppo; norme di vita tratte da citazioni bibliche. Dt 24:1 decreta che si deve dare una lettera di ripudio quando il marito abbia trovato nella moglie “qualcosa di vergognoso”, senza determinare in che cosa consista. La halachà cercò di completarne i particolari con diverse interpretazioni. La scuola di Hillel, tollerante, aumentò le ragioni, come, ad esempio, il bruciare un piatto di pietanze (cfr. G. Flavio): R. Aqiba ammetteva come motivo sufficiente l’incontrare una ragazza più bella della propria moglie. La più rigida scuola di Shammai vi riconosceva invece solo l’adulterio. – Ghittìm 9:10; Mt 5:32;19:9.
Da Dt 25:4 (museruola ai buoi) anche Paolo deduceva la norma di dare il necessario per vivere ai predicatori e agli apostoli. – 1Cor 9:8 e sgg..
2) Leggende rabbiniche. Sono dovute al desiderio di amplificare la storia sacra trasformandola in un continuo miracolo, con il risalto della provvidenza di Dio a favore del suo popolo. La roccia da cui scaturì l’acqua dopo la percussione di Mosè seguiva gli ebrei che peregrinavano nel deserto (1Cor 10:4). E la mente occidentale, sempre ristretta nel suo cogliere il dato letterale (non comprendendo la mentalità ebraica) vi ha visto proprio Yeshùa che seguiva davvero gli ebrei. Bene traduce il passo TNM: “Bevevano al masso di roccia spirituale che li seguiva, e quel masso di roccia significava il Cristo”. Il testo originale greco è:
πάντες τὸ αὐτὸ πνευματικὸν ἔπιον πόμα· ἔπινον γὰρ ἐκ πνευματικῆς ἀκολουθούσης πέτρας, ἡ πέτρα δὲ ἦν ὁ χριστός
pàntes tò autò pneumatikòn èpion pòma: èpinon gàr ek pneumatikès akoluthùses pètras, e pètra dè èn o christòs
tutti la stessa spirituale bevvero bevanda: bevevano infatti da spirituale che seguiva roccia, la roccia e era il consacrato
NR: “Bevvero tutti la stessa bevanda spirituale, perché bevevano alla roccia spirituale che li seguiva; e questa roccia era Cristo”. Qui Paolo fa un midràsh o una riflessione sul passo biblico di Nm 20:11. Con una riflessione spirituale vuol dire questo: il popolo ebraico sarebbe perito nel deserto se Dio non avesse provveduto acqua. Dio li salvò per amore del suo popolo, certo, ma li salvò soprattutto in vista di Yeshùa che da loro doveva nascere. Se quindi il popolo non si estinse, questo essi lo dovettero a Yeshùa: quella roccia da cui scaturì l’acqua che li salvò era (in senso ebraico) ovvero significava Yeshùa. Un occidentale direbbe: furono salvati in vista di Yeshùa. Paolo, ebreo, più concretamente dice: quella roccia era Yeshùa. Si notino gli aspetti del midràsh (riflessione): “bevanda spirituale”, “roccia spirituale”; “che li seguiva” è il modo concreto ebraico per dire che Dio aveva in mente Yeshùa nel salvaguardare il suo popolo. Un occidentale direbbe: Yeshùa era nel progetto di Dio che salvaguardava il suo popolo avendo lui in mente; il semita dice: Yeshùa era lì e li seguiva perché fossero salvaguardati. Anche da questo si vede come diversi esegeti occidentali travisino molto spesso questa particolare categoria del pensiero ebraico e prendano stupidamente tutto alla lettera, inventando la preesistenza di Yeshùa.
