La Bibbia, nel riferire i dati scientifici, non intende fare della scienza, ma suscitare la fede in Dio; anche quando narra eventi storici, non intende trasformarsi in un manuale di storia, bensì suscitare la fede in Dio che dirige il corso dello sviluppo umano. Tuttavia, non si trasforma per questo in un libro antistorico, ma usa un metodo storiografico che segue canoni particolari.
La storia biblica è vera storia. La Bibbia supera infinitamente il semplice resoconto del cronista di un giornale (episodi) perché ci presenta una vera storia. La storia si ha solo quando si concatenano assieme gli eventi, e se ne studiano le cause e gli effetti. Essa è quindi frutto di ripensamento. È l’assioma che ha diretto il grande storiografo americano Toynbee nella sua brillante opera. Quando manca questa valutazione, che include sempre un elemento soggettivo, si ha la cronaca e non la storia (ovvero gli “annali”). Il racconto biblico è una vera storia in quanto, unico esempio nell’antichità orientale, presenta un concatenamento degli eventi storici, anche se pur esso non segue un metro umano, bensì divino. La Bibbia afferma che, non solo eventi miracolosi, ma anche l’usuale svolgimento storico dell’umanità è diretto da Dio che per mezzo suo vuole condurre gli uomini a salvezza estirpandone la malvagità. Indicando che la storia viene da Dio, la Bibbia vuole insegnarci che, secondo le leggi da lui stabilite, il peccato porta sempre con sé i germi della distruzione. Gli ebrei amano attribuire direttamente a Dio ciò che viene operato dalle cause seconde. In ciò non sbagliano, perché anche in questa loro azione è pur sempre Dio che indirettamente guida con le sue leggi l’umanità verso il perfezionamento e la salvezza. Perciò “il popolo israelitico fu il primo in Oriente che, molto prima dei greci, ebbe il concetto di storia, che non compose solo annali e cronache, ma che scrisse della vera storia”. – J. Elbogen, Historiographie, in E.Y., VIII, 1931, pag. 107; cfr. A.C. Dentain, The Idea of History in the Ancient Near East, New Haven, 1955.
“La narrazione storica si riallaccia sempre a una considerazione più alta” (Girolamo, in Ps enarr., tr. II, 2 PL 44,489). Gli ebrei non coltivarono la storia per la storia, ma con la narrazione storica diedero un insegnamento morale e spirituale e suscitarono la fede in Dio, che solo può dare salvezza, non solo a Israele ma anche a tutti gli uomini. Con molta acutezza perciò gli scrittori storici delle Scritture Ebraiche sono chiamati dagli ebrei “profeti anteriori”.
Racconti veritieri. Non è vero che gli antichi creassero ad arte gli eventi da essi narrati. Anche per loro vigeva la ricerca della verità, che era ritenuta di grande valore. Erodoto scriveva: “Quando li interrogavo su quello che i greci raccontano circa la guerra troiana e domandavo loro se fosse vero o no, mi rispondevano che essi l’avevano ricevuto dal racconto dello stesso Menelao” (Erodoto, Hist. Libri IX, ed. Didot II, 118). Lo scrittore greco sapeva distinguere il dato storico dalla favola: “Si narra pure un’altra favola, che per me non è credibile”, afferma Erodoto (Erodoto, ibidem III, 3). Anche Giuseppe Flavio, all’inizio delle sue Antichità Giudaiche, scrive: “Sono stato costretto a trattare questo per confutare coloro che con i propri scritti depravano la verità” (Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche 1, 1). Tutto ciò tanto più valeva per gli ebrei, i quali aborrivano la menzogna: “Le labbra bugiarde sono un abominio per il Signore” (Pr 12:22), e non dovevano perciò ricorrere alle frodi. È quindi gratuito asserire che la gente del 1° secolo avesse avuto un’idea differente dalla moderna circa la storicità del racconto, fino al punto di trascurare l’accuratezza reale nelle narrazioni dei fatti (cfr. Lc 1:1-4). Anche per gli antichi l’accurata relazione del passato era un dato importante. Solo nei discorsi si concedevano maggiori libertà, anche se oggi si tende a limitare anche questo particolare. Quindi al tempo in cui si componevano le Scritture Greche non si era per nulla indifferenti di fronte alla veridicità delle narrazioni storiche. Anche la gente del primo secolo sapeva distinguere tra fatto e finzione, e spesso si poneva il problema se i fatti riferiti fossero veramente accaduti.
Quindi, di fronte ad eventuali contrasti dei racconti biblici con altri testi profani, ci si può domandare se la verità stia davvero tutta dalla parte degli altri testi e l’errore solo dalla parte della Bibbia. Ad esempio, si veda il caso della sommossa di Teuda, posta da Luca in bocca a Gamaliele: “Prima d’ora, sorse Teuda, dicendo di essere qualcuno; presso di lui si raccolsero circa quattrocento uomini; egli fu ucciso, e tutti quelli che gli avevano dato ascolto furono dispersi e ridotti a nulla” (At 5:36). Secondo Giuseppe Flavio questa sommossa si sarebbe attuata più tardi (Ant. 20,5,1). Da che parte sta la verità, da che parte l’errore? Non sarebbe la prima volta che Giuseppe Flavio avrebbe commesso uno sbaglio cronologico. È ormai dimostrato che Giuseppe Flavio non è poi così affidabile circa le date. Il fatto che la Bibbia parli di “storia della salvezza” anziché di “storia” considerata in se stessa, non ci deve indurre in confusione. Vuol solo dire che l’azione, espressa nella Bibbia, si svolge entro fatti storici reali. La presentazione della salvezza divina vale solo se fondata su fatti storici, altrimenti tutto si volatilizzerebbe in una speculazione senza fondamento o in una mitologia simbolica.
Documenti. Una ricerca storica riporta i documenti e le fonti riguardanti un fatto. Ora è importante notare come anche gli scrittori biblici rimandino i lettori alle fonti che narrarono tali fatti accaduti prima di loro.
Fonti esplicite. Abbiamo delle citazioni esplicite quando gli scrittori indicano espressamente le fonti cui attingono. Esse sono date dai rimandi – ad esempio – al “Libro del giusto” (Gs 10:13), che è pure citato in 2Sam 1:18 per l’elegia di Davide su Saul e Gionata: “Questo non sta forse scritto nel libro del Giusto?”, “Si trova scritto nel Libro del Giusto”. Sono pure note, al tempo dei re, le Cronache dei re di Giuda o di Israele, spesso ricordate dal Libro dei Re (cfr. 1Re 15:23;16:14). Al tempo di Esdra e di Neemia si riportano le lettere dei samaritani scritte dal governatore Rehum al re Artaserse perché fossero fatti sospendere i lavori della costruzione del tempio (Esd 4:7-22) e del governatore Tattanai al re Dario contro la ricostruzione delle mura (Esd 5:6-17). Neemia cita l’elenco genealogico di quelli che erano tornati per primi dall’esilio. – Nee 7: 5-73.
