3 – “Non alzerai il nome di Yhvh, Dio tuo, per una falsità”. – Es 20:7.
Questo Comandamento, così espresso, potrebbe suscitare sorpresa in chi, sin da piccolo, si è abituato a recitare a memoria: “Secondo: Non nominare il nome di Dio invano”. Per molti, soprattutto cattolici, potrebbe essere una sorpresa leggerlo in questa formula e sapere che si tratta in effetti del terzo, e non del secondo comandamento (la Chiesa Cattolica ha eliminato il secondo che proibisce l’idolatria e ha diviso in due il decimo). Comunque, vogliamo qui analizzare bene ciò che la Bibbia dice.
Questo Comandamento – che nella Bibbia è riportato due volte (Es 20:7; Dt 5:11) – ha la forma di una proibizione: proibisce di pronunciare il nome divino in un certo modo. Quale? “Invano”, dicono di solito le versioni bibliche. “In modo indegno”, dice TNM che nella nota in calce spiega: “O, ‘per una falsità’; o, ‘invano’”.
La notissima forma “invano” è dovuta a Girolamo che così tradusse l’ebraico in latino: “Non adsumes nomen Domini Dei tui in vanum” (Es 20:7, Vulgata). Il significato solitamente attribuito all’espressione è che non si deve pronunciare il nome di Dio per leggerezza o addirittura per bestemmia. Così si pensa.
Noi che però vogliamo andare sempre a fondo, guardiamo invece a cosa dice la Bibbia. E scopriamo che dice, letteralmente: “Non solleverai nome di Yhvh Dio tuo לַשָּׁוְא [lashàv]”. Se volessimo dirla in linguaggio moderno e popolare, il Comandamento intima: Non lo tirerai in ballo. Ma la nostra attenzione si fissa su quel lashàv (לַשָּׁוְא). E scopriamo che l’interpretazione “invano” è debole, coinvolgendo solo il nostro modo di parlare. L’espressione ebraica lashàv ha invece un valore forte, significando che non si può invocare il nome divino su ciò che è moralmente cattivo e contrario alla santità di Dio. Nel Comandamento è coinvolto anche il modo di vivere e non solo quello di parlare.
Un’applicazione concreta, ad esempio, che il Comandamento ha avuto la troviamo in Lv 19:12: “Non dovete giurare in nome mio su una menzogna, in modo da profanare in effetti il nome del tuo Dio”.
Sulla stessa linea, la traduzione greca della LXX traduce lashàv (לַשָּׁוְא) con ἐπὶ ματαίῳ (epì matàio): “Su ciò che è privo di forza / privo di verità / inutile / di nessuno scopo / vano”. Dopotutto, è anche il senso che gli diede Girolamo: “In vanum” significa “su ciò che è vano / inconsistente”. Girolamo voleva dare un valore forte all’espressione. Infatti, “invano” con il valore di “alla leggera”, in latino si direbbe frustra. L’errore è stato dunque quello di unire in “invano” (avverbio) le due parolette che nella traduzione di Girolamo erano invece separate: “in vanum” (preposizione seguita da un nome).
L’influenza del Comandamento di non pronunciare il nome divino su ciò che è vano fu tanto forte che il giudaismo giunse a sopprimere totalmente la pronuncia del nome divino nonostante che esso, secondo gli stessi testi biblici (Es 3:4;6:2), fosse stato ribadito al popolo nella rivelazione del roveto ardente in vista della liberazione dall’Egitto. Dio aveva tenuto nascosto il suo vero nome a Mosè, ma aveva detto che il popolo doveva chiamarlo col nome, che già conoscevano, di Yhvh (“Colui che è”). Questa proibizione, ai tempi di Yeshùa era già in vigore da secoli. Circa nel 150 E. V. Abba Shaul giunse ad affermare che chi pronuncia il tetragramma non avrà parte al mondo futuro. Così, il lettore sinagogale che incontrava il tetragramma pronunciava al suo posto Adonày (“Signore”) invece di Yhvh. Per aiutare il lettore a pronunciare Adonày, addirittura si vocalizzarono – tra il 7° e l’11° secolo – le quattro consonanti del tetragramma (YHWH) con le vocali di Adonày, e questa strana somma di consonanti di un nome assunto come proprio e di vocali di un nome comune diedero e danno il risultato strano di YeHoVaH , da cui il “Geova” dei Testimoni di Geova. Costoro lo lessero poi come JeHoVaH all’inglese, con J letta come g dolce (che non ha alcun rapporto con la prima lettera del tetragramma; in ebraico il suono g dolce non esiste neppure. (Si veda al riguardo la nostra serie di studi sul nome di Dio, nella categoria Teologia biblica, sempre in questa sezione La Bibbia). Lo stratagemma ideato dai masoreti per camuffare il tetragramma fu scoperto dagli studiosi solo nel 20° secolo. Per secoli si era fatto l’errore di leggere il tetragramma come YeHoVaH.