3) Spiegazioni di particolari non espressamente indicati nella Bibbia. Mosè fu educato nella sapienza degli egiziani (At 7:22). I maghi opposti a Mosè erano Yamnes e Yambres (2Tim 3:8). Il diavolo ha altercato con l’arcangelo Michele a causa del corpo di Mosè (Gda 9, cfr. Dt 34:6). Gli angeli si sono uniti a donne umane (Gn 6; Gda 6). Pietro presenta l’ascesa di Yeshùa al cielo come una promulgazione della sua vittoria sugli angeli ribelli del periodo diluviano, ciò che il libro di Enoc (apocrifo, non ispirato) attribuiva allo stesso patriarca Enoc: “Anche Cristo ha sofferto una volta per i peccati, lui giusto per gli ingiusti, per condurci a Dio. Fu messo a morte quanto alla carne, ma reso vivente quanto allo spirito. E in esso andò anche a predicare agli spiriti trattenuti in carcere”. – 1Pt 3:18,19.
La figura di Balaam. Il libro dei Numeri offre due presentazioni diverse di Balaam. Nei capitoli 22-24, di tradizione più antica, lo descrive come un profeta pagano che, in contatto diretto con Dio, non disubbidisse mai al comando divino. Il capitolo 31, invece, lo considera responsabile della corruzione ebraica. Il midràsh adottò questa seconda presentazione, trasformando Balaam in un uomo perverso, colpevole di orgoglio, idolatra, dedito al libertinaggio. – Cfr. 2Pt 2:15 e sgg.; Gda 11; Ap 2:14; Filone, Targum, Midràsh.
Credevano gli scrittori sacri a queste leggende? Può darsi. Ignoriamo se essi le presentarono solo come esempi leggendari (come talora facciamo pure noi in certe presentazioni, creando un’illustrazione), oppure se anch’essi vi credessero. Ma in tal caso si tratterebbe di opinioni personali, che non sono insegnate; ne parlano, infatti, non per difendere tali leggende, bensì per trarne delle verità indiscutibili. Le leggende diventano un semplice veicolo per insegnare una verità spirituale. Così la vittoria di Enoc sugli angeli ribelli diviene in Pietro un mezzo per sottolineare la vittoria di Yeshùa. La necessità di parlare sempre con delicatezza è suggerita dall’esempio di Michele che disputa con satana per il corpo di Mosè e la necessità di una vita pura dall’episodio degli angeli decaduti. – Gda 9.
4) Il Midràsh toglie gli antropomorfismi divini. Il fatto che Dio scrisse la Legge con il proprio dito (Es 31:18) non sembrava corrispondere al concetto della divinità come si era andato sviluppando nel corso dei secoli presso gli ebrei, per cui i libri ebraici non ispirati scritti tra le Scritture Ebraiche e le Scritture Greche, conosciuti dai primi discepoli di Yeshùa, sostituiscono il dito di Dio (che sapeva di antropomorfismo) con gli angeli. – Gal 3:19; At 7:38.
5) Riletture di passi biblici in funzione apologetica. Gli ebrei non accettano Yeshùa perché hanno sugli occhi il velo di Mosè: “I figli d’Israele non potevano fissare lo sguardo sul volto di Mosè a motivo della gloria”, “Noi tutti, a viso scoperto, contemplando come in uno specchio la gloria del Signore”. – 2Cor 3:7,18; cfr. Es 34:30,34.
Un Midràsh su Melchisedec si rinviene in Eb 7:2 dove se ne spiega il nome “Melchisedec, re di Salem” con “re di giustizia, re di pace” in quanto i nomi hanno rispettivamente questo significato. In Eb 7:3 si aggiunge che egli era senza padre, senza madre e senza genealogia, facendone così un angelo, come si ha in un Midràsh su Melchisedec, scoperto a Qumràn. E la solita mente occidentale vi ha visto perfino Yeshùa vivente al tempo di Abraamo.
