Vedremo in questo studio come sia necessario, per una corretta comprensione della Sacra Scrittura, tener conto della mentalità semitica che permea l’intera Bibbia.
Comprendere la concretezza del linguaggio ebraico. Per gli ebrei le astrazioni non avevano senso perché prive di realtà; il loro modo di pensare era sempre concreto. Ad esempio, rifuggivano dal concetto filosofico del nulla: per loro tutto era concretezza e realtà. Per l’ebreo neppure le tenebre erano assenza di luce, ma qualcosa di concreto simile a densa caligine: “La caligine delle tenebre” (2Pt 2:17). Come vi è la dimora della luce, doveva pur esserci la dimora delle tenebre, per cui il poeta può domandare: “Dov’è la via che guida al soggiorno della luce? Le tenebre dove hanno la loro sede?” (Gb 26:10). E Dio dice: “Io formo la luce, creo le tenebre”. – Is 45:7.
Comprendere bene la relazione tra realtà e simbolo. Secondo il pensiero occidentale di molti, le immagini prese a simbolo nella Bibbia evocherebbero la realtà. Questo procedimento è solo arbitrario: è frutto di una mentalità occidentale. Per l’ebreo biblico, infatti, non è l’immagine che evoca la realtà, ma il contrario: la realtà, già presupposta, serve a spiegare l’immagine. Per fare un esempio, quando l’ebreo Yeshùa disse: “Continuate a far questo in ricordo di me” (Lc 22:19, TNM), riferendosi al pane e al vino, gli occidentali vedono nel pane e nel vino degli emblemi che rammentano il corpo e il sangue di Yeshùa. Per loro l’immagine spiega ed evoca la realtà del sacrificio di Yeshùa. Per gli ebrei non era così. Il corpo e il sangue di Yeshùa sono la realtà già presupposta che spiega l’immagine che rinnova quella realtà. È per questo che Paolo dice: “Ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore” (1Cor 11:26); l’immagine è così forte che quasi ripete la sua morte. Yeshùa, infatti, disse: “Questo è il mio corpo” (Lc 22:19). Intuendo qualcosa del genere (la forza dell’immagine), i cattolici si spinsero oltre, vedendovi la transustanziazione (con la solita lettura occidentale alla lettera, non biblica, del forte significato ebraico). All’estremo opposto, ma sempre leggendo all’occidentale, per combattere l’errata dottrina cattolica, altri vi vogliono vedere dei simboli e traducono: “Questo significa il mio corpo” (TNM), traduzione efficace per combattere l’assurdità della dottrina della transustanziazione, ma sviante per la comprensione del forte significato ebraico.
Entrare nella mentalità semitica. Se vogliamo davvero capire la Bibbia, dobbiamo entrare nel modo semitico di concepire e di pensare. Anche nelle Scritture Greche predomina questa mentalità. Sebbene gli agiografi scrivessero in greco, pensavano in ebraico. Gli orientali, cui appartengono gli ebrei, hanno un modo di pensare ben diverso da quello occidentale, e questo si rivela negli scritti biblici, nonostante l’ispirazione divina.