Il terzo Comandamento, quindi, in realtà significa “Non devi giurare falsamente nel nome di Yhvh tuo Dio”. – Encyclopaedia Judaica.
L’ebraico “non alzerai” (לֹא תִשָּׂא, lo tisà) potrebbe significare sia alzare la voce per pronunciare il nome che portare il nome alle labbra. Il salmista, quando dice in Sl 16:4: “Né le mie labbra proferiranno i loro nomi [quegli degli idolatri]”, dice in ebraico בַל־אֶשָּׂא (val-esà), “non alzerò” riferito ai loro nomi. Lo stesso verbo “alzare” è usato in Es 6:8 – tradotto “Vi farò entrare nel paese che giurai di dare ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe” – che nell’ebraico è : “Alzai [נָשָׂאתִי (nasàty)] la mano in giuramento” (TNM). L’illustre Samuel Davìd Luzzatto (1800-1865), ebraista e traduttore biblico, nella sua traduzione italiana della Bibbia, dà a lashàv (לַשָּׁוְא) il senso di “in falso”. Rabbi Levi, nel Midràsh Parashàt Kedoshìm, dimostrando che tutti i Comandamenti sono accennati nel cap. 19 di Levitico, segnala come Lv 19:12 corrisponda al terzo comandamento: “Non dovete giurare in nome mio su una menzogna, in modo da profanare in effetti il nome del tuo Dio” (TNM). Il significato del Comandamento è dunque dato in modo preciso dal Luzzatto.
Non si deve quindi giurare il falso nel nome di Dio. Ciò non comporta che non si possa giurare nel nome di Dio. Anzi, in Es 20:11, nel caso di accusa di danneggiamento d’un bene altrui, “fra loro due deve aver luogo un giuramento per Geova [“Yhvh” nel testo biblico]” (TNM). E Dt 6:13 esplicitamente comanda: “Temerai il Signore, il tuo Dio, lo servirai e giurerai nel suo nome”.
Come vanno intese allora le parole di Yeshùa: “Non giurate affatto” (Mt 5:34)? Vanno intese nel contesto in cui le disse. “Avete anche udito che fu detto agli antichi: ‘Non giurare il falso; da’ al Signore quello che gli hai promesso con giuramento’. Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran Re. Non giurare neppure per il tuo capo, poiché tu non puoi far diventare un solo capello bianco o nero. Ma il vostro parlare sia: ‘Sì, sì; no, no’; poiché il di più viene dal maligno” (Ibidem, vv. 33-37). Yeshùa richiama Lv 19:12 che vietava di giurare in nome di Dio su una menzogna e Nm 30:2 che avvertiva di mantenere i propri voti. Il rimprovero che Yeshùa fa ai giudei riguardava la loro abitudine di giurare alla leggera: lo facevano indistintamente per qualunque cosa. Così, come se niente fosse, giuravano “per il cielo”, “per la terra”, “per Gerusalemme” e ‘per la propria testa’. Yeshùa fa notare che il cielo è “il trono di Dio”, la terra è “lo sgabello dei suoi piedi”, Gerusalemme è “la città del gran Re” e fa notare che la testa (e quindi la vita) dipende solo da Dio. Giurare su tali cose era come giurare nel nome di Dio, cosa da non trattare alla leggera, come loro facevano. Ecco quindi il suggerimento prudenziale: “Il vostro parlare sia: ‘Sì, sì; no, no’”. La sua spiegazione: “Poiché il di più viene dal maligno” dice tutto il rischio dei giuramenti fatti con leggerezza.