Gc 1:18, “Egli ha voluto generarci secondo la sua volontà mediante la parola di verità, affinché in qualche modo siamo le primizie delle sue creature”. Questo passo si riferisce probabilmente ad una interpretazione di Gn 1:1 (“In principio Dio creò”), data dal Salmo 119:160 che sa di qabalà. Il salmo dice che il principio o sostanza (la “somma”, nell’ebraico) della parola di Dio è “verità” (emèt): “La sostanza della tua parola è verità” (TNM). Ora, la Toràh inizia con tre parole:
בְּרֵאשִׁית בָּרָא אֱלֹהִים
bereshìt barà elohìm
in principio creò Dio
Le lettere finali della frase ebraica sono:
Queste tre lettere
ת = t
א = senza suono
מ (la ם ne è la forma finale) = m
sono rispettivamente l’ultima, la prima e la media dell’alfabeto ebraico, che disposte in ordine alfabetico danno
אמת (emèt) = “verità”
6) L’attualizzazione consiste nell’applicare passi delle Scritture Ebraiche all’epoca contemporanea. Gli esseni di Qumràn, commentando Abacuc, vedono nel “giusto” il loro Maestro di giustizia, nell’“empio” il sacerdote ostile al precedente, i kittìm (i primi abitanti di Cipro) si trasformano in romani. La Bibbia li identifica dapprima come ciprioti: “Dalla terra di Chittim” (Is 23:1); “Isole di Chittim” (Ger 2:10); “Isole di Chittim” (Ez 27:6). Giuseppe Flavio menziona Chittim e la chiama “Chetima”, mettendola in relazione con Cipro e col “nome chethìm dato dagli ebrei a tutte le isole e alla maggior parte dei paesi marittimi” (Antichità giudaiche, I, 128, [vi, 1]). Gli antichi fenici chiamavano i ciprioti kitti. Gli studiosi sono il più delle volte concordi nell’identificare Chittim con Cipro. Ma i chethìm si trasformano poi, nei libri apocrifi, in macedoni (1Maccabei 1:1;8:5), in siri (Giubilei 37:19). E nella Bibbia si trasformano in romani: “Delle navi di Chittim verranno contro di lui ed egli si perderà d’animo. Poi riverserà la sua ira contro il patto santo, eseguirà i suoi disegni e ascolterà coloro che avranno abbandonato il patto santo. Per suo ordine, delle truppe si presenteranno e profaneranno il santuario, la fortezza, sopprimeranno il sacrificio quotidiano e vi collocheranno l’abominazione della desolazione”. – Dn 11:30,31.
Si tratta di attualizzazioni che potremmo caratterizzare con un implicito “questo significa che”. Queste attualizzazioni si riscontrano spesso nelle Scritture Greche.
Matteo attualizza Is 7:14 riferendolo al concepimento di Miryàm, madre di Yeshùa (Mt 1:22). Michea viene usato per preannunciare che Betlemme sarà il luogo di nascita di Yeshùa; Matteo modifica ad arte il passo:
Geremia in realtà parlava della deportazione di Israele in esilio: “Si è udita una voce a Rama, un lamento, un pianto amaro; Rachele piange i suoi figli; lei rifiuta di essere consolata dei suoi figli, perché non sono più. Così parla il Signore: «Trattieni la tua voce dal piangere, i tuoi occhi dal versare lacrime; poiché l’opera tua sarà ricompensata», dice il Signore; «essi ritorneranno dal paese del nemico»” (Ger 31:15,16); per Matteo però preannunzia il dolore di Rachele per l’eccidio dei bimbi di Betlemme. – Mt 2:16 e sgg..
Così, la voce nel deserto che riguardava il ritorno dall’esilio viene applicata al battezzatore Giovanni (Is 40:3; Mt 3:3).
Colui che cavalca un mansueto asinello è il Cristo nel suo ingresso trionfale (Mt 21:7), tratto da Zc 9:9: “Cavalca un asino, sì, un animale fatto, figlio di un’asina” (TNM) che viene inteso da Matteo come due animali. Qui però va detto che – anche se Mr 11:7, Lc 19:35 e Gv 12:14,15 indicano che Yeshùa cavalcò un puledro o un giovane asino e non menzionano la presenza di un asino più vecchio, mentre Mt 21:7 parla si un’asina e del suo puledro – Yeshùa ovviamente non poteva sedere su due animali (sedette sui mantelli stesi sul puledro); dato che non cavalcò l’asina ma il puledro, Marco, Luca e Giovanni potrebbero non aver fatto menzione dell’asina madre.
L’agnello pasquale per cui le ossa non si dovevano spezzare preannuncia l’“agnello” Yeshùa sul palo. – Gv 19:36; cfr. Es 12:46.
