2 – “Non farti scultura, né immagine . . . Non ti prostrare davanti a loro e non li servire”.

 – Es 20:4-6.

 

Questo Comandamento, insieme al quarto, è più lungo degli altri. Vi sono contenuti: il principio monoteistico, il divieto di raffigurare Dio con immagini materiali, la proibizione di rendere culto a immagini divine e un principio di giustizia punitiva/rimuneratrice.

   Quando le grandi civiltà greca e romana avevano ancora idee puerili circa la miriade di loro dèi, quando i popoli antichi si prostravano di fronte agli idoli che si erano costruiti, Israele adorava già il Dio uno e unico, il creatore.

   Ancora oggi, moltissimi cosiddetti cristiani riempiono i loro templi di statue e icone che sono oggetto di culto. Nel difendere il loro culto delle immagini, i teologi cattolici sostengono che queste sono solo un aiuto alla devozione; non si tratterebbe di adorazione ma di venerazione – secondo loro -, e il culto sarebbe reso a Dio attraverso l’immagine. Tutte queste sottigliezze esplicative cercano di aggirare il Comandamento (che è stato perfino tolto dal catechismo) senza peraltro riuscirci. Infatti, è scritto: “Non ti farai idolo né immagine alcuna . . . Non ti prostrerai davanti a loro” (Es 20:4,5, CEI, testo ufficiale della Chiesa Cattolica). A ben poco serve giocare sulle parole, cercando di distinguere tra adorazione e venerazione. Dove sta mai la differenza, se ambedue prevedono l’inchinarsi davanti a fatture umane? “Non ti prostrerai davanti a loro”.

   Dio non è ingiusto e neppure rancoroso. Se Dio “punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione” (Es 20:5), ciò va inteso nell’ambito del pensiero ebraico che tutto attribuiva a Dio. Più di mille anni dopo, alcuni discepoli di Yeshùa, vedendo un cieco, domandano al maestro: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?” (Gv 9:2). Non solo attribuivano la disgrazia della cecità a un peccato, ma ipotizzano che le conseguenze di tale peccato fossero ricadute dai genitori sul figlio. Yeshùa chiarisce: “Né lui ha peccato né i suoi genitori”. – V. 3.

“Perché andate ripetendo questo proverbio sul paese d’Israele:

I padri han mangiato l’uva acerba

e i denti dei figli si sono allegati?

Com’è vero ch’io vivo, dice il Signore Dio, voi non ripeterete più questo proverbio in Israele.

Ecco, tutte le vite sono mie: la vita del padre e quella del figlio è mia; chi pecca morirà”. – Ez 18:2-4.

   La responsabilità è individuale: “Chi pecca morirà”. Le conseguenze delle cattive azioni dei padri sui figli sono poi una constatazione di ciò che avviene di fatto. Tutti sappiamo come i vizi dei genitori vengano spesso pagati dai figli: basti citare qui gli effetti dell’alcolismo e della tossicodipendenza, per non parlare di gravi malattie come l’aids.

   In ogni caso, la pietà divina supera di molto la severità, perché Dio “dimostra il suo favore fino a mille generazioni”, ‘per quelli che lo amano e osservano i suoi comandi’. – Es 20:6.

   Nel primo Comandamento Dio aveva richiamato l’attenzione su di sé, proclamandosi Signore e nostro Dio. Ora, nel secondo, Dio ci chiede di continuare a tenere presente la sua grandezza: non dobbiamo ridurla a oggetti raffigurativi che noi stessi ci costruiamo. Tutta l’insensatezza del costruirsi un idolo è espressa con ironia e sarcasmo in questo gustosissimo passo della Scrittura:

“Quelli che fabbricano gli idoli sono gente da nulla. I loro dèi preziosi non servono a niente. Quelli che li adorano non vedono e non si rendono conto; perciò saranno coperti di vergogna. Chi fabbrica un idolo o fonde una statua
si illude di averne un vantaggio. Quelli che li prendono sul serio saranno umiliati, perché gli idoli sono stati fatti da semplici uomini. Si radunino e si facciano avanti, tremeranno di paura e saranno coperti di vergogna.

   Il fabbro lavora un pezzo di ferro, lo arroventa con il fuoco e gli dà forma con il martello.  Lo rifinisce con le sue braccia robuste, finché ha fame ed è sfinito, perché non beve e non riposa.