Non si tratta di una modifica del Comandamento. Yeshùa non aveva l’autorità per farlo, né poteva averne la minima intenzione perché aveva ‘la parola di Dio dimorante in lui’ (Gv 5:38): “La parola che voi udite non è mia, ma è del Padre che mi ha mandato” (Gv 14:24). Yeshùa stesso era sotto la Legge e la rispettava. Quando fu processato, il sommo sacerdote richiese che egli giurasse in nome di Dio, e lui lo fece (Mt 26:63,64). Il suo “non giurate affatto” (Mt 5:34) era quindi un suggerimento alla prudenza che rendeva ancora più stringente il Comandamento: mantenere la propria parola è da lui considerato un sacro dovere da valutare come un giuramento. Un’ulteriore spiegazione del senso delle sue parole lo troviamo in Mt 23:16-22, dove smascherando l’ipocrisia degli scribi e dei farisei, dice: “Guai a voi, guide cieche, che dite: Se uno giura per il tempio, non importa; ma se giura per l’oro del tempio, resta obbligato. Stolti e ciechi! Che cosa è più grande: l’oro o il tempio che santifica l’oro? E se uno, voi dite, giura per l’altare, non importa; ma se giura per l’offerta che c’è sopra, resta obbligato. Ciechi! Che cosa è più grande: l’offerta o l’altare che santifica l’offerta? Chi dunque giura per l’altare, giura per esso e per tutto quello che c’è sopra; e chi giura per il tempio, giura per esso e per Colui che lo abita; e chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi siede sopra”.
Giacomo, confermando il pensiero di Yeshùa, dice: “Soprattutto, fratelli miei, non giurate né per il cielo, né per la terra, né con altro giuramento; ma il vostro sì, sia sì, e il vostro no, sia no, affinché non cadiate sotto il giudizio” (Gc 5:12). Si noti qui la stessa motivazione che Yeshùa aveva dato: “Affinché non cadiate sotto il giudizio”. Dio dice: “Non amate il falso giuramento; perché tutte queste cose io le odio” (Zc 8:17). Giurare spesso e su qualsiasi cosa può creare l’abitudine di usare la formula del giuramento come un intercalare: molte persone, dicendo cose anche poco importanti, usano aggiungere: “Te lo giuro!”. Per cui, le affermazioni di Yeshùa e di Giacomo sono contro l’uso indiscriminato dei giuramenti e non vanno intese come divieti assoluti che impediscano di giurare sempre. A volte è necessario assicurare ad altre persone la serietà e la veridicità di ciò che si dice. Come abbiamo visto, Yeshùa stesso giurò davanti al sommo sacerdote (Mt 26:63,64). Anche Paolo, per dare maggior peso alla sua affermazione, in 2Cor 1:23 fa una dichiarazione giurata: “Ora io chiamo Dio come testimone sulla mia vita che è per risparmiarvi che non sono più venuto a Corinto”. Lo stesso fa in Gal 1:20; “Ora, riguardo a ciò che vi scrivo, ecco, vi dichiaro, davanti a Dio, che non mento”.
Il giuramento è praticato da Dio stesso: “Egli [Yeshùa, divenuto sacerdote] lo è con giuramento, da parte di colui che gli ha detto: ‘Il Signore ha giurato e non si pentirà: Tu sei sacerdote in eterno’ (Eb 7:21). “Quando Dio fece la promessa ad Abraamo, siccome non poteva giurare per qualcuno maggiore di lui, giurò per se stesso” Eb 6:13). Nella Sacra Scrittura si rinviene oltre una cinquantina di casi in cui Dio giura.
Il terzo Comandamento intima dunque di non giurare il falso usando il nome di Dio. Pietro violò questo Comandamento quando durante la notte dell’arresto di Yeshùa, negando per ben tre volte di conoscerlo, “cominciò a imprecare e a giurare: ‘Non conosco quell’uomo!”. – Mt 26:74.