Il campo del vasaio comperato con il denaro di Giuda è profetizzato da Zc 11:12.13 (“Io dissi loro: «Se vi sembra giusto, datemi il mio salario; se no, lasciate stare». Ed essi mi pesarono il mio salario: trenta sicli d’argento. Il Signore mi disse: «Gettalo per il vasaio, questo magnifico prezzo con cui mi hanno valutato!». Io presi i trenta sicli d’argento e li gettai nella casa del Signore per il vasaio”), secondo l’interpretazione che ne fa Matteo (Mt 27:9,10), che però presenta il passo di Zaccaria come profezia di Geremia!
Isaia profetizza i farisei, secondo Mt 15:7; di fatto Is 29:13 parlava del popolo a lui contemporaneo. Yeshùa prende su di sé i dolori (Is 53:4; Mt 8:16 e sgg., li toglie da noi). La pietra rigettata è Yeshùa (Sl 118:22; Is 28:16: 1Pt 2:4-8). Le punizioni del deserto durante l’Esodo diventano un monito per i discepoli di Yeshùa (1Cor 10:1-22). Le lezioni del Diluvio sono prese a modello da Yeshùa per ammonire i propri contemporanei. – Mt 24:37-42.
C’è in questo metodo dell’attualizzazione delle Scritture un preziosissimo suggerimento per noi. Quando leggiamo la Bibbia possiamo applicarla a noi stessi oggi. Rivivendo gli eventi del passato, immedesimandoci in essi, possiamo collocarci in quelle stesse circostanze e riflettere sul nostro comportamento, sulla nostra vita, su cosa ci insegna il testo biblico, su cosa dovremmo fare per essere sempre più ubbidienti e conformi all’amorevole e meraviglioso progetto di Dio. Questo affascinante soggetto è trattato nello studio La lectio divina, nella categoria Spiritualità biblica.
7) Leggende. Sono di tipo ben diverso dai miti, i quali attribuiscono certi eventi, di cui s’ignorano le cause, a interventi diretti di esseri divini. Mito è il concepimento di rea Silvia ad opera del dio Marte, dalla quale sarebbero nati Romolo e Remo. Mito sarebbe il concepimento verginale di Yeshùa, qualora non fosse un dato storico, come effettivamente è. Di questi miti parla il Bultmann, che li vuole eliminare dai Vangeli (demitizzazione!). La leggenda tende invece ad esaltare alcune persone, riferendo episodi miracolosi e straordinari. Di questo tipo è la leggenda aurea per i “santi” del Medioevo, oppure le varie passioni dei martiri con tratti evidentemente leggendari. Alcuni pensano che a questo genere letterario si possano riallacciare le vite di Elia e di Eliseo, nel ciclo che vi si riferisce del libro dei Re, che presenta continui eventi straordinari, che mancano, invece, nel resto del libro. Il problema merita uno studio profondo che non è ancora stato attuato del tutto. Attenzione, in ogni caso, a non confondere leggenda con mito.
Come storia romanzata, nella quale cioè l’abbellimento artistico o leggendario prevale sul dato storico, alcuni vorrebbero introdurre gli episodi di Daniele, i dati del libro di Ester e la narrazione di Giona, che sarebbe più una parabola che un racconto storico. È possibile; è uno studio che si deve attuare, non per sfuggire al miracolo, ma per mostrare meglio le differenze formali tra i libri storici della Bibbia e questi racconti, per mostrarne meglio il genere letterario diverso. Ogni genere letterario ha una sua verità, che va tratta dall’intento avuto dallo scrittore nel presentare il proprio racconto.