Descrizione concrete (talora urtanti la nostra mentalità), spesso falsate. Se non si comprende questa differenza, non è possibile capire bene la Bibbia. Occorre accettare che la mentalità semitica è alquanto diversa da quella occidentale. Ciò che per noi risulta scandaloso, per gli ebrei era solo un modo concreto di parlare. Dio, ad esempio, è paragonato a un ubriaco che si risveglia dal vino: “Geova si svegliava come dal sonno, come un potente che torna in sé dal vino” (Sl 78:65, TNM). Le donne ricche di Gerusalemme sono paragonate alle vacche di Basan, le migliori del paese: “Udite questa parola, vacche di Basan, che siete sul monte di Samaria, che frodate i miseri, che schiacciate i poveri” (Am 4:1, TNM). Israele è paragonata agli assorbenti sporchi di una donna durante le sue mestruazioni: “Diveniamo come qualcosa d’impuro, noi tutti, e tutti i nostri atti di giustizia sono simili a una veste per periodi di mestruazione” (Is 64:6, TNM; nel Testo Masoretico è al v. 5); qui non si tratta di “veste”, come pretende TNM: è vero che il termine ebraico בֶגֶד (bèghed) usato da Isaia può significare “veste” (anche in italiano si dice “lavare i panni” intendendo ogni sorta di stoffa), ma tradurre “veste per periodi di mestruazione” non ha senso (lascia intendere che ci fosse una speciale veste femminile da indossare durante il ciclo mensile, cosa non vera); Did ha “panno lordato”, CEI ha“panno immondo”. Israele è paragonata anche ad una procace prostituta: “Tu confidavi nella tua bellezza e divenisti una prostituta“ (Ez 16:15, TNM); le due nazioni separate (Regno di Giuda e Regno di Israele) assomigliano a due sorelle adultere: “C’era una volta due sorelle, figlie della stessa madre. Quando erano ancora ragazze incominciarono a prostituirsi in Egitto dove persero la loro verginità” (Ez 23:2,3, PdS); CEI ha: “Dove venne profanato il loro petto e oppresso il loro seno verginale”, TNM – con una bruttissima espressione – ha “Là furono premute le loro mammelle, e là compressero i seni della loro verginità”.
Esagerazioni iperboliche. Per rafforzare un’idea, gli ebrei presentano dei confronti per noi esagerati o di scarso buon gusto. Nel Cantico dei Cantici il collo dell’amato è paragonato a una torre d’avorio, dalla quale pendono degli scudi; i denti sono paragonati a greggi di pecore ciascuna delle quali ha il suo compagno. Un ragazzo d’oggi si beccherebbe di certo un sonoro ceffone se rivolgesse a una ragazza il complimento che il giovane ebreo rivolgeva pieno d’amore alla sua innamorata: “Amica mia, io ti assomiglio alla mia cavalla che si attacca ai carri”, “I tuoi capelli sono come un gregge di capre”, “I tuoi denti sono come un branco di pecore, che tornano dal lavatoio” (Cant 1:9;4:1;6:6); “Il tuo naso è come la torre del Libano, che guarda verso Damasco. La tua testa su di te è come il Carmelo, e la chioma della tua testa è come lana tinta di porpora rossiccia” (Cant 7:4,5, TNM). Eppure, queste espressioni mandavano in visibilio la giovane ragazza ebrea. Era il linguaggio concreto ebraico. A ragione, il Cantico è annoverato tra le più belle pagine di poesia di tutti i tempi e di tutto il mondo.
Per indicare gli umili inizi della congregazione dei discepoli in confronto al suo futuro sviluppo, Yeshùa la paragona al “granello di senape”, “il più piccolo delle sementi”, in rapporto all’”albero futuro” (Mt 13:31,32); si potrebbe osservare che un granello di senape non è “il più piccolo di tutti i semi” (i semi dell’orchidea sono infatti più piccoli) e che non diventa proprio “un albero”, in quanto la senape rimane pur sempre un arbusto; ma bisogna tenere presente che Yeshùa usava termini comprensibili e che gli ebrei non sottilizzavano come farebbe una mente occidentale: per loro un granello di senape era senz’altro uno dei semi più piccoli, e – tra l’altro – gli arabi (semiti anche loro) chiamano “alberi” anche piante più piccole della senape. Altra esagerazione (che nel linguaggio semitico dava enfasi) era la pianta vista da Nabucodonosor in sogno: era tanto alta da giungere fino al cielo ed era visibile da tutta la terra, cosa ovviamente impossibile data la curvatura del nostro pianeta (Dn 4:17). La torre di Babele doveva arrivare sino al cielo (Gn 11:4). Per il salmista i flutti s’innalzano al cielo e scendono negli abissi (Sl 106:26). Si tratta di espressioni iperboliche, da non prendersi alla lettera: “Propose loro un’altra illustrazione, dicendo: […]” (Mt 13:31, TNM). Anche quando Saul paragona la tribù di Beniamino alla più insignificante delle tribù di Giacobbe, non fa una statistica, ma usa l’iperbole orientale: “Non sono io un beniaminita della più piccola delle tribù d’Israele”? (1Sam 9:21, TNM), tanto che NR adatta il passo, forse per la probabile obiezione di una mente occidentale (che avrebbe stupito un ebreo): “Non sono io un beniaminita, di una delle più piccole tribù d’Israele?”. Altra esagerazione: alla battaglia di Merom partecipò una quantità sterminata di soldati pari alla rena del lido marino con cavalli e carri numerosissimi (Gs 11:4). La sabbia e la pietra pesano meno del fastidio procurato da uno stolto (Pr 27:3). Dio promette ad Abraamo una posterità innumerevole come la sabbia del mare (Gn 22:17). Quando lo scrittore parla di un argomento divenuto comune come le pietre, usa un’iperbole (1Re 10:27). Anche Yeshùa, ebreo, usa delle esagerazioni: “È più facile a un cammello passare per la cruna di un ago che a un ricco entrare nel regno di Dio” (Mr 10:25, TNM); qui, tuttavia, non si tratta di “cammello”, ma di “fune” (evidente errore di un copista); si veda la somiglianza delle due parole:
κάμηλον (kàmelon), “cammello”
κάμιλον (kàmilon), “fune”
In queste che sono per gli occidentali esagerazioni (ma per i semiti solo enfasi) rientrano i suggerimenti di Yeshùa a mozzarsi una mano, a tagliarsi un piede o a cavarsi un occhio: “Se dunque la tua mano o il tuo piede ti fa inciampare, taglialo e gettalo via da te” (Mt 18:8, TNM), “Se ora il tuo occhio destro ti fa inciampare, cavalo e gettalo via da te” (Mt 5:29, TNM). Allo stesso modo, non bisogna osservare “la pagliuzza che è nell’occhio” del fratello e non badare alla “trave” che è nel proprio occhio (Mt 7:3, TNM). Per Giovanni il mondo intero, addirittura, non potrebbe contenere tutti i libri che si potrebbero scrivere su quello che Yeshùa ha compiuto durante la sua vita terrena (Gv 21:25). Bisogna pregare senza interruzione (1Ts 5:17, TNM: “incessantemente”) e leggere la Legge di Dio meditandola “giorno e notte” (Sl 1:2); e, forse, il lettore occidentale si domanda come si possa mai fare una cosa simile; Agostino connette questo versetto con la preghiera interiore che fa l’uomo virtuoso, la cui vita si trasforma così in preghiera continua. – Tract. in Ps. 1, 2, A Zingerle CSEL 22, 27.
È sempre per iperbole che Yeshùa dice che chi prega Dio con fede può perfino trasportare un monte: “Veramente vi dico: Se avete fede e non dubitate […] se anche direte a questo monte: ‘Sollevati e gettati nel mare’, ciò avverrà” (Mt 21:21, TNM), e il senso è quello dato da Giovanni: “Questa è la fiducia che abbiamo verso di lui, che qualunque cosa chiediamo secondo la sua volontà, egli ci ascolta”. – 1Gv 5:14, TNM.
Origène, facendosi evirare, non capì che con tali iperbole Yeshùa non intendeva insegnarci l’autolesionismo, bensì la superiorità del regno dei cieli su tutto il resto: “Vi sono degli eunuchi che sono tali dalla nascita; vi sono degli eunuchi, i quali sono stati fatti tali dagli uomini, e vi sono degli eunuchi, i quali si sono fatti eunuchi da sé a motivo del regno dei cieli. Chi può capire, capisca”. – Mt 19:12.