C’è qualcosa di molto indicativo nel terzo Comandamento, giacché nel giurare il falso – che di per sé è già una colpa – la massima gravità sta nel farlo tirando in ballo “il nome di Yhvh, Dio tuo, per una falsità”. Chi giura il falso nel nome divino profana l’essenza stessa di Dio sintetizzata nel Nome. Il nome di Dio è composto da quattro lettere (tetragramma): YHVH (יהוה). Secondo gli antichi maestri ebrei, queste quattro lettere sono un’abbreviazione di היה (hayàh), הווח (hovèh) e יהיה (yhyèh) ovvero di “fu”, “è” e “sarà”. Dio è l’Essenza, l’Esistenza per eccellenza: “fu” da sempre, “è” e “sarà” per sempre. Dio è Uno e Unico: nessun altro può avere una realtà come la sua.
Dato questo grande significato del Nome, cosa comporta associare il Nome a un giuramento, vero o falso che sia? Nel caso positivo, quello di associarlo a un giuramento veritiero, è la massima garanzia di veridicità. Ecco perché Dt 6:13 dispone: “Temerai il Signore, il tuo Dio, lo servirai e giurerai nel suo nome”, comando ripetuto in 10:20: “Temi il Signore, il tuo Dio, servilo, tieniti stretto a lui e giura nel suo nome”. Nel caso negativo, quando si giura il falso, la motivazione del divieto di abbinarvi il Nome è la stessa: il nome di Dio, così unico per il suo significato, contiene tutta la sua Essenza. Ora si noti Ger 12:16: “Se imparano diligentemente le vie del mio popolo e giurano per il mio nome dicendo: ‘Il Signore vive’, come hanno insegnato al mio popolo a giurare per Baal, saranno saldamente stabiliti in mezzo al mio popolo”. Qui Dio sta dicendo che se i malvagi popoli limitrofi di Israele si convertono a lui, saranno benedetti. Si noti la relazione tra i giuramenti approvati fatti nel suo nome e quelli disapprovati fatti in nome di Baal. In Os 4:15 si ha la situazione deprecabile in cui gli ebrei imitano i pagani: “Se tu, Israele, ti prostituisci, Giuda almeno non si renda colpevole! Non andate a Ghilgal, non salite a Bet-Aven, e non giurate dicendo: ‘Il Signore vive!’”. Il divieto di giurare il falso in nome di Dio o il giurare nel nome di qualche dio pagano ha a che fare con l’idolatria: “Non pronunciate neppure il nome dei loro dèi, non ne fate uso nei giuramenti; non li servite e non vi prostrate davanti a loro” (Gs 23:7). Ecco perché l’invito a giurare nel nome di Dio è abbinato al divieto d’idolatria: “Temerai il Signore, il tuo Dio, lo servirai e giurerai nel suo nome. Non seguirete altri dèi, presi fra gli dèi degli altri popoli intorno a voi”. – Dt 6:13,14.
Le conseguenze del giurare il falso nel nome di Dio sono menzionate nel Comandamento: “Non ti devi servire [“Non devi sollevare (portare) il”, nota in calce] del nome di Geova [Yhvh nel testo biblico] tuo Dio in modo indegno [“Per una falsità”, nota in calce], poiché Geova [Yhvh nel testo biblico] non lascerà impunito chi si serve del suo nome in modo indegno” (Es 20:7, TNM). Questa punizione assoluta e immediata non si trova inflitta in nessun altro Comandamento. La punizione sui figli prevista per la violazione del secondo Comandamento è in fondo una minaccia, ma qui si ha un chiaro “non lascerà impunito”. Ora possiamo comprendere meglio perché questo Comandamento segua subito dopo a quello che proibisce l’idolatria e la venerazione di dèi stranieri. “I dolori di quelli che corrono dietro ad altri dèi saran moltiplicati”. – Sl 16:4.
C’è nel terzo Comandamento la preoccupazione e l’ansia di tener lontano il nome di Dio (che è la sintesi dell’Essenza e dell’Esistenza per eccellenza) dalla falsità. Ecco spiegata anche la grande cautela consigliata da Yeshùa nel giurare.