8) Miti? La realtà può essere vista in due modi: in quello mitico e in quello storico. La mentalità mitica, messa di fronte al mondo, non lo considera come appare, ma se lo immagina quale frutto di scontri tra forze personificate e divinizzate che misteriosamente stanno dietro alla realtà. Anche i fatti storici – nei miti – più che risultato di forze politiche e sociali, riflettono contrasti tra esseri divini. Tali miti in modo speciale riguardano l’origine del mondo e i primordi dell’umanità. La Bibbia conosce questi miti antichi, diffusi presso i sumeri, gli accadi, i fenici, ma ne usa in modo assai sobrio, più come tratti poetici che come realtà accolte nella propria fede (e solo con l’intento di mostrare la superiorità del Dio d’Israele su tutto il creato). Quanta differenza tra il maestoso racconto della creazione della Genesi (cap. 1) e l’epopea babilonese (Enuma Elish) secondo la quale Marduc fabbricò il mondo con il corpo del mostro Tiamat, suo rivale, e da lui debellato con difficoltà enormi! Di più, la Bibbia, anche quando allude alla lotta di Dio con esseri anti-divini, ne parla solo incidentalmente e per meglio portare in enfasi la superiorità infinita del Dio israelitico. Il passo: “Spezzasti la testa al leviatano, lo desti in pasto al popolo del deserto” (Sl 74:14), sotto la figura del primitivo mostro acquatico raffigura la liberazione di Israele dall’Assiria e dalla Babilonia: “In quel giorno, il Signore punirà con la sua spada dura, grande e forte, il leviatano, l’agile serpente, il leviatano, il serpente tortuoso, e ucciderà il mostro che è nel mare!” (Is 27:1). Abbiamo qui una storicizzazione del mito! Il mostro presentato nella mitologia cananea è qui ridotto a puro giocattolo nelle mani di Dio.
Nei libri poetici non mancano tracce di tale lotta epica, ma esse sono immagini poetiche anziché realtà ammesse dagli ebrei: “Dio stesso non stornerà la sua ira; sotto di lui devono inchinarsi i sostenitori di colui che infuria” (Gb 9:13, TNM); ciò che è tradotto “i sostenitori di colui che infuria” (frase oscura) e che NR cerca di spiegare con “i campioni della superbia” è in realtà nel testo originale ebraico: “Gli aiutanti di ràhav [רָהַב]”; questo ràhav era un mitico mostro marino. Poeticamente, la Bibbia mostra la superiorità del Dio di Israele sui sostenitori pagani di questi miti.
In Is 51:9,10 si legge: “Destati, destati, rivestiti di forza, o braccio di Geova! Destati come nei giorni di molto tempo fa, come durante le generazioni dei tempi antichi. Non sei tu quello che fece a pezzi Raab [רָהַב (ràhav), il mitico mostro marino], che trafisse il mostro marino? Non sei tu quello che prosciugò il mare, le acque del vasto abisso? Quello che fece delle profondità del mare una via per far passare i ricomprati?” (TNM). Un ricordo dell’antico valore dell’acqua come male (la pagana Orchessa Tiamat, opposta all’ordine) riappare in diversi libri biblici: i demòni non vogliono essere costretti ad abitare nell’abisso (Lc 8:31), dall’abisso escono gli esseri malvagi (Ap 11:7; 20:1-3). All’abisso presiede un angelo detto Abaddòn o “distruzione”: “L’angelo dell’abisso. Il suo nome in ebraico è Abaddon” (Ap 9:11, TNM). Nella nuova Gerusalemme mancherà ogni traccia del “mare”: “E il mare non è più” (Ap 21:1, TNM), in quanto non vi sarà più il male, simboleggiato appunto dal mare. Non è difficile vedervi l’eco di un linguaggio mitologico dove il dio principale scende in campo contro il caos primitivo. È quanto si cantava nella liturgia di capodanno in Babilonia. Ma di una tale festa non è rimasta ovviamente alcuna traccia liturgica presso gli ebrei, nonostante lo sforzo della scuola esegetica scandinava per provarne l’esistenza.
Scompaiono nella Bibbia tutte le divinità intermedie, forze naturali personificate, indispensabili in ogni narrazione mitologica. Anche le tenebre e l’abisso primordiali, ai quali si accenna, sono trasformati in esseri docili e ubbidienti al comando creatore divino. Inoltre le narrazioni bibliche si colorano di un contenuto morale (osservare il sabato nella creazione; punire i peccati nel Diluvio) che manca assolutamente in ogni narrazione mitica. Non vi sono reminiscenze mitiche in Gn 1.
