La nozione di senso biblico. Con il termine “senso” intendiamo quel determinato concetto mentale che lo scrittore ispirato intendeva esprimere con la parola che usò. Il significato, invece, è il concetto o l’idea che la parola ha oggettivamente in sé e che ritroviamo nel vocabolario. Sebbene non vada trascurato il significato, ciò che conta per lo studioso biblico è il senso che la parola assume nella Scrittura. Ad esempio, in At 10:47 si legge: “Siano battezzati”. Ora, il testo originale dice βαπτισθῆναι (baptisthènai), letteralmente “siano immersi/sommersi”. Il significato è quindi di immergere completamente in acqua ma il senso è altro. “Battesimo [βάπτισμα (bàptisma), “immersione”] (che non è eliminazione di sporcizia dal corpo, ma la richiesta di una buona coscienza verso Dio)”. – 1Pt 3:21.
Per determinare il senso biblico occorre perciò non solo il vocabolario ma scoprire l’intenzione dell’agiografo nell’usare quella specifica parola. Le domande sono: Che senso le dava? Che cosa significava per lui? Come voleva che fosse intesa?
Non va dimenticato che con la Bibbia siamo di fronte a due autori: Dio che dà l’ispirazione e l’uomo che, ispirato, scrive secondo la sua lingua e secondo la sua cultura. Il senso che parola assume è alla fine in armonia con l’intera Bibbia e con l’intenzione dell’agiografo ispirato. Ciò vale anche per i gesti e le azioni simboliche. Occorre anche qui trovare il senso che lo scrittore e la Bibbia gli davano.
Il primo passo da fare nell’applicazione dell’ermeneutica biblica è di stabilire l’oggetto dell’interpretazione. Ovviamente ciò che vogliamo esaminare è la Scrittura, ma questa si presenta in un testo composto di parole. Sono prima di tutto le parole che devono essere definite.
C’è differenza tra senso e significato. Se una persona dice a un’altra: «Tu mi piaci», quest’ultima potrebbe domandare: «In che senso?». Il significato è quello che troviamo nel vocabolario, il senso è quello che la persona intende dare alla parola che usa. Non dovrebbe essere la stessa cosa? Non sempre.
La parola greca ἀπόστολος (apòstolos) indica nel vocabolario “un delegato, un messaggero, uno mandato avanti con ordini”; deriva dal verbo ἀποστέλλω (apostèllo) che significa ordinare a qualcuno di andare in un certo luogo, mandarlo via, congedarlo, liberarlo, perfino espellerlo o scacciarlo; in una parola, apòstolos significa “inviato” (cfr. Gv 13:16). Questo il significato. Lo storico Erodoto narra di un apòstolos, uno inviato a Mileto e non certo per scopi biblici. Nella Bibbia ha però un senso particolare. Apostoli erano le decine e decine di discepoli e discepole inviati a diffondere il messaggio salvifico; c’era poi un senso ancora più ristretto che veniva dato a questa parola, indicando i Dodici. Yeshùa è l’apostolo per eccellenza. – Eb 3:1; cfr. Mt 10:40;15:24; Lc 4:18,43;9:48;10:16; Gv 3:17;5:36,38;6:29,57;7:29; 8:42;10:36;11:42;17:3,8,18,21-25;20:21.
La parola greca ὁδός (odòs) significa “via / strada”. Con questo significato è usata anche nella Bibbia, ad esempio, quando in Mt 2:12 si dice che i maghi “tornarono al loro paese per un’altra via [ὁδοῦ (odù); “strada” (TILC)]”. Tuttavia, l’evangelista Luca usa in At 9:2 questa stessa parola con un altro senso, quando parla dei “dei seguaci della Via [ὁδοῦ (odù)]” ovvero dei discepoli di Yeshùa.
Un aspetto importante dell’ermeneutica biblica è perciò la noematica biblica. La parola nòmea (νόημα) significa in greco “pensiero”, da cui noematica ovvero lo studio dei concetti, dei pensieri veri, dei ragionamenti veri dello scrittore biblico. La noematica ci aiuta a cogliere il senso vero che la Bibbia dà alle parole e ad opporci alle nostre opinioni in merito. Quando leggiamo in Ap 1:10, nella versione di G. Diodati, che Giovanni si trovò in spirito “nel giorno della Domenica”, questa è un’opinione del traduttore. Il testo biblico ha ἐν τῇ κυριακῇ ἡμέρᾳ (en te küriakè emèra), “nel signorile giorno” o “nel giorno del Signore”. Come arriviamo a stabilire l’esatto senso della parola? Con la Bibbia stessa, perché la “domenica” è detta nella Scrittura e da Giovanni stesso “primo giorno [della settimana]” (Gv 20:1) e mai “giorno del Signore”; casomai, il “giorno del Signore” sarebbe il sabato (Es 16:23;20:10;31:13). Qui “giorno del Signore” ha però il senso che questa espressione assume nell’intera Bibbia. – 1Cor 1:8;15:24-26; Flp 1:6,10;2:16.