Le Scritture Greche citano Mosè, Davide, altri. Ricordano un detto di Epimenide (poeta cretese del 4° sec. a. E. V.): “I cretesi sono sempre bugiardi” (Tit 1:12). Riportano un brano di Enoc (Gda 14), di Daniele (Mt 24:15). È naturale che nel citare questi documenti seguano la denominazione comune con cui tali libri erano chiamati, senza fare un’indagine critica della loro autenticità. Anche noi oggi parliamo di Omero, di Shakespeare, di Rama, di Zaratustra senza per questo sostenere criticamente l’esistenza dell’autore o l’autenticità dei loro libri. Per farsi capire dagli altri occorre per forza usare il nome comune che viene dato a tali scritti. Con queste citazioni gli scritti sacri non volevano nemmeno approvare sempre quanto citano, anzi talora lo riferiscono solo per confutarne l’asserzione. Così Paolo in, 1Cor 15:33, cita un detto di Menandro, senza nominarlo e senza accettarne l’insegnamento (“mangiamo e beviamo”). Anche le parole di Anania che predicono la vittoria di Sedechia sono riferite e riprovate da Geremia. – Ger 28:1-4, disapprovate poi in 28:15.
Citazioni implicite. Si tratta di documenti che sono copiati senza dire espressamente la fonte dalla quale gli autori citano. Oggi vi è il concetto di diritto di autore, il cosiddetto copyright (©), per cui il riportare brani di un altro senza citarlo sarebbe un plagio, che viene bollato assai duramente (ad esempio, il sacerdote cattolico Gemelli, fondatore della Università Cattolica, subì accuse assai pungenti da parte di studiosi tedeschi, per aver copiato alcune pagine di un altro libro senza nominarlo). Ma al tempo biblico mancava il diritto di proprietà letteraria, tant’è vero che la maggioranza dei più antichi poemi ci sono pervenuti senza alcun ricordo del loro autore. Di conseguenza l’utilizzare altre fonti non era ritenuto qualcosa di riprovevole. Che nella Bibbia vi siano delle citazioni implicite risulta evidente dalle seguenti osservazioni:
- Le molte genealogie e i vari cataloghi presenti nella Bibbia sono evidentemente citazioni di brani precedenti (1Cron 1-9). Si confronti Esd 2 con Nee 7, dove nel primo caso la citazione è implicita e nel secondo esplicita. Forse le variazioni dei nomi, se non sono dovute a errori di copisti, provengono dai diversi documenti utilizzati nei due casi.
- Confronto di Libri. L’esame dei Re e delle Cronache – compiuto con grande accuratezza dal Vannutelli – mostra che gran parte del materiale proviene da fonte comune copiata con grande disinvoltura. L’invasione di Sennacherib si legge con le medesime parole tanto in Is 36-39 quanto in 2Re 18-20, e proviene da un documento unico.
- Frasi che rispecchiano un tempo già passato. Le parole: “Le stanghe [dell’arca] avevano una tale lunghezza che le loro estremità si vedevano dal luogo santo, davanti al santuario, ma non si vedevano dal di fuori. Esse sono rimaste là fino ad oggi” (1Re 8:8) provano che si citano documenti anteriori, perché quando si scrissero i libri dei Re e delle Cronache tali sbarre non esistevano a causa della distruzione del Tempio. – Cfr. anche 2Cron 5:9.
- Doppioni. Si hanno delle descrizioni doppie di uno stesso evento, le cui divergenze – se non sono dovute a copisti – provano la derivazione da due documenti diversi.
- Diluvio: coppie da raccogliere nell’arca. Una coppia di ogni animale viene da sola nell’arca: “Due di ogni specie verranno a te” Gn 6:20). Secondo un altro racconto Noè doveva raccogliere sette paia di animali puri e di uccelli; un paio di animali impuri per conservarne la specie (Gn 7:2). Si tratta di due tradizioni diverse riguardanti il Diluvio.
- Giuseppe l’ebreo è venduto dai fratelli agli ismaeliti (Gn 37:27,28b) che diventano altrove dei madianiti (Gn 37:28°,36). Tanto Madian (25:2, da Chetura) che Ismaele (16:11, arabi da Agar) erano figli di Abraamo ed originarono popoli diversi.
- L’episodio di Sara in Egitto (Gn 12:10-19) è assai simile a quello che riguarda sempre Sara presso Abimelec re di Gerara (cap. 20) e a quello di Giacobbe presso lo stesso Abimelec. Può darsi che si tratti di tre episodi diversi, però può anche darsi che si tratti del medesimo fatto collocato da diverse tradizioni in due luoghi diversi o attribuito a due persone diverse. – Gn 26:6-11.
- Agar: fugge, per l’opposizione di Sara, prima della nascita di Isacco e viene consolata da un angelo (Gn 16:4-16); secondo un altro racconto è scacciata invece dopo la nascita di Isacco ed è consolata da un angelo. – Gn 21:4-21.
- Davide, secondo una tradizione, è introdotto nella corte del re Saul per suonare l’arpa e viene da lui amato (1Sam 16:14ss); secondo un’altra tradizione andò alla sua corte dopo la vittoria su Golia e vi rimase (1Sam 17:56-18,4). In 2Sam 21:19 a uccidere Golia è “Elanan figlio di Iaare-Oreghim il betleemita” (forse il brano corrisponde a 1Cron 20:5 e le differenze attuali sono dovute a qualche errore di copiatura?).
Che dire delle eventuali contraddizioni?
Lo Hummelauer pensava che la storia biblica, scritta secondo le “apparenze”, si fosse accontentata di ripresentare il documento così come gli appariva senza curarsi di indagare se fosse buono o meno, veritiero o errato.
Si può invece pensare che nella conservazione inalterata dei vari testi – anche se apparivano tra loro in contraddizione (cosa che doveva risultare chiara allo stesso scrittore, che non era stupido) – lo scrittore sacro, non sapendo quale scegliere per migliore, le presenta tutte quante. Ancora oggi gli arabi (che sono pur essi semiti) terminano le loro narrazioni con: “Dio sa meglio di noi ciò che è giusto”. Talora l’autore biblico presenta tali testi separati (come Davide alla corte di Saul), talora cerca di armonizzarli assieme (come nei racconti del Diluvio), come fece Taziano combinando assieme i quattro Vangeli nel suo Diatessàron (= “attraverso i quattro”).