Si tratta quindi di semplici paragoni poetici per meglio sottolineare idee proprie della spiritualità israelitica. Sono simili ad altre immagini poetiche come i “satiri” che danzano per la caduta della Babilonia e dell’Idumea (Is 13:21) e che si richiamano tra loro: “I frequentatori delle regioni aride devono incontrare animali ululanti, e perfino il demonio a forma di capro chiamerà il suo compagno. Sì, là il caprimulgo [ebraico לִּילִית (lilìth)] certamente starà a suo agio e si troverà un luogo di riposo” (Is 34:14). La fantasia popolare faceva, infatti, abitare i deserti da “satiri” (lilìth) o da spiriti malvagi (Mt 12:43; Ap 18:2). Si tratta di metodi che ancora oggi noi utilizziamo senza peraltro credere ai miti soggiacenti. Noi pure diciamo che un tale è un satiro, un Ganimede, un Adone, un Orfeo, un vampiro, una sirena, una strega, ma solo per indicare che quella persona ha attitudini simili a tali esseri leggendari, ai quali ora non crediamo ovviamente più.
Anche i discepoli dei primi secoli hanno presentato Yeshùa come il buon pastore. Quando ormai l’apostasia era divampata e i veri discepoli erano ormai “cristiani”, gli hanno attribuito l’aspetto di Mercurio crioforo; la testa di Yeshùa nel mosaico dell’abside di S. Prudenziana (4° secolo) è modellata sul tipo classico di Giove. Ciò non vuol dire, nonostante la loro apostasia, che essi credessero ancora a Giove o a Mercurio, ma utilizzarono forme artistiche allora in uso e le applicarono a Yeshùa. Perché anche uno scrittore sacro non avrebbe potuto utilizzare un procedimento simile e parlare poeticamente del leviatan e del mostro marino, noti al suo tempo, per meglio presentare la vittoria di Dio sul male?
Altri esempi. L’apertura del cielo per vedere Dio (Ez 1:1), l’esistenza del mondo degli dèi del Nord, sono espressioni di origine mitica, ma servono solo per sottolineare la presenza benefica di Dio. Yhvh viene sempre dal Nord (Is 14:13,14), mai da oriente (dove giaceva il Tempio) o dall’occidente, perché era pensiero comune che a Nord (tsafòn) giacesse la dimora degli dèi (corrisponde al monte Casius, presso Ugarit, sul quale troneggiava Baal). Ciò non deve scandalizzare. Dove mai gli ebrei potevano collocare idealmente Dio se non nella parte geografica che tutti ritenevano sede divina? Certo gli ebrei non credevano agli dèi (erano assolutamente monoteisti), ma potevano pensare che Dio venisse proprio dal luogo in cui i pagani ritenevano erroneamente ci fossero i loro inesistenti dèi. Anche oggi i religiosi pensano a Dio come abitante nel cielo sopra di loro, trascurando il fatto che quello stesso cielo è per altri esattamente sotto di loro, dall’altra parte del globo terrestre. Non va preso letteralmente: è un modo di dire, che Yeshùa stesso usò: “Padre nostro che sei nei cieli”. – Mt 6:9.
Anche i cherubini posti a difesa del giardino dell’Eden si rifanno ad elementi mitologici babilonesi: i kirubu (si noti l’assonanza), messi a difesa delle porte dei templi. La descrizione di Ezechiele (1:5) si rifà ai portatori del trono che in Babilonia assumono la forma di animali. I geni babilonesi riuniscono assieme i più diversi elementi figurativi: arti di uomo, di toro, di aquila e di leone. Hanno però sempre un’unica testa. Ezechiele dà loro quattro volti che raffigurano rispettivamente le varie parti del mondo animale (uomo, toro, aquila, leone) per indicare, secondo il concetto dei gentili, lo strapotere divino su tutte le divinità. Yhvh domina lo spazio in tutte le direzioni (gli animali non devono voltarsi, ma vanno diritti in ogni direzione). Si usano gli elementi mitologici, ma solo quali mezzi espressivi della potenza dell’unico vero Dio.