Allo stesso modo di esprimersi semita, proprio della lingua ebraica, si rifà l’assenza di certe sfumature di contrasto, per questo – secondo la Bibbia – o si ama o si odia, o si fa o non si fa, non esistendo in ebraico le sfumature di “amare meno” e di “permettere”. Si spiegano così le espressioni di Paolo: “Come è scritto: ‘Ho amato Giacobbe, ma ho odiato Esaù’” (Rm 9:13, TNM); di Yeshùa: “Se qualcuno viene a me e non odia suo padre e la madre e la moglie e i figli e i fratelli e le sorelle, sì, e perfino la sua propria anima, non può essere mio discepolo” (Lc 14:26, TNM). Forse che Dio o Yeshùa o la Scrittura insegnino l’odio? Ma no. È il profeta che si esprime secondo le categorie mentali dell’epoca, secondo le quali “odiare” può anche semplicemente indicare “amare di meno”: “[Giacobbe] ebbe relazione anche con Rachele e anche espresse amore a Rachele più che a Lea, e lo servì per altri sette anni. Quando Geova vide che Lea era odiata […]” (Gn 29:30,31, TNM). Matteo, riportando il medesimo testo di Luca, ne presenta il senso quando scrive (con più chiarezza per noi occidentali, ma per gli ebrei era chiarissimo anche Luca): “Chi ha più affetto per padre o madre che per me non è degno di me; e chi ha più affetto per figlio o figlia che per me non è degno di me” (Mt 10:37, TNM). A questo modo di esprimersi semitico si ricollega il gusto degli schemi fissi, retorici, che non si possono affatto prendere alla lettera (come fanno gli occidentali, prendendo così delle cantonate). Babilonia fu conquistata nottetempo: “In quella medesima notte Baldassarre il re caldeo fu ucciso” (Dn 5:30, TNM), eppure Isaia ne profetizza la distruzione e la caduta parlando non solo di stelle, ma di sole oscurato, e di terremoto: “Le medesime stelle dei cieli e le loro costellazioni di Chesil non irradieranno la loro luce; il sole realmente si oscurerà al suo spuntare, e la luna stessa non farà risplendere la sua luce”, “Farò agitare lo stesso cielo, e la terra sobbalzerà dal suo luogo” (Is 13:10,13, TNM). Si tratta di un formulario fisso, che può servirci a chiarire espressioni simili del discorso escatologico di Yeshùa, che anziché essere applicato alla fine del mondo, può riguardare anche semplicemente la rovina di Gerusalemme: “Immediatamente dopo la tribolazione di quei giorni il sole sarà oscurato, e la luna non darà la sua luce, e le stelle cadranno dal cielo, e le potenze dei cieli saranno scrollate”. – Mt 24:29, TNM.
Carenza di sintesi. Il gusto di mettere a fuoco i singoli particolari del problema crea delle presunte contraddizioni secondo il nostro gusto occidentale, amante di sintesi panoramiche. Così, nel presentare la giustizia divina, gli scrittori sacri sembrano dimenticare l’amore, ma quando parlano dell’amore di Dio, sembrano affermare che in lui non vi sia giustizia alcuna. Talora Dio è presentato come padrone assoluto di tutti, cosicché nessuno gli può dire: Che cosa fai? Secondo questo schema semitico, per un occidentale l’uomo sembra perdere tutta la sua libertà. Altrove, poi, sembra che tutto dipenda dall’uomo e che Dio possa ricevere da lui addirittura uno scacco matto. La fede ci giustifica senza le opere, dice Paolo (Rm 4:1-12); ma la fede, senza le opere dettate dalla Legge, è sterile e vana, afferma Giacomo (2:14-19). I due autori si accordano quando si pensa che trattano due aspetti dello stesso problema: a chi esaltava troppo le opere (in una maniera legalistica) Paolo presenta la fede come se tutto dipendesse da essa; a chi invece insiste sulla pura fede, Giacomo presenta la necessità delle opere come le uniche realtà necessarie. Per dirla secondo le categorie mentali occidentali: praticare le opere della Legge (le mitzvòt, i precetti) con l’intento di avere la salvezza è inutile, esse vanno praticarle come risposta a Dio, ubbidendo con gratitudine per la salvezza che ci reca con Yeshùa.
Antropomorfismi biblici. Senofane di Colofone criticava nel 4° secolo a. E. V. i miti pagani perché gli uomini supponevano che gli “dèi abbiano voce e corpo simili a loro”, che “gli etiopi dicono che i loro dèi sono neri e camusi, e i traci che hanno occhi azzurri e capelli rossi”, che “se i buoi, i cavalli e i leoni avessero mani e sapessero disegnare e compiere sculture come gli uomini, i cavalli farebbero i loro dèi simili ai cavalli, i buoi simili ai buoi e ne rappresenterebbero il corpo simile al loro”. – Senofane, Frammenti 14. 16.15.