Come i rabbini conservarono nel testo sacro anche le lezioni che ritenevano errate scrivendole con caratteri più piccoli posti in alto della riga, così gli antichi ebrei conservarono i racconti anche quando erano tra loro divergenti, per scrupolo di verità. Dio non avrebbe potuto rivelare loro quanto era vero? Ma non l’ha voluto fare, evidentemente. Forse perché a lui non interessava tanto il dato storico quanto la profonda lezione spirituale che vi stava inclusa. La sua provvidenza nel chiamare Davide alla corte di Saul, nel prepararlo alla regalità, nello scegliere la dinastia davidica a capostipite del Messia, è valida sia che vi sia entrato tramite l’uccisione di Golia o tramite il suono della cetra con cui curava la malattia nervosa di Saul. Non è il dato storico in sé che si vuol insegnare, bensì la provvidenza divina che condusse Davide alla dignità legale. Il fatto stesso che l’autore presenti entrambe le tradizioni tra loro in contrasto, fa vedere che per lui i racconti non avevano in tal caso valore in se stessi, ma solo nell’insegnamento che essi offrivano. Si devono quindi evitare gli sforzi per armonizzarli, tramite acrobazie che talora sanno di ridicolo. Ad esempio, ecco una spiegazione che si cerca di dare: “In seguito, non si sa per quali ragioni, Davide torna a casa di suo padre per un periodo di tempo indeterminato” (Perspicacia nello studio delle Scritture Vol. 1, pag. 652, alla voce “Davide”, § 5 del sottotitolo “Davide ragazzo”; il corsivo è aggiunto). E poco dopo si aggiunge: “Va notato che la Settanta, come risulta dal manoscritto greco Vaticano 1209, del IV secolo, omette il brano che va da 1 Samuele 17:55 fino a ‘filistei’ in 18:6a. Perciò Moffatt mette tutti questi versetti tranne l’ultimo fra doppie parentesi quadre, indicandoli come ‘aggiunte del compilatore o interpolazioni più tarde’. Comunque esistono prove a favore della lezione del testo masoretico” (Ibidem, § 6). Cosa significa? Significa che i LXX, vedendo la contraddizione del testo ebraico, omettono il secondo passo che contraddiceva il primo; e significa che Moffatt lo spiega adducendo “aggiunte” o “interpolazioni”. Ma si noti: i Testimoni di Geova ritengono che “esistono prove a favore della lezione del testo masoretico” (Ibidem). Siamo perfettamente d’accordo: il testo masoretico è autentico. Ma il fatto è che questo testo dice: “Ora nel momento in cui Saul vide Davide uscire incontro al filisteo, disse ad Abner capo dell’esercito: «Di chi è figlio il ragazzo, Abner?». A ciò Abner disse: «Per la vita della tua anima, o re, non lo so affatto!». E il re disse: «Domanda di chi è figlio il ragazzo». Pertanto, appena Davide tornò dall’aver abbattuto il filisteo, Abner lo prendeva e lo conduceva davanti a Saul con la testa del filisteo nella sua mano. Saul ora gli disse: «Di chi sei figlio, ragazzo?», al che Davide disse: «[Sono] figlio del tuo servitore Iesse il betleemita»” (1Sam 17:55-58). Come si vede, Saul conosce in questa occasione per la prima volta Davide. Che senso ha allora asserire che “in seguito, non si sa per quali ragioni, Davide torna a casa di suo padre per un periodo di tempo indeterminato” (Ibidem), come fa il gruppo dirigente dei Testimoni di Geova?
È interessante al riguardo ciò che riporta Massimiliano Zerwick in un suo breve studio (M. Zerwick, Il divino attraverso l’umano nei Vangeli, in Vari, La Bibbia nella chiesa dopo la Dei Verbum, Paoline, Roma 1969, pagg. 152 e sgg.). In una riunione sotto una tenda per festeggiare un occidentale, alcuni beduini narrano un racconto. L’occidentale si domanda: “Ma ciò è proprio vero?”. Tutti lo guardano stupiti: “Che vuol dire, se la storia sia vera o no?”. L’occidentale per giustificarsi dice: “Volevo dire se i fatti si sono proprio svolti così”. E i beduini stupiti: “Che vuol dire se i fatti si siano svolti così? Che importanza ha ciò? La storia ha una sua verità in se stessa”.
L’occidentale si appassiona per la verità di un fatto a scapito del suo significato; l’orientale s’interessa del suo significato a scapito talora della realtà storica. La verità per l’orientale è la verità del significato, più che la realtà del fatto, com’è invece per l’occidentale.
Va anche detto che non tutte le citazioni o le parole di altri riferite nella Bibbia sono necessariamente approvate. Alcune lo sono, come in Tit 1:12: “Uno dei loro, proprio un loro profeta, disse: «I Cretesi sono sempre bugiardi, male bestie, ventri pigri»”; e come in At 17:28: “Essendo dunque discendenza di Dio, non dobbiamo credere che la divinità sia simile a oro, ad argento, o a pietra scolpita dall’arte e dall’immaginazione umana” (il passo va preso però in senso non panteista); e perfino come in Gv 11:50: “Non riflettete come torni a vostro vantaggio che un uomo solo muoia per il popolo e non perisca tutta la nazione”, dove però si danno alle parole un senso nuovo. – Cfr. v. 51.
Norme della storiografia biblica
Per meglio comprendere i racconti biblici è necessario ricordare alcune norme che qui richiamiamo brevemente. Esse sono in funzione del fatto che la storia biblica è una storia a tesi, destinata ad esaltare Dio e a suscitare la fede nel lettore, come afferma chiaramente il Vangelo di Giovanni: “Questi sono stati scritti, affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e, affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome”. – Gv 20:31.
Ecco i criteri più importanti e più evidenti:
- Scelta del materiale con schematizzazioni;
- Sottolineamento dei tratti che più interessano, rafforzandoli, ingrandendoli, esagerandoli;
- Invenzione di particolari;
- Disinteresse per la cronologia e la topologia.
Noi chiamiamo ciò falsificare la storia, ma l’orientale ritiene questa la vera storia perché mette in rilievo ciò che per lui era essenziale.
È il caso di riprendere questi punti uno per uno.
1 – Scelta del materiale
Il Deuteronomio ha redatto una norma, a cui ubbidiscono i racconti biblici, vale a dire che Dio benedice la persona ubbidiente, ma punisce i ribelli alle leggi divine: “Ora, se tu ubbidisci diligentemente alla voce del Signore tuo Dio, avendo cura di mettere in pratica tutti i suoi comandamenti che oggi ti do, il Signore, il tuo Dio, ti metterà al di sopra di tutte le nazioni della terra; e tutte queste benedizioni verranno su di te e si compiranno per te, se darai ascolto alla voce del Signore tuo Dio: Sarai benedetto nella città e sarai benedetto nella campagna […] Ma se non ubbidisci alla voce del Signore tuo Dio, se non hai cura di mettere in pratica tutti i suoi comandamenti e tutte le sue leggi che oggi ti do, avverrà che tutte queste maledizioni verranno su di te e si compiranno per te: sarai maledetto nella città e sarai maledetto nella campagna ”. – Dt 28:1-3,15,16.
