Ci sono alcuni princìpi che dovrebbero essere esclusi o, per lo meno, usati con molta cautela (se non con diffidenza) in una corretta ermeneutica biblica.
Il principio della tradizione ecclesiastica o religiosa. Soprattutto la Chiesa Cattolica Romana insiste sul fatto che per capire con esattezza il senso dei testi biblici bisogna tenere conto della viva “tradizione di tutta la Chiesa” (Dei verbum, Concilio Vaticano II, costituzione dogmatica promulgata da Paolo VI nel 1965). Non fa davvero testo quest’affermazione, fatta da una gerarchia ecclesiastica che in passato si è molto opposta alla Bibbia. Infatti, già il Concilio di Tolosa nel 1229 proibì il possesso di copie della Bibbia. Il Concilio di Terragona nel 1234 andò ben oltre: ordinò il rogo per tutte le traduzioni della Bibbia fatte dal latino. Si tenga presente che a quel tempo solo i preti e i letterati capivano il latino. Proibire la traduzione della Bibbia equivaleva a non renderla disponibile al popolo. In seguito le edizioni della Bibbia che non fossero quelle in latino vennero messe all’indice. L’Indice dei libri proibiti, creato nel 1558 dalla Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione, era l’elenco delle pubblicazioni proibite dalla Chiesa Cattolica. Fu soppresso solo nel 1966 quando ebbe termine l’Inquisizione. Quella congregazione cambiò allora nome divenendo Congregazione per la dottrina della fede, che è anche il nome attuale. Nel primo Indice del 1558 erano elencate ben 45 edizioni proibite della Bibbia; queste Bibbie comparivano tra i libri vietati insieme al Decamerone di G. Boccaccio e insieme a libri di astrologia e di magia. Le traduzioni dal latino potevano essere lette solo ottenendo una speciale licenza che veniva data solamente a chi conoscesse il latino; le donne erano tassativamente escluse. Nei successivi Indici del 1632, del 1664 e del 1681 restava in vigore la necessità di una licenza per la lettura della Bibbia in lingue diverse dal latino. Nel 1758 fu finalmente eliminato il divieto.
Questa stessa pretesa della Chiesa Cattolica di avere la chiave interpretativa della Scrittura è comune a diverse religioni. È inutile richiamarsi alla discesa dello spirito santo sulla prima congelazione nel 1° secolo: c’è un abisso tra la prima chiesa e le religioni moderne. Specialmente nelle religioni di matrice americana, i continui aggiustamenti delle interpretazioni sono indicazioni di per sé che si tratta d’interpretazioni solo umane.
La Bibbia non va compresa per sentito dire né per interposte persone che pretendono di essere i depositari della verità. Occorre quindi essere molto cauti verso le interpretazioni ufficiali. Bisogna fare come i bereani, che vagliarono le cose dette loro, “esaminando ogni giorno le Scritture per vedere se le cose stavano così”. – At 17:11.
Il principio dell’analogia del credo. Un altro modo in cui le religioni portano acqua al proprio mulino è di richiamarsi al proprio credo. Gli adepti delle religioni accettano ovviamente il corpo dottrinale della propria religione. I passi dubbi o difficili della Bibbia potrebbero essere spiegati richiamandosi a ciò. Questo procedimento è molto fuorviante ed è scorretto. L’autorità cui richiamarsi deve essere sempre e comunque la Scrittura e non un credo religioso. Così, per fare degli esempi, la donna la cui progenie avrebbe ferito il calcagno della progenie del serpente (Gn 3:15) è interpretata come la Madonna dai cattolici; ciò è perfettamente conforme al credo cattolico ma completamente estraneo alla Bibbia. Nella corretta comprensione della Scrittura deve esserci armonia con il resto della Bibbia, non con un credo religioso. Quando un’interpretazione religiosa contrasta con un passo biblico, è quell’interpretazione che va scartata. Accettare tutto per credulità non è fede ma sprovvedutezza. Non siamo “più come bambini messi in agitazione da ogni nuova idea, portati qua e là come dal vento. Gli uomini che agiscono con inganno e con astuzia non potranno più farci cadere nell’errore”. – Ef 4:14, PdS.
La suggestione del proprio pensiero. Gli esseri umani sono intelligenti e raziocinanti. Le proprie facoltà di pensare non vanno messe da parte. I bereani le usarono e furono per questo ritenuti “di mente più nobile” (At 17:11, TNM). Tuttavia, fare esclusivo affidamento su se stessi e sul proprio ragionamento può creare un condizionamento. Paolo era uno zelante fariseo (At 23:6), fedele al Dio d’Israele, sapeva ragionare, eccome; aveva frequentato la migliore scuola rabbinica del tempo (At 22:3). Eppure gli ci volle l’apparizione e la chiamata diretta di Yeshùa risorto per convincerlo Yeshùa era davvero il messia. – At 9:3-6.
Confidare esclusivamente sul proprio ragionamento è d’ostacolo. “Dice il Signore: ‘I miei pensieri non sono come i vostri’” (Is 55:8, PdS). “Guai a quelli che si illudono di essere saggi e intelligenti” (Is 5:21, PdS). Pur in buona fede tuttavia sbagliando, possiamo cadere in due errori:
- Applicare una logica puramente nostra ma non biblica. Leggendo il comando di At 15:29 di astenersi dal sangue, si potrebbe pensare che si tratti di evitare omicidi e spargimenti di sangue, e si sbaglierebbe. Questo comando non fa che confermare quello di Gn 9:4, Lv 3:17; 7:26; 17:10.
- Ragionare secondo la moderna logica occidentale nell’interpretazione del testo sacro che è espresso con mentalità semitica e mediorientale. Così, si potrebbe vedere nella preesistenza di Yeshùa la prova di una sua vita preumana, non sapendo che la Bibbia usa la categoria della preesistenza anche per il Tempio e per la Legge di Dio. Ciò fa parte della concretezza del pensiero ebraico che, refrattario alle astrazioni, materializza i concetti. La domanda da porsi sempre è: Siamo sicuri di intendere il testo come l’intendevano gli ebrei nella loro mentalità semitica? Che cosa significavano per loro quelle parole?