Anche la Bibbia presenta Dio come un uomo: egli ha mani e dita; pianta un giardino nell’Eden, modella un uomo di creta; chiude la porta dell’arca dove stavano Noè e gli animali; scende a vedere la torre di Babele. Egli vede, fiuta, parla, grida, fischia, soffia; è soggetto all’ira, ama e odia, gioisce e si addolora. Queste espressioni hanno lo scopo di rendere Dio un essere vivo e concreto, che s’interessa al mondo da lui creato e partecipa alla vita. Tali espressioni mostrano la bontà di Dio, il pentimento, la misericordia, la gelosia, l’unicità divina, l’ira, l’odio, la punizione, la giustizia sia pure a scopo salvifico. Ma, altrove, nonostante tali espressioni umane, Dio è presentato come un essere totalmente diverso dall’uomo: “Sono Dio, e non un uomo” (Os 11:9); “Hai tu occhi di carne? Vedi tu come vede l’uomo?” (Gb 10:4), “Colui che è la gloria d’Israele non mentirà e non si pentirà; egli infatti non è un uomo perché debba pentirsi”. – 1Sam 15:29.
Cultura dell’epoca. Gli scrittori sacri danno suggerimenti pratici tratti dall’esperienza e dagli usi del loro tempo. Paolo suggerisce a Timoteo di bere un po’ di vino – la medicina del tempo – per il suo stomaco (1Tim 5:23); Giacomo ricorda agli anziani – i padri della famiglia dei discepoli, la congregazione – di non dimenticare le unzioni con olio (il corroborante del tempo) per gli ammalati (Gc 5:14; Mr 6:13; Lc 10:34). L’uso dell’olio per tale scopo è chiarito da una citazione da Is: “Dalla pianta del piede fino alla testa non c’è nulla di sano in esso: non ci sono che ferite, contusioni, piaghe aperte, che non sono state ripulite, né fasciate, né lenite con olio” (Is 1:6). E pensare che (con il solito errato intendimento occidentale che prende la Bibbia alla lettera) ci sono ministri della Chiesa di Dio Unita che vanno in giro con in tasca un vasetto d’olio per assistere i loro confratelli malati!
Paolo non contesta il regime sociale dell’epoca, compresa la schiavitù (1Cor 7:20,24), ma v’introduce solo uno spirito nuovo: quello della fraternità, almeno tra i discepoli; così prega Filemone di riprendere Onesimo (lo schiavo che era scappato da lui) e di trattarlo ora come fratello, pur rimanendo schiavo: “Preferisco fare appello al tuo amore […]. Te lo rimando […] non più come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello caro” (Flm 9-16). Lo stesso apostolo Paolo presenta i capelli delle donne quasi fossero un velo e ne deduce l’obbligo di tenere il capo velato quando pregano o profetizzano nelle assemblee (1Cor 11:6; 1Tim 2:11-14). La cultura dell’epoca appare anche dall’uso di scritti allora noti e chiamati con i nomi delle persone cui si attribuivano. Non fa meraviglia quindi che Giuda parli della profezia di Enoc, anche se costui non ne fu l’autore (Gda 14), che siano citati brani di scritti sacri con il nome di Mosè, o di Davide, anche se forse quel preciso brano non era stato composto proprio da Mosè o da Davide, ma il nome fu introdotto posteriormente nei lori scritti. Per indicare tali testi si dovevano ben adoperare i nomi con cui essi erano noti, alla stessa maniera con cui oggi noi parliamo di Omero o di Shakespeare, senza per questo voler decidere se tali brani siano proprio di questo o di quell’autore. Con allusioni al noto dramma pirandelliano, Mac Kenzie dice argutamente che per la Bibbia si potrebbe parlare di sessantasei libri “in cerca di autore” (Mc Kenzie, Some Problems in the Field of Inspiration, in Cath. Bibl. Quart 20 (1958) 2). È, infatti, molto lontana dalla verità l’opinione talmudica che assegna i trentanove libri protocanonici a Mosè, Giosuè, Samuele, Davide, Geremia, Esdra, Neemia, oltre agli uomini del re Ezechia e della grande sinagoga (Talmud B., Baba Bathra 14d). Perciò, quando la Bibbia parla di questi autori, non fa che adattarsi alla concezione comune. Non ci si può comprendere se non chiamando un libro con il nome con cui era solitamente nominato e conosciuto. Così non fa meraviglia che, secondo il pensiero generale, si possa attribuire il libro di Daniele a questo profeta, anche se esso parla di Daniele (anziché presentarsi come uno scritto composto da lui). E non dovrebbe fare meraviglia che si possa ritenere come storia reale ciò che probabilmente era solo una parabola (Giona), senza nulla togliervi in quanto alle implicazioni profetiche. Anche noi, per esempio, parliamo del buon samaritano, del figlio prodigo, del ricco crapulone, di Lazzaro il mendico finito nel “seno di Abraamo”, come se fossero delle realtà, mentre essi sono solo persone fittizie. Gli scrittori non fanno della critica biblica, ma si esprimono secondo le convinzioni generali dei contemporanei, per farsi comprendere e accogliere da loro.