Per stabilire il significato di una parola occorre il vocabolario, per stabilire il senso che la Bibbia dà a quella stessa parola occorre una concordanza (detta anche chiave biblica). La concordanza biblica è un manuale in cui compaiono in ordine alfabetico tutte le parole presenti nella Bibbia. Esaminando tutti i passi, si può determinare dai vari contesti qual è il senso che la Scrittura dà a quella specifica parola. Ma attenzione: non si deve far riferimento a una concordanza nella lingua in cui la Bibbia è stata tradotta (l’italiano, ad esempio) ma alle concordanze ebraica e greca che contengono le parole originali della Scrittura.
Un esempio pratico aiuterà a capire. In Col 2:17 si legge in TNM che “la realtà appartiene al Cristo”. Se vogliamo indagare sulla parola “realtà” che qui appare, sarebbe un grave errore basarci sulla concordanza italiana. Infatti, nella Concordanza stampata dagli stessi editori di TNM e che si basa ovviamente su questa traduzione, alla voce “realtà” troviamo citati diversi passi biblici ovvero tutti quelli in cui compare la parola “realtà” in TNM. Tra questi passi vi è Eb 9:24, in cui si legge che il Tempio “è una copia della realtà” (TNM) che è in cielo. Ora, esaminando il testo biblico, si scopre che qui le parole greche originali sono τῶν ἀληθινῶν (ton alethinòn), “delle cose vere”: lo scrittore sta quindi dicendo che il Tempio è una copia delle cose reali, di ciò che ha la vera natura di quello che solo le assomiglia. Però, se si esamina la parola greca in Col 2:17, si scopre che qui la parola usata è σῶμα (sòma) che significa “corpo” e che non è mai usata per indicare la realtà.
La concordanza biblica (ebraica e greca) è quindi importantissima per stabilire il senso che una parola ha nella Bibbia. Ci sono dei limiti? Sì. Ad esempio, nella concordanza greca, alla voce διαλύω (dialýo), che è un verbo, troviamo un solo passo: At 5:36. Ciò significa che quel verbo è presente in tutta la Bibbia solo lì. Come fare in questo caso per stabilirne il senso? Prima di tutto, stabilendone il significato ovvero ricorrendo al vocabolario, ovviamente greco. Si scoprirà allora che questo verbo significa “dissolvere”. La traduzione di At 5:36 – “Tutti quelli che gli avevano dato ascolto furono dispersi e ridotti a nulla” – appare quindi corretta. Possiamo anche apprezzare la sfumatura del verbo greco, perché quei tali non furono semplicemente “dispersi” ma proprio “dissolti”, giacché il versetto specifica che furono “ridotti a nulla” ovvero sparirono, non se ne seppe più nulla.
Quando, in assenza di altri raffronti biblici, neppure il vocabolario è sufficiente, bisogna ricorrere alla letteratura comparata. Si tratta di vedere quale significato quella parola aveva in altri scritti non biblici dello stesso periodo. Anche qui un esempio pratico illustrerà bene il procedimento. In Col 2:14 Paolo dice che Dio “ha cancellato il documento a noi ostile” inchiodandolo sulla croce di Yeshùa. Abbiamo evidenziato all’inizio che lo scopo della noematica biblica è di farci cogliere il senso vero che la Bibbia dà alle parole, opponendoci alle nostre opinioni. Ora, per sapere di che “documento” si parla in Col 2:14, la prima cosa da fare è di azzerare le nostre opinioni. Lasciamo parlare la Bibbia, che sa farlo meglio di noi e che certamente lo fa in modo veritiero. Applicando la prima fase dell’ermeneutica ovvero usando la noematica, cerchiamo di stabilire significato e senso della parola “documento”. Un primo passaggio, non indispensabile e certamente non risolutivo, ma che aiuta, è di confrontare diverse traduzioni. La parola “documento” di VR diventa “il documento scritto del nostro debito” in CEI, “obbligazione” in Did, ritorna “documento” in ND e si fa “documento scritto a mano” in TNM. Pare trattarsi quindi sì di un documento ma scritto a mano e consistente in un’obbligazione. Siccome non vogliamo correre il rischio di sostenere solo un’opinione, andiamo alla ricerca del significato e del senso. Prima cosa da fare è perciò di vedere la parola originale, quella usata nella Bibbia. Consultando il testo greco si scopre che si tratta di χειρόγραφον (cheirògrafon). Ora la cerchiamo nel vocabolario greco per vederne il significato e scopriamo che si tratta di “uno scritto che qualcuno ha scritto con la sua mano”. Qualcosa in più la sappiamo, anche se non ancora tutto. Ora usiamo una concordanza greca per vedere come questa parola è usata nel resto della Bibbia. E qui facciamo una scoperta un po’ avvilente: questa parola compare in tutta la Bibbia solo lì, in Col 2:14. Che fare ora? Posiamo ricorrere alla letteratura comparata. Da questa veniamo a sapere, come conferma anche il Vocabolario Treccani, che il chirografo era un documento scritto e firmato da colui contro il quale il documento stesso poteva essere usato in una causa legale. In pratica si trattava di una nota scritta a mano in cui si riconosceva che del denaro era stato ricevuto in prestito da qualcuno e che doveva essere restituito al tempo stabilito; noi diremmo un’obbligazione, una nota di debito.