Il libro di Samuele vuole essere la dimostrazione di ciò: la parabola discendente di Davide ebbe inizio con l’adulterio con Betsabea (Batsheba) e dopo il censimento da lui compiuto contro il volere divino. Il libro dei Re insiste nel raccontare le gesta meravigliose di re devoti come Salomone (anche se alla fine si rovinò), di Ieu (in Israele, anche se la sua crudeltà contro gli apostati oltrepassò i limiti divini); di Ioas, Ezechia, Giosia (la morte di costui in battaglia ad opera di Neco fu dovuta all’ira divina per i peccati di suo padre Manasse – 2Re 23:26; per le Cronache dipese invece dal fatto che non ascoltò lui stesso la voce del Signore che gli parlava per mezzo di Neco – 2Cron 35:21 e sgg.).
Il benessere economico e sociale di Omri (che fondò Samaria e che ne ornò il palazzo con avori rinomati e la cui fama oltrepassò i confini della nazione tanto da rendere noto il regno di Israele con l’epiteto di casa di Omri (assiro Bit-Humri), è presentato con pochissime parole perché non si adattava all’intento didattico e pedagogico dello scrittore. Di lui si dice solo che “comprò da Semer il monte di Samaria per due talenti d’argento; costruì su quel monte una città; e alla città che costruì diede il nome di Samaria dal nome di Semer, padrone del monte. Omri fece ciò che è male agli occhi del Signore, e fece peggio di tutti i suoi predecessori”. – 1Re 16:24,25.
Il libro delle Cronache intende mostrare che Davide, il centro della storia ebraica, organizzando il culto e il regno detenne il posto occupato da Mosè nel Pentateuco. Di conseguenza il cronista elimina tutto ciò che non si adegua a tale visione: il popolo scismatico di Israele scompare perché il vero Israele è il popolo di Giuda. Volendo presentare Davide come il re teocratico di Israele, il cronista lo idealizza in modo da stendere un velo sulle sue colpe, annotate però in 2Sam. Scompare l’adulterio con Batsheba; il suo censimento è attribuito a satana (“Satana si mosse contro Israele, e incitò Davide a fare il censimento d’Israele”, 1Cron 21:1). Nel medesimo modo svanisce l’idolatria di Salomone. Davide, accolto subito da tutte le tribù (senza il contrasto con Saul e i suoi discendenti), fissa il culto davidico, dà al figlio Salomone le norme per erigere il Tempio e il suo culto, elegge Sadoc come il vero sommo sacerdote, che legittimamente continua la funzione sacerdotale aaronnica, organizza i leviti e i cantori, e così via. Lo scopo parenetico (cioè autorevolmente esortativo, ammonitorio) e didattico, già visibile nel libro dei Re, assume nelle Cronache un’importanza ancora maggiore e presenta una visione storica più irreale, ma pur sempre vera e capace di insegnare ad Israele la via da perseguire e la necessità di confidare nel suo Dio con un atto legittimamente stabilito.
Così Luca, medico, è l’unico a riferire il fenomeno strano del sudore di sangue di Yeshùa (Lc 22:44). Egli riduce l’incapacità medica nel guarire la donna sofferente di emorragie, eliminando il particolare marciano che lei era anzi peggiorata con l’intervento dei medici. – Cfr. Lc 8:43 con Mr 5:25.
Schematizzazioni. La presentazione dei sei Giudici maggiori che, come dittatori scelti da Dio, liberarono Israele dall’oppressione nemica, segue uno schema fisso in quattro drammi: (1) Apostasia di Israele, (2) dominazione straniera, (3) pentimento e conversione del popolo, (4) liberazione ad opera di un giudice (cfr., ad esempio, Gdc 3:7-9). Tale schema potrebbe farci supporre che i Giudici abbiano esercitato la loro autorità su tutte le dodici tribù di Israele, succedendosi gli uni agli altri. Ma una lettura più attenta ci mostra che il loro potere non di rado si estendeva solo a poche tribù, e che talora la loro attività fu contemporanea a quella di altri e si estese solo a poche province del territorio israelitico.
Resurrezione di Yeshùa. I particolari sono diversi. Qui li ripresentiamo in modo sintetico indicando le possibili ragioni teologiche che influirono su queste variazioni. Secondo Matteo sembra che le apparizioni del risorto si siano avverate in Galilea, dove gli apostoli devono radunarsi e dalla quale Yeshùa comanda di andare a evangelizzare tutte le genti: “Gli undici discepoli andarono in Galilea, al monte che Gesù aveva loro designato” (Mt 28:16, TNM). Matteo anche in questo suo racconto persegue il proprio intento universalistico. La Galilea è detta “Galilea delle nazioni” (Mt 4:15, TNM) perché abitata in gran parte da non ebrei. Perciò l’autore per indicare che Yeshùa era stato inviato non solo a Israele, ma anche ai gentili, fa iniziare e finire la missione pubblica di Yeshùa nella Galilea (Mt 4:12-25;28:7,16-20). Va detto però che questo passo è dubbio (si vedano gli studi Quando e da dove avvenne l’ascensione di Yeshùa? e L’apparizione di Yeshùa risorto in Galilea nella sezione Yeshùa).
Il v. 9 del cap. 28 di Matteo (“Esse si accostarono [a Yeshùa risorto] e, presolo ai piedi”, TNM) non è in contraddizione con Gv 20:17 dove l’usuale “non mi toccare” rivolto alla Maddalena va tradotto secondo il verbo greco presente: “Non continuare a toccarmi”; bene traduce TNM: “Smetti di stringerti a me”. Il plurale (“le donne”) è una caratteristica mattaica. L’autore per il suo intento universalistico tralascia completamente le apparizioni in Giudea che non entravano nella sua visuale.
Per Luca, al contrario, sembra che le apparizioni in Galilea non esistano, in quanto egli le pone tutte nella Giudea: Yeshùa, mostratosi ai due discepoli sulla via di Emmaus, riappare a Gerusalemme dove comanda loro di predicare (Lc 24:36). Condotti poi i discepoli a Betaina, fu assunto in cielo (vv. 50,51). Gli angeli sono due (Lc 24:4,23) mentre Matteo, in contrasto con il suo solito metodo di usare il plurale, ha il singolare: “un angelo” (Mt 28:5); Giovanni invece non ricorda alcun angelo. Vi potrebbe essere qui un genere letterario: i messaggi avvengono di solito tramite gli angeli.