Il racconto della torre di Babele, nonostante alcuni tratti di colorito mitico (Dio che scende dal cielo per vedere la torre), è un’interpretazione spirituale della famosa ziggurat babilonese (Gn 11:1-9). Infatti, la geografia del passo ci orienta verso la terra di Sennaar, ossia la Mesopotamia, e precisamente nel distretto babilonese (l’attuale Bagdad). L’uso dei mattoni cotti al sole si spiega con il fatto che in quella ragione scarseggia la pietra. Il bitume usato come elemento è dovuto all’abbondanza di petrolio in tale luogo. Il re Nabopolassar così afferma: “Feci dei mattoni; li feci preparare, mattoni ben cotti. Come un fiume dal cielo, senza misura alcuna, come una fiumana d’acqua devastatrice, comandai al canale Arachta di portarmi asfalto e bitume”. – A. Jrku, Altor: Kommentar zum A.T., Leipzig, 1923, pag. 53.
Tra le varie torri piramidali primeggia per l’imponenza della costruzione la ziggurat di Babel, esaltata dai documenti dell’epoca come una meraviglia senza pari, e che si chiamava in sumero E-temen-an-ki, vale a dire “Casa [tempio]–del-fondamento-del-cielo-e-della-terra” (esplorata da R. Koldewey nel 1899-1917, ha per base un quadrato di 91 m; la terrazza sulla quale essa si erge era di 456×412 m; cfr. A. Parrot, La tour de Babel, Neuchâtel, 1953). Di essa Apocrizione di Alessandria (4° secolo a. E. V.) dice che “era stata costruita da giganti che si proponevano di scalare il cielo”. Si tratta di un edificio a terrazze che, innalzandosi sempre più, riducevano l’estensione del loro quadrato a ogni ripiano. Ad esse si accedeva mediante apposite gradinate. Le ziggurat volevano simulare le montagne inesistenti in Mesopotamia, sulle quali gli antichi pensavano di avvicinarsi di più alla divinità posta in cielo. La ziggurat di Babel, caduta parzialmente in rovina, era indubbiamente segno dell’orgoglio umano. Nabopolassar (625-605 a. E. V.) si vantava di aver voluto rendere “il fondamento della terra simile [per stabilità] al cielo”. Nabucodonosor (604-562 a. E. V.) si gloriava di aver “costretto tutti i popoli di numerose nazioni al lavoro della E-temen-an-ki”. Tiglat-Pileser (1110-1090 a. E. V.) si vantava di aver reso “una sola bocca”, vale a dire assoggettati, “quarantadue territori”. Tale scopo della costruzione della ziggurat di Babel stava scritto nella tavoletta di Esagila (era questo il nome del tempio costruito sulla sua sommità) in lingua e in caratteri ermetici. La Bibbia ne prende lo spunto per mostrare come tale intento unificativo di “tutta la terra” (di cui si parla in Mesopotamia) sia andato fallito e l’impresa rimasta senza termine. L’espressione “una lingua sola” indica l’unificazione di vari popoli con un solo intento, con una religione sola; denota l’unità politica, morale e religiosa dei vari popoli. Era un’espressione idiomatica per indicare l’unità di azione. La “confusione delle lingue” per cui essi non comprendevano più la lingua l’uno dell’altro, significa la discordia dei vari popoli assoggettati. “Il popolo che abita in Shuanna [Babilonia] rispose l’un l’altro: No! [non si capirono più, caddero in fazioni] e complottarono ribellioni per lungo tempo, per cui stesero le mani sull’Esagila, sul tempio degli dèi, e dissiparono oro, argento, pietre preziose per pagare l’Elam”. – Pietra nera in Asarhaddon in D.D. Luckenhill, Ancient Records of Assyria and Babylonia II, pag. 242 n. 642.
