10 – “Non concupire la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo”.
– Es 20:17.
Il decimo Comandamento suona così nel testo originale biblico:
לֹא תַחְמֹד בֵּית רֵעֶךָ לֹא־תַחְמֹד אֵשֶׁת רֵעֶךָ וְעַבְדֹּו וַאֲמָתֹו וְשֹׁורֹו וַחֲמֹרֹו וְכֹל אֲשֶׁר לְרֵעֶךָ
lo takhmòd bet reècha lo-takhmòd èshet reècha veavdò vaamatò veshorò vakhamodò vechòl ashèr lereècha
non desidererai casa di prossimo tuo non desidererai donna di prossimo tuo
e suo servo e sua serva e suo bue e suo asino e tutto ciò che [è] di prossimo tuo
La gente comune, soprattutto i cattolici, sono abituati a vedere qui due comandamenti distinti che il catechismo della Chiesa Cattolica elenca come nono e decimo. È doveroso accennare qui, per precisione, che questa numerazione potrebbe ottenersi considerando il primo e il secondo Comandamento come un tutt’uno, tuttavia il fatto che nel catechismo il secondo (che vieta le immagini nel culto) sia sostanzialmente sparito, fa sospettare che la manovra sia solo quella di far tornate i conti: dividendo il decimo in due e facendo sparire il secondo, il totale dà sempre dieci. Che il decimo Comandamento sia un tutt’uno, lo si capisce poi semplicemente leggendolo. Il concetto è sostanzialmente chiaro: Non desiderare niente di ciò che è del tuo prossimo, siano persone o cose. Questo enunciato è chiaro anche nel commento ebraico dello yalqùt shimonì (שמעוני ילקוט) in cui li legge: “Non desiderare la casa del tuo compagno – norma generale -, non desiderare la moglie del tuo compagno né il suo schiavo ecc., norma particolare: generale e particolare: non vi è nella generale se non quello che è indicato nella particolare; quando dice ‘e tutto ciò che appartiene al tuo prossimo’ torna a generalizzare; generale, particolare e generale: non può interpretarsi altro che secondo il particolare”. – Sèder Ithrò, 84-1.
Per certi versi questo Comandamento