L’intento di Luca è di mostrare Gerusalemme come centro della storia umana, come il fulcro della salvezza. Egli perciò pone gran parte del suo Vangelo in un grande viaggio verso Gerusalemme che è la meta di Yeshùa: “Mentre si avvicinava il tempo in cui sarebbe stato tolto dal mondo, Gesù si mise risolutamente in cammino per andare a Gerusalemme” (Lc 9:51). Dopo la sua resurrezione, l’evangelizzazione parte da Gerusalemme per diffondersi sempre più lontano fino agli estremi confini della terra (Lc 24:47). E, di fatto, nel suo secondo libro (quello degli Atti), Luca descrive la predicazione apostolica che gradualmente si sposta in Samaria, poi ad Antiochia e in seguito nell’Asia Minore per poi spingersi nella Macedonia, in Grecia e infine a Roma. In tale schema teologico un’apparizione di Yeshùa in Galilea, prima ancora che in Samaria, non rientrava nella visuale lucana, per cui egli trascura del tutto le apparizioni galilaiche per riferire solo quelle giudaiche. Tuttavia, si vedano i già citati studi al riguardo (Quando e da dove avvenne l’ascensione di Yeshùa?, L’apparizione di Yeshùa risorto in Galilea, nella sezione Yeshùa).
Il Vangelo di Giovanni abbina le due tradizioni: prima parla delle apparizioni in Giudea (cap. 20), poi di quelle in Galilea (cap. 21). Non più angeli, non apparizione alle donne, ma solo alla Maddalena. Nella prima apparizione a Gerusalemme, senza Toma, Yeshùa comunica il potere di rimettere i peccati, che corrisponde alla grande missione del battesimo affidata agli apostoli secondo Matteo e alla predicazione del ravvedimento secondo Luca.
Ripetizioni. Luca riferisce tre volte a lungo, e con particolari che variano, la chiamata di Paolo (At 9:22;26) e due volte quella di Cornelio, seguendo un metodo in uso per sottolineare in tal modo l’importanza per la congregazione nascente della chiamata di Paolo, l’apostolo dei gentili, e del battesimo del centurione pagano.
2 – Ingrandimenti esagerati
Drammatizzazioni. Il genio ebraico tende a drammatizzare il racconto degli eventi poiché manca dello stile indiretto e presenta in modo drammatico anche i moti della vita interiore e i misteri del mondo invisibile. Da qui le “messe in scena bibliche capaci di ingannare un lettore meno avvertito” (A. Durand, Inerrance Biblique, in Dict Apol Foi Cathol. 2, 1924, pag. 772), ovvero il lettore occidentale che non conosce i modi espressivi semitici.
Si ricordino le due riunioni angeliche presso Dio nelle quali egli permette a satana di tentare Giobbe (Gb 2:1-7) e quella al tempo di Acab nella quale permette allo spirito menzognero di ingannare Acab. – 1Re 22:19-23.
Amplificazioni numeriche. Gli scrittori orientali, per meglio colpire la fantasia e imprimere nel lettore l’idea presentata, usano le amplificazioni numeriche. L’onnipotenza divina è esaltata dicendo che i soldati di Asa, re di Giuda, sconfissero l’esercito di Zara il cushita, composto di un “milione” di uomini, in modo così grandioso che “ne caddero tanti, che non ne rimase più uno vivo” (2Cron 14:7-14). La generosità di Davide è magnificata affermando che il re preparò per il Tempio “centomila talenti d’oro e un milione di talenti d’argento, e il rame e il ferro non c’è modo di pesarli perché sono in gran quantità” (1Cron 22:14, TNM); e i Testimoni di Geova, con mentalità occidentale, si mettono pure a fare il conto con tanto di cambio: “Circa L. 54.720.000.000.000, calcolando l’oro a L. 16.000 il grammo” e “Circa L. 10.260.000.000.000, calcolando l’argento a L. 300 il grammo” (TNM, note in calce), portando il totale – solo per l’oro e l’argento – a 64.980.000.000.000 ovvero 64.980 miliardi di vecchie lire, pari a circa 33,5 miliardi di € (pari a una’odierna manovra finanziaria dell’Italia che conta ben più di 20 volte la popolazione ebrea del tempo!); ma l’enormità forse è più visibile comparando il peso: 3.420.000 kg ovvero 3.420 tonnellate di oro e 34.200.000 kg ovvero 34.200 tonnellate d’argento, il che equivale a un totale di 37.620 tonnellate solo per l’oro e l’argento (che equivale alla stazza lorda di una grande nave da crociera – se fosse composta solo da oro e da argento – che non troverebbe certo neppure posto sulla spianata del Tempio). Oltretutto si tratta di una quantità introvabile in Israele.
La potenza di Salomone è fatta risaltare dicendo che i suoi sudditi “numerosissimi, come la sabbia che è sulla riva del mare” “mangiavano e bevevano allegramente” (1Re 4:20), perché “l’argento a Gerusalemme diventò comune come le pietre” (1Re 10:27). La sua corte consumava una quantità enorme di viveri: “La fornitura giornaliera di viveri per Salomone consisteva in trenta cori di fior di farina e sessanta cori di farina ordinaria; in dieci buoi ingrassati, venti buoi di pastura e cento montoni, senza contare i cervi, le gazzelle, i daini e il pollame di allevamento” (1Re 4:22,23) e il suo harem era assai numeroso: “settecento principesse per mogli e trecento concubine” (1Re 11:3), il che porterebbe – se fosse vero – a dedicare un solo giorno (o notte), in media, a ciascuna donna una volta ogni 2 anni solari e 9 mesi circa; in modo più ridimensionato, il Cantico dei Cantici parla di “sessanta regine, ottanta concubine e fanciulle innumerevoli” (Cant 6:8) da cui risulta che il computo del libro dei Re è un’esagerazione e include semplicemente anche tutte le ragazze di corte.
3 – Invenzione di particolari
Genealogie. Secondo il presbitero Girolamo (morto nel 420 E. V.) i giudei avrebbero una predilezione per le genealogie, che conoscevano a meraviglia, risalendo assai indietro nel loro elenco, anziché fermarsi come noi alla sola paternità. “I [giudei] sono abituati sin dalla loro infanzia a ricordare tutte le genealogie da Adamo fino a Zorobabele a memoria così velocemente che tu pensi che essi riferiscano il loro proprio nome” (Girolamo in Ad Titum 3,9 PL 36,595). Tuttavia, occorre ricordare che le genealogie bibliche hanno dei procedimenti loro propri, che bisogna conoscere per comprenderne il senso profondo. Esse possono seguire le seguenti linee direttive:
- Vera nascita da padre e figlio;
- L’adozione, come si vede nel caso di Yeshùa a riguardo di Giuseppe;
- Il levirato, per cui il figlio nato da un padre reale e da una vedova, viene ritenuto figlio del cognato defunto e primo marito della vedova senza alcuna discendenza (Dt 25:5-10);
- Possono poi avere un carattere fittizio, per ricollegare dei dati storici. Tale è il caso di Gn 10 dove i vari regni e le varie città sono riunite in forma genealogica.