Progresso delle idee secondo la situazione sociologica del momento. L’ambiente nel quale il singolo libro biblico fu scritto, lascia le sue impronte anche nel modo con cui una dottrina v’è presentata. Basti esaminare la concezione messianica. Essa, di volta in volta, è descritta ora come un nuovo esodo (Is 40 e 41), ora come una nuova attraversata del deserto (Ez 20:35), ora come un nuovo patto (Ger 31:31-34), ora come una nuova divisione palestinese (Ez 48) la cui capitale Gerusalemme sarà chiamata con un nome nuovo. – Is 62:4.
Tre figure dominano nella storia di Israele: il re, il profeta e il sacerdote. E tutt’e tre servono nel corso dei secoli per presentare il messia:
- Re. Il messia è il re davidico (Is 7:14;9:1-6;11:1-5), il “germoglio di Davide” (Ger 23:5). Anzi, è lo stesso Davide redivivo: “Certamente susciterò su di loro un solo pastore, ed egli le dovrà pascere, sì, il mio servitore Davide. Egli stesso le pascerà, ed egli stesso diverrà il loro pastore. E io stesso, Geova, diverrò certamente il loro Dio, e il mio servitore Davide un capo principale in mezzo a loro. Io stesso, Geova, ho parlato”, “E il mio servitore Davide sarà re su di loro, e un solo pastore è ciò che tutti avranno […]. Davide mio servitore sarà il loro capo principale a tempo indefinito”. – Ez 34:23,24;37:24,25, TNM.
- Profeta. Al tempo dell’esilio i profeti stanno in primo piano per cui anche il messia viene presentato come un profeta nei carmi di Yhvh.
- Il sommo sacerdote della restaurazione serve per presentare il messia in quel tempo (Sl 110:4). Il culto messianico riproduce il pensiero del tempo: Yhvh tornerà sul monte Sion (Ez 43:1-9; Is 52:8), nel Tempio che non sarà mai distrutto (Ez 37:26), con i sacerdoti presi tra i discendenti di Aronne, per offrire sacrifici di animali (Ger 33:19) e durante le usuali feste israelitiche (Is 66:23; Zc 14:16-19). In un ambiente con strutture politiche, civili e culturali diverse, ben diversa sarebbe stata anche la presentazione del messianismo. Attenzione, però: Dio ha utilizzato quella cultura, quel popolo, quella lingua: questo implica che Dio ha voluto parlarci così, indicandoci realtà vere e profetiche. Se da una parte non si deve fare l’errore di prendere tutto letteralmente (errore tipico degli occidentali), dall’altra non si deve fare l’errore opposto (sempre tipico degli occidentali) di buttare tutto su un modo di dire solo descrittivo, buttando con l’acqua sporca anche il bambino. La Scrittura va presa molto sul serio. È per questo che occorre entrare nella mentalità semitica per capire a fondo il messaggio vero che la Bibbia ci reca.