La cessazione dell’opera costruttiva fu certamente dovuta a invasioni nemiche, simili a quelle di cui parla, ad esempio, l’assiro Sennacherib nel 689: “Le città e le case, dalle fondamenta al tetto, devastai, distrussi, consumai con il fuoco. Le mura, i baluardi, i templi degli dei, le ziggurat di mattoni e di terra, quante ne aveva, io le demolii e le gettai nel canale Arechta. In questa città scavai canali, feci sparire la loro terra nelle acque, annientai le loro grosse fondamenta, io le trattai peggio di un diluvio. Affinché nell’avvenire non si trovasse più il posto; città e i templi degli dèi, io li distrussi con l’acqua, io li trasformai in palude”. Con l’indebolimento del potere centrale i sudditi, prima sottomessi, si ribellarono e non furono più di una “sola lingua” come prima. Secondo il linguaggio biblico che elimina ogni causa seconda, tutto ciò è attribuito a diretto intervento divino che deve “scendere” per visitare l’“alta” torre che si eleva verso il “cielo”. La visione di questa ziggurat incompleta, che poi altri sovrani dovettero cercare di completare, fu vista da Israele come il tentativo babilonese di procurarsi fama, di stabilire un grosso impero indipendentemente da Dio, che però scendendo (egli è molto più eccelso di tutte le costruzioni umane) per attuare il suo giudizio di condanna, produsse discordie, fazioni e opposizioni con la conseguente cessazione di ogni attività costruttiva. Così la torre, che doveva essere segno di potenza e di unione, divenne simbolo di discordia e di disunione.
Che non si tratti di confusione linguistica risulta chiaro dal capitolo 10 in cui già si presentano i vari popoli con le loro differenti lingue, come se si fossero evolute in modo normale: “Questi furono i figli di Sem secondo le loro famiglie, secondo le loro lingue, nei loro paesi, secondo le loro nazioni”. – Gn 10:31, TNM.
Poi in Gn 11:1 si legge nella traduzione italiana: “Ora tutta la terra continuava ad avere una sola lingua e un solo insieme di parole”. Ma l’ebraico non ha per nulla “una sola lingua”. Il testo biblico ha “un solo labbro” (M, LXX, Vg). In 10:31, “secondo le loro lingue” è infatti לִלְשֹׁנֹתָם (lilshonotàm); mentre in 11:1 siשָׂפָה אֶחָת (sapà ekhàt), “un labbro solo”. Questa espressione (“un labbro”) è tipica per indicare “un solo sentimento”. Inoltre, quello che TNM rende “un solo insieme di parole” e che, nella nota in calce, spiega come “un solo vocabolario”, è nel testo ebraico דְבָרִים אֲחָדִים (dvarìym ekhadìym) ovvero “parole uniche”, che esprime l’idea di un intento condiviso cui attenersi (un po’ come il nostro “avere una sola parola”).
Infine, si ha il fatto che babel [= “porta di Dio”] fu fatto derivare dalla radice balbul che significa “mistura” (vale a dire “confusione” di mente, di regione, di popoli). Il vero ricordo ebraico sul loro passato s’incentra nella liberazione dall’Egitto, con Mosè, il legislatore che ha formato la morale biblica sotto la guida di Dio rivelatosi al Sinày. Da questa esperienza fondante gli ebrei risalgono pure ai patriarchi, specialmente fino ad Abraamo, non nascondendo però la circostanza non gradita che i “padri, come Tera padre di Abraamo e padre di Naor, abitarono anticamente di là dal fiume, e servirono gli altri dèi” (Gs 24:2). Più indietro risalgono al Diluvio, alla storia della caduta primitiva (peccato di Adamo e Eva), ma intessendo il tutto entro una cornice morale, priva di veri tratti mitici e contenuta in un racconto che non lasciò vasta ripercussione nei successivi scritti sacri. Questi muovono sul terreno della storia e sono estranei a tutta la letteratura mitica che tanto sviluppo ebbe presso gli altri popoli semiti. Nella storia primitiva gli ebrei introducono il quadro universale di tutti i popoli ricollegati genealogicamente a un’origine unica (Noè), il che fa vedere una valutazione storica senza parallelo con gli altri popoli antichi.