Ciò che Paolo sta dicendo è perciò che Dio ha inchiodato alla croce ovvero ha annullato la nostra nota di debito, l’elenco di tutti i nostri debiti (peccati) nei suoi confronti, che abbiamo firmato di nostra mano, con firma autografa, commettendo i nostri peccati. L’analogia debiti-peccati è presente anche nella preghiera modello insegnata da Yeshùa (Mt 6:9-13). Se la nostra opinione era che Paolo stesse parlando della Legge di Dio, questo procedimento ermeneutico ci mostra quando ci stavamo sbagliando. E non solo, perché ci fa sorgere grossi dubbi sulla traduzione che ne fa NR: “Il documento a noi ostile, i cui comandamenti ci condannavano”. Infatti, che c’entrano mai i comandamenti con un elenco di debiti autografo?
Seguendo lo stesso procedimento ermeneutico, verifichiamo la parola tradotta “comandamenti”: δόγμασιν (dògmasin). Il vocabolario greco dà come suo significato “decreti / ordinanze”. La concordanza greca ci mostra che questa parola compare nella Bibbia cinque volte in tutto e che indica ogni volta dei decreti o ordinanze umani. Per “comandamento” la Bibbia usa una parola totalmente diversa. Si tratta dunque di ordinanze legali concernenti l’obbligazione firmata a mano con cui si sottoscriveva il proprio debito.
C’è una strada in più a disposizione per comprendere il senso vero di una parola, anche se vale solo per le Scritture Greche. Si tratta della versione greca LXX. Questa versione consiste nelle Scritture Ebraiche tradotte in greco da fedeli ebrei. Portiamo ad esempio il passo di Flp 2:6 che afferma che Yeshùa era “in forma di Dio”. Questo passo è portato a prova da cattolici e protestanti per sostenere la divinità di Yeshùa. È quindi importante capire cosa intenda Paolo con “forma”.
Applichiamo il procedimento ermeneutico. Mettiamo prima di tutto da parte ogni opinione. Cerchiamo quindi la parola greca originale: μορφή (morfè). Il vocabolario ce ne dà il significato: “forma”. Non siamo andati molto lontano ma almeno sappiamo che la traduzione è conforme. Ora usiamo una concordanza greca: nella Bibbia compare solo tre volte, qui in Flp 2:6, in Flp 2:7 e in Mr 16:12 che dice: “[Yeshùa risuscitato] apparve in un’altra forma a due di loro che erano in cammino” (TNM). Dato che i due discepoli di cui si parla non lo riconobbero, pare che “forma” vada qui inteso come “aspetto”. Significa allora, in Flp 2:6, che Yeshùa aveva l’aspetto di Dio? E che aspetto ha Dio? Non lo sappiamo, perché “nessuno ha mai visto Dio” (Gv 1:18). Parrebbe perciò strano che Paolo si riferisse all’aspetto di Dio: né lui né nessun altro lo conosceva e quindi non poteva dire che Yeshùa avesse quell’aspetto. “Forma” deve avere qui un senso diverso. D’altra parte, in Flp 2:7 Paolo dice che Yeshùa prese “forma di servo” e la parola è sempre μορφή (morfè). Pare proprio che qui abbia lo stesso senso che ha in Mr 16:12 ovvero indichi l’aspetto esteriore. Ci viene un sospetto: Paolo sta forse usando un gioco di parole? Per verificare l’intuizione cerchiamo la parola μορφή (morfè) nella LXX, usando una concordanza riferita a questa versione. In Gb 4:16 troviamo questa parola greca, tradotta in italiano “aspetto” (TNM), però essa traduce l’ebraico תְּמוּנָה (tmunàh) che significa “immagine” e che la LXX traduce con μορφή (morfè). È la stessa parola che troviamo in Dt 5:8 in cui si vieta di farsi “immagine [תְּמוּנָה (tmunàh)] alcuna delle cose che sono lassù nel cielo”. La troviamo anche in Sl 17:15 in cui il salmista dice che si sazierà della “forma” (TNM) di Dio; qui l’ebraico ha תְּמוּנָה (tmunàh), “immagine”. Ora, se assumiamo la parola μορφή (morfè), che Paolo usa per Yeshùa, come “immagine”, da Flp 2 appare chiaro un raffronto tra Adamo e il secondo Adamo (Yeshùa, appunto): tutti e due erano a “immagine” di Dio ma seguirono strade diverse. Adamo non si accontentò di essere a immagine di Dio ma pretese di essere uguale a lui; Yeshùa non lo fece, anzi prese l’aspetto d’un servo. Paolo incoraggia i credenti ad avere questa stessa attitudine.