Il Durant per documentarne il valore creò un esempio simile tratto dalla storia moderna, che così si potrebbe ricostruire sulla scia della genealogie antica: “Roberto il Diavolo generò Guglielmo di Normandia, Guglielmo generò Inghilterra, Inghilterra generò Stati Uniti, Stati Uniti generò Washington”. – P. Durant, Critique Biblique, in Dict Apol I, col 797.
Le genealogie ubbidiscono talora a princìpi teologici. Così la genealogia di Yeshùa in Matteo si suddivide in tre serie di 14 nomi ciascuna, forse per ricollegarle a Davide, il cui nome calcolato in cifre dà appunto il numero quattordici. Infatti, le consonanti D(a)V(i)D(e) (ebraico דוד) danno tale somma: 4 + 6 + 4 = 14. Per raggiungere tale scopo, Matteo (in 1:8) tra Ioram e Giosia tralascia tre re: Acazia, Ioas, Amasia, quasi come una damnatio memoriae. Infatti, così scrive Girolamo (in Mt 1:8 PL 26,29): “Siccome Matteo si era proposto di distribuire tutto in tre serie di 14 numeri, e siccome il figlio di Ioram si era invischiato con l’empia Gezabele, se ne toglie la memoria sino alla terza generazione”. Non manca però la solita spiegazione (errata) all’occidentale: “Uno dei problemi posti è perché Matteo ometta alcuni nomi riportati negli elenchi di altri cronisti. Prima di tutto, per provare la propria discendenza non era necessario menzionare per nome ogni anello di congiunzione. Per esempio Esdra, nel provare la propria discendenza sacerdotale, in Esdra 7:1-5, omise diversi nomi riportati nell’elenco della discendenza sacerdotale in 1 Cronache 6:1-15. Ovviamente non era necessario che menzionasse tutti i suoi antenati per convincere gli ebrei della sua discendenza sacerdotale. Lo stesso vale per Matteo: egli senza dubbio consultò il registro ufficiale e copiò da esso, se non ogni nome, almeno quelli necessari a dimostrare la discendenza di Gesù da Abraamo e Davide. Aveva accesso anche alle Scritture Ebraiche, che consultò insieme alle registrazioni ufficiali” (Perspicacia nello studio delle Scritture Vol. 1, pag. 1012, al § 1 del sottotitolo “Attendibilità delle genealogie dei Vangeli”, alla voce “Genealogia di Gesù Cristo”). Matteo avrebbe riportato “se non ogni nome, almeno quelli necessari a dimostrare la discendenza di Gesù da Abraamo e Davide” (Ibidem). Ma – se così fosse – perché Matteo parla di 14 generazioni e lo precisa pure? “Quindi tutte le generazioni da Abraamo fino a Davide furono quattordici generazioni, e da Davide fino alla deportazione in Babilonia quattordici generazioni, e dalla deportazione in Babilonia fino al Cristo quattordici generazioni” (Mt 1:17, TNM). Occidentale è anche il ragionamento proposto subito dopo: “Sia gli scribi e i farisei che i sadducei erano acerrimi nemici del cristianesimo, e sarebbero ricorsi a qualsiasi argomento possibile per screditare Gesù, ma va notato che non misero mai in dubbio queste genealogie” (Ibidem, § 2). Ciò che qui non si comprende è che gli scribi e i farisei erano ebrei e, come tali, non avrebbero trovato nulla da dire sul conteggio sbagliato perché per loro non era sbagliato.
Luca (3:23-38) invece presenta 72 anelli, perché tale numero secondo la tradizione è quello delle nazioni (cfr. Gn 10). Yeshùa così ricapitola tutto il genere umano in se stesso (Ef 1:10). “Perciò la genealogia di Luca da Adamo a Cristo pone 72 generazioni; congiungendo la fine con il principio significa che Gesù avrebbe ricapitolato in se stesso tutte le lingue e le generazioni degli uomini che si erano disperse dopo Adamo. Perciò da Paolo lo stesso Adamo è detto il tipo del futuro Adamo”. – Epifanio, Contra haereses 3,22,3 oppure cap. 33 in PG 7,958.
Approssimazioni nei particolari. Mentre l’occidentale moderno, anche nei minimi particolari, cerca di essere accurato, lo storico biblico (come in genere tutti gli antichi) guarda alla sostanza, ma si riserva maggior libertà nei particolari, tanto nei racconti quanto nei discorsi.
Nei racconti. Si spiegano in tal modo le piccole differenze tra i racconti del libro dei Re e quello delle Cronache. In Gv più soldati danno da bere a Yeshùa mediante una spugna inzuppata di aceto (Gv 19:29), mentre in Mt ciò lo fece un soldato solo (Mt 27:48). La diversità sul mezzo usato: la canna per Matteo e il ramo d’issopo per Giovanni, si spiega probabilmente con la critica testuale. Un ramoscello d’issopo non può servire per sollevare la spugna inzuppata, in quanto non è lungo e non ha consistenza; serve infatti per spruzzare l’acqua, non per elevare un peso, anche se piccolo. Si è quindi proposta una correzione: non sarebbe üssòpo (“issopo”) ma ΰsso (“lancia”), per cui si avrebbe: “Posta una spugna su una lancia”. L’errore sarebbe dovuto a diplografia (ripetizione errata di una sillaba (op, nel nostro caso). Così, dall’originale ΰsso (“lancia”), si giunse a üssòpo (“issopo”) per l’errore di un copista che copiò due volte la stessa sillaba op (le parole nei manoscritti sono tutte attaccate):
ὑσσώπῳπεριθέντες
üssopoperithèntes
Tuttavia, anche in tal caso vi è sempre una leggera differenza: “canna” in Mt e “lancia” in Gv. La seconda lezione è più probabile perché le lance erano a disposizione immediata dei soldati. Di solito è Matteo a preferire il plurale (di categoria?).