   Il falegname prende le misure, disegna l’immagine con il gesso, misura il pezzo con il compasso e lo lavora con lo scalpello.  Gli dà una forma umana, una bella figura d’uomo, che metterà in casa. Tiene d’occhio un cedro da tagliare, sceglie un cipresso o una quercia e li fa crescere robusti tra gli alberi della foresta. Oppure pianta un pino che la pioggia farà crescere, usa una parte dell’albero per accendere il fuoco, e una parte per costruire un idolo. Mette la prima in un braciere per riscaldarsi e cuocere il pane; con l’altra invece fa la statua di un dio e la adora con grande rispetto. Con un po’ di legna fa fuoco; arrostisce la carne, se la mangia ed è sazio. Poi si riscalda e dice: Che bel calduccio! Che bel fuocherello! Poi con il resto si costruisce un dio, il suo idolo, lo adora, si inchina e lo prega così: Tu sei il mio Dio, salvami!

   Questa gente è troppo stupida per capire che cosa sta facendo: hanno gli occhi e l’intelligenza chiusi alla verità. Nessuno di loro riflette, nessuno ha il buon senso o l’intelligenza di dire: Ho bruciato metà di un albero; sulla brace ho cotto il pane e arrostito la carne che mangio. Dell’altra metà ho fatto un idolo inutile. Mi prostro davanti a un pezzo di legno!

   Niente affatto! La loro mente si nutre di cenere; il loro cuore è sviato, li fa sragionare. Il loro idolo non li può salvare, ma essi non riescono a pensare: È evidente che quello che ho in mano è un falso dio”. – Is 44:9-20, PdS.

   Dai tempi più remoti gli esseri umani hanno pensato di poter esercitare il loro dominio sugli eventi tramite la magia d’immagini e simboli. Le forze divine, in quest’ottica umana, sarebbero state in balìa delle loro immagini. Osserva giustamente il biblista G. Ravasi: “Nella cultura simbolica orientale l’immagine è come la realtà stessa raffigurata, l’icone era portatrice del fluido della stessa divinità. Il Signore, invece, non è imprigionato in una statua, è un Dio persona”. – Antico Testamento, introduzione, Mondadori, 1995, pag. 83.

   Ancora oggi, come ai primordi dell’umanità, nell’èra dell’informatica e dell’esplorazione dello spazio, ci sono moltissime persone che religiosamente si affidano ancora a statue e immagini che qualcuno ha costruito per loro. Oggetti presunti portafortuna sono impiegati insieme a statue, icone e immagini a carattere religioso. L’apostolo Paolo, alla gente di Atene radunata all’Areòpago (il colle del dio Ares, il dio Marte dei romani), sull’Acropoli, in cui si trovavano altari, templi e statue del paganesimo, chiarisce: “Non dobbiamo credere che la divinità sia simile a oro, ad argento, o a pietra scolpita dall’arte e dall’immaginazione umana”. – At 17:29.

   Il divieto del Comandamento non concerne la fabbricazione di statue in sé. Sul coperchio dell’arca in cui erano conservate le tavole della Legge, erano raffigurati due cherubini d’oro; immagini ricamate di cherubini erano poste anche sui dieci teli interni che ricoprivano la tenda del tabernacolo e perfino sulla cortina che separava il Santo dal Santissimo; tutto ciò per disposizione di Dio (Es 25:18;26:1,31,33). Il Comandamento specifica: “Non ti prostrare davanti a loro”. – Es 20:5.

   Il comando divino di non costruirsi statue e immagini per inchinarsi di fronte a loro, significa che dobbiamo anche rinunciare alla sciocca idea di ridurre Dio a un concetto. Dio non va frainteso e non va neppure confuso con l’idea che di lui possiamo farci nel nostro malinteso senso della sua percezione. C’è perfino chi, rasentando la bestemmia, attribuisce a Dio un corpo, se pur spirituale, e un proprio spazio. Costoro limitano Dio non comprendendo che Dio non fa parte della sua stessa creazione.

“Un Dio geloso”

   Perché non dobbiamo costruirci immagini per inchinarci loro? Dio stesso ne dà la motivazione: “Perché io, il Signore, il tuo Dio, sono un Dio geloso” (Es 20:5). Questa espressione, nella sua forma che assume il linguaggio umano a noi comprensibile, dice tutto l’amore di Dio per il suo popolo. È il linguaggio degli innamorati, quello della passione esclusiva. Paolo, pieno d’amore per i suoi confratelli, dice loro: “Sono geloso di voi della gelosia di Dio”. – 2Cor 11:2.

“Il Signore, il tuo Dio, è un fuoco che divora, un Dio geloso”. – Dt 4:24.

“Il Signore, vostro Dio, è come un fuoco che divora: non sopporta di avere rivali”. – Dt 4:24, PdS.

   Il vero credente ama sentirsi dire queste parole. Il suo cuore è ricolmo d’indicibile commozione. Non esiste gioia più grande dell’amore di Dio. E non esiste offesa più grande che calpestare quest’amore, tradendolo.