Membri di una società che concepisce la natura come inseparabilmente legata alla vita dei suoi abitanti e insozzata dai peccati degli uomini, gli scrittori ispirati la fanno punire o premiare insieme con i suoi abitanti. Perciò anche per Paolo il peccato di Adamo e la redenzione di Yeshùa hanno risonanze cosmiche: “La creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l’ha sottoposta, nella speranza che anche la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio. Sappiamo infatti che fino a ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando l’adozione, la redenzione del nostro corpo” (Rm 8:19-23). Attenzione ancora una volta, però. Compreso il concetto, nulla dobbiamo togliere alle implicazioni: i credenti aspettano davvero la redenzione del corpo. La natura prende parte attiva alla punizione degli empi, come Sisera (Gdc 5:20; cfr. Ab 2:11; Gb 20:27; Ez 36:16), alla gioiosa liberazione di Israele (Is 44:23) e all’inizio dell’era messianica: “Risuoni il mare e quanto contiene, il mondo e i suoi abitanti. I fiumi battano le mani, esultino insieme i monti davanti al Signore. Poich’egli viene a governare la terra”. – Sl 98:7,8.
Cognizioni personali dell’agiografo. I sentimenti, i dubbi, le opinioni e l’ignoranza che esistevano nella mente dello scrittore sacro sono presenti anche nella Bibbia. Lo scrittore ispirato ignora il futuro, per cui se non ne riceve una speciale rivelazione, deve solo mostrare la sua ignoranza. Paolo non sa se manderà Timoteo o no (Flp 2:19), se sarà salvo o perirà in carcere (Flp 1:23-25); afferma che non avrà più occasione di vedere quelli di Mileto, mentre invece li rivedrà ancora (At 20:37; cfr. 2Tim 4:20: “Trofimo l’ho lasciato ammalato a Mileto”). Paolo non si ricorda se, oltre alla famiglia di Stefana, abbia battezzato qualcun altro a Corinto (1Cor 1:14-16); se sia stato rapito al terzo cielo “con il corpo o senza corpo” non lo sa (2Cor 12:2,3). Giovanni ignora se le idre per le abluzioni contenessero “due o tre misure [greco μετρητὰς, metretàs]” (Gv 2:6; ogni “metreta” misurava 38-40 litri, e un’idra conteneva circa 100 litri). Gli apostoli non sapevano se i km che avevano remato prima di incontrarsi con Yeshùa che camminava sulle acque erano 5 o 6 (Gv 6:19; letteralmente: “Circa venticinque o trenta stadi”, uno stadio era pari a un ottavo di miglio romano, ovvero a 185 m). Gli apostoli riferiscono con imprecisione i detti di Yeshùa, il quale secondo Matteo proibisce l’uso dei calzari e del bastone, mentre secondo Marco, li permette: “Non vi procurate oro né argento né rame per le borse delle vostre cinture, né bisaccia da cibo per il viaggio, né due vesti, né sandali né bastone” (Mt 10:9,10, TNM); “Diede loro ordine di non portare nulla per il viaggio eccetto un solo bastone, non pane, non bisaccia da cibo, non denaro di rame nella borsa della loro cintura, ma di calzare i sandali e di non indossare due vesti” (Mr 6:8,9, TNM). Forse Matteo scrivendo per semiti accentua con tale espressione la fiducia che si deve avere in Dio quando si predica l’evangelo; Marco permette ciò che è indispensabile (sandali, bastone, tunica di ricambio).
Talora l’autore umano può anche esprimere alcune sue opinioni, come quando credeva che fosse vicino il ritorno di Yeshùa prima della sua morte: “Poiché sappiamo che se la nostra casa terrestre, questa tenda [il corpo], è dissolta, abbiamo da Dio un edificio, una casa non fatta con mani, eterna nei cieli. Poiché in questa casa in cui dimoriamo, in realtà gemiamo, desiderando ardentemente rivestire quella [che è] dal cielo per noi, così che, avendola realmente rivestita, non siamo trovati nudi. Infatti, noi che siamo in questa tenda, gemiamo, essendo aggravati; perché vogliamo non svestircene, ma rivestire l’altra, affinché ciò che è mortale sia inghiottito dalla vita” (2Cor 5:1-4, TNM). Negli scritti posteriori tale convinzione va scomparendo. Dio non comunica ai suoi profeti tutto in una sola volta, ma secondo le circostanze realizza un progresso concedendo la guida del suo spirito santo, anima della congregazione, specialmente primitiva.