I discepoli mormorano contro la prodigalità di Maria (Mt 26:8), mentre secondo Giovanni (12:4) ciò fu compiuto solo da Giuda; gli indemoniati di Gerasa sono due (Mt 8:28), ma per Luca e Marco è solo uno (Mr 5:1; Lc 8:27); per Matteo entrambi i ladroni sul palo o croce oltraggiano Yeshùa (Mt 27:38,44), per Luca è solo uno (Lc 23:39); per Matteo Yeshùa appare a più donne (Mt 28:9,10), per Giovanni solo alla Maddalena (Gv 20:11-17); i cechi di Gerico sono per Matteo due (Mt 20:30), mentre per Marco e Luca sono solo uno (Mr 10:46; Lc 18:35). Secondo Matteo (8:5) è il centurione in persona che parla con Yeshùa, ma in Luca (7:3) egli non è presente e parla tramite alcuni amici.
Anche il suicidio di Giuda mostra una grande differenza nei due racconti di Matteo e di Luca (Atti) che è ben difficile concordare. Per Matteo s’impiccò (27:5), per Luca si precipitò squarciandosi il ventre cosicché le interiora si sparsero (At 1:18). Si è creato il romanzo che Giuda, essendosi spezzata la corda o il ramo, sarebbe caduto dall’albero al quale si era impiccato, con la successiva rottura del ventre e fuoriuscita delle interiora. È la teoria che sposano i dirigenti dei Testimoni di Geova: “Mentre Matteo sembra indicare la maniera in cui avvenne il tentato suicidio, Atti ne descrive i risultati. A quanto pare Giuda legò una fune al ramo di un albero, si mise il cappio al collo e tentò di impiccarsi saltando giù da una rupe. Sembra però che la fune o il ramo si sia spezzato così che egli precipitò e si sfracellò sulle rocce sottostanti. La topografia dei dintorni di Gerusalemme mostra che questa conclusione è ragionevole” (La Torre di Guardia del 15 luglio 1992, pag. 6). Ma è una ricostruzione non verace perché il testo dice, in At 1:18, “essendosi precipitato” (da un’altura posta sui monti; ne esistono tante a Gerusalemme). Il greco ha πρηνὴς γενόμενος (prenès ghenòmenos), “con capo in giù ponendosi”. La voce media passiva del verbo indica un’azione compiuta su se stesso (ghenòmenos). Al di là del verbo (che rimane determinante), non si comprende come lo spezzarsi della corda dell’impiccagione (di per sé già strano) abbia permesso al corpo di Giuda di cadere “con [il] capo in giù” (testo greco). È molto meglio dire che la sostanza del fatto consiste nel “suicidio”, che poi gli autori descrissero ad arte come sembrò loro meglio per mostrare la conseguenza del tradimento di Yeshùa e la punizione divina dei malfattori. Così come si può pensare che la morte di Erode sia descritta secondo uno schema comunemente applicato agli idolatri: “Roso dai vermi”. – At 12:23.
Luca tralascia il ritiro di Paolo in Arabia, di cui lo stesso Paolo parla: “Me ne andai subito in Arabia; quindi ritornai a Damasco” (Gal 1:17), e lo blocca in uno dei due soggiorni dell’apostolo a Damasco (At 9:9-25). Gli eventi di Gerusalemme sono presentati come se fossero frutto di una sola riunione, mentre secondo alcuni autori di riunioni ce ne sarebbero state due e forse anche tre (vedere i nostri studi sulla vita di Paolo).
Nei discorsi. Anche i greci e i latini utilizzavano i discorsi dei loro protagonisti per mostrare la propria personale eloquenza, per cui la storia diveniva “un’opera di grande valore retorico” (Cicerone, De leg. 1,2,25, “opus oratorium maxime”). Gli autori ponevano sulle labbra dei loro personaggi delle magnifiche arringhe create di sana pianta dallo scrittore. Qualcosa di simile, anche se non inventato del tutto, fu compiuto dagli scrittori sacri. Un esempio assai evidente si ha nelle parole che Natan rivolge a Davide in nome di Dio quando lui vuole costruire il Tempio al Signore; in modo sobrio gli dice: “Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu riposerai con i tuoi padri, io innalzerò al trono dopo di te la tua discendenza, il figlio che sarà uscito da te, e stabilirò saldamente il suo regno. Egli costruirà una casa al mio nome e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno. Io sarò per lui un padre ed egli mi sarà figlio; e, se fa del male, lo castigherò con vergate da uomini e con colpi da figli di uomini, ma la mia grazia non si ritirerà da lui, come si è ritirata da Saul, che io ho rimosso davanti a te” (2Sam 7:12-15). Il libro delle Cronache, riferendo il medesimo discorso senza accennare alla sua possibile defezione, esalta ancor più la gloria di Salomone, presentandolo in forma messianica, e vi aggiunge: “Egli mi costruirà una casa, e io renderò stabile il suo trono per sempre. Io sarò per lui un padre, ed egli mi sarà figlio; e non gli ritirerò la mia grazia, come l’ho ritirata da colui che ti ha preceduto” (1Cron 17:12,13). Tali discorsi furono creati (così come sono) da persone vissute dopo Salomone.
Il libro degli Atti introduce una trentina di discorsi (quasi un terzo di tutto il libro) dei quali otto sono posti in bocca a Pietro e dieci attribuiti a Paolo: è interessante notare che tutti sono stilisticamente poco differenti in quanto tutti gli oratori parlano come scrive Luca. Vi si possono distinguere tre tipi:
Un primo tipo riflette il primitivo messaggio rivolto ai giudei e ai gentili, riporta il kèrygma (= annuncio) apostolico della vita, morte e resurrezione di Yeshùa intrecciato con profezie delle Scritture Ebraiche e si chiude poi con un appello alla conversione e alla fede:
Apologie personali di Paolo, le più importanti delle quali furono tenute al popolo di Gerusalemme (At 22:1-21); a Cesarea in presenza di Felice (At 24:10,21), e poi del re Agrippa (At 26:2-23). In esse Paolo difende la propria fedeltà alla professione di fede ebraica nella quale fu devotamente educato, e che poi integrò per divina chiamata con la fede in Yeshùa, la quale non è altro che il conferimento della prima.
Discorsi particolari sono quelli di Stefano (At 7:2-53), di Pietro (At 15:7-11) e di Giacomo (At 15:14-21) alla riunione di Gerusalemme, e infine quello di Paolo a Mileto. – At 20:18-35.
Dallo stile identico si potrebbe concludere che Luca li abbia creati di sana pianta. Ma occorre pure rilevare che il contenuto arcaico di tali discorsi mostra che essi rispecchiano, almeno sostanzialmente, l’annuncio primitivo, anteriore alla teologia paolina e lucana, già più evoluta, e Luca ne avrebbe quindi conservata la sostanza arcaica pur dando loro il proprio stile. Si notino nel discorso di Stefano le allusioni rabbiniche (e anche paoline) alla Toràh data dagli angeli (At 8:38; Gal 3:19; At 7:30,35), l’acquisto della tomba di Sichem ad opera di Abraamo anziché di Giacobbe:
Errore mnemonico da parte di Stefano o di Luca? Se di Stefano, non ci sarebbe alcun problema, in quanto Luca riferirebbe ciò che il protomartire aveva detto. Ma potrebbe anche essere una modifica propria di Luca (se non fu semplicemente una svista) per meglio esaltare l’importanza del terreno conquistato da colui che era il massimo patriarca. Non sarebbe questa l’unica modifica del caso esistente nelle Scritture Greche. Anche Mt abbiamo un disaccordo con Mic:
Nel caso di Abraamo/Giacobbe si potrebbe anche trattare di un errore di nome dovuto ad un copista: si dovrebbe allora correggere “Sichem” con “Malpela”, dove Abraamo comperò una grotta per seppellire Sara. Fu invece Giacobbe che acquistò a Sichem un terreno per erigervi un altare. Differenze verbali si notano anche nei seguenti detti, nei quali tuttavia la sostanza è peraltro identica:
- Mr 1:7 e Lc 3:16 hanno: “Sciogliere il legaccio dei calzari”; Mt 3:11 ha: “Portargli i calzari”. Entrambi esaltano la superiorità di Yeshùa su Giovanni il battezzatore.
- Mt 10:10 e Lc 9:3 hanno: “Né di bastone”; Mr 6:8 ha: “Soltanto un bastone”. Entrambi vogliono dire di portare solo ciò che è necessario.
- Lc 19:1-10 parla di “mine”; Mt 25:14-30 di “talenti”. Si tratta di un adattamento di Luca alle misure greche.
Riguardo ai discorsi va notato che un’approvazione generica non ne garantisce tutti i particolari. Giobbe fu approvato da Dio (Gb 42:7), ma non lo fu in tutto. Ad esempio, in Gb 38:2 è biasimato da Dio; in 42:3 Giobbe biasima se stesso. Gli amici di Giobbe, anche se sono in generale biasimati da Dio, possono aver detto qualcosa di buono. 1Cor 3:19 cita, approvando, Gb 5:13 (“Egli prende i sapienti nella loro astuzia”): “[Dio] prende gli abili nella loro astuzia”.
4 – Disinteresse per la cronologia, la geografia e la topografia
La cronologia è trascurata. Per noi occidentali la storia va di pari passo con la cronologia, che è considerata uno degli occhi della storia, mentre per gli antichi essa non interessava molto. Per loro era importante che si fosse avverato il fatto, poco importava invece se esso si fosse attuato in questo o in quell’altro momento. Se questo fosse stato compreso dai dirigenti dei Testimoni di Geova, costoro si sarebbero risparmiate figuracce pubbliche sull’indicazione di date presunte profetiche puntualmente smentire dai fatti. Datare un fatto era poi difficile, poiché mancava un’èra riconosciuta da tutti. Si spiegano in tal modo le cifre approssimative di 20 anni (mezza generazione), 40 (una generazione), 80 (due generazioni) che ricorrono frequentemente nei libri biblici. Si spiegano pure le cifre approssimative ed esagerate dei patriarchi prediluviani di cui non si è ancora trovata la chiave esplicativa. Sono, forse, solo dei mezzi pittorici per indicare tramite una vita lunga e l’abbondanza dei figli la benedizione divina a loro riguardo (Gn 5). Enoc visse meno degli altri, vale a dire 365 anni (numero corrispondente ai giorni dell’anno solare!), ma ciò non fu un castigo, perché Dio se lo portò con sé. Attualmente, comunque, gli studi al riguardo cercano di far riferimento alle condizioni di vita prima e dopo il Diluvio.
Le difficoltà cronologiche dei re, se non sono dovute a trascrizioni errate dei copisti, sono legate al fatto che gli antichi, pur presentando una cronologia, non s’interessavano molto della sua precisione. Quando Sennacherib lasciò la Palestina (701 a. E. V.) sembra che la morte ne segnasse subito la fine, mentre al contrario egli morì circa 20 anni dopo (681 a. E. V.), due anni dopo lo stesso Ezechia. La cronologia è diretta dall’intento teologico di mostrarne la punizione divina, per cui se ne descrive subito la fine anche se essa si attuò lungo tempo dopo. – 2Re 19:35-37.
Se passiamo alle Scritture Greche vediamo un procedimento identico. Quando Yeshùa scacciò i profanatori del tempio? All’inizio della sua vita pubblica, come dice Giovanni, oppure alla fine come attestano i sinottici? La cronologia non li interessa; forse va preferito Giovanni, che sembra avere un intento più cronologico degli altri. – Gv 2:13-17; cfr. Mt 21:12-17, Mr 11:11-16, Lc 19:45,46.
Quando nacque Yeshùa? Quanti anni aveva all’inizio della sua predicazione? “Aveva circa trent’anni” (Lc 3:23); oppure circa 40 (come si potrebbe desumere da Gv 8:57: “Tu non hai ancora cinquant’anni”)? Quanto durò la sua vita pubblica? Un anno come sembra dai sinottici, oppure due anni e mezzo come si deduce da Giovanni? Quando morì? Non lo sappiamo per diretta dichiarazione dei Vangeli (occorre fare seri studi sui testi). Sono problemi che possono interessare la nostra curiosità, ma non la nostra fede, della quale solo s’interessano gli evangelisti. Già Maldonato scriveva che: “L’evangelista non ha guardato la successione temporale, bensì l’affinità degli eventi”. – Commentario al IV Vangelo, inizio.
La geografia non è molto curata. Il cieco fu guarito mentre Yeshùa usciva dalla città (Mr 10:46; Mt 20:29); per Luca invece il Maestro vi si avvicinava per (Lc 18:35). È inutile dire che usciva dalla Gerico antica (che allora più non esisteva) e stava per entrare in quella moderna. È meglio dire che si tratta di approssimazioni: Yeshùa lo guarì presso Gerico, se poi ne usciva o ne entrava, questo contava poco e nulla per i mediorientali del tempo.
Topografia. Con la generalità degli esegeti, il P. Rigaux riconosce che l’intelaiatura geografica del secondo Vangelo è tutt’altro che solida. Le sue indicazioni topografiche sono assai vaghe, come: il monte, la riva del lago, l’altra riva, un luogo solitario (B. Rigaux, Témoignage de l’évangile de Marc, Bruges). In generale scarsa attenzione è prestata per le notazioni topografiche presso gli altri scritti biblici.
Per la storia romanzata (midràsh) si veda lo studio I tratti caratteristici del Midràsh, pubblicato in questa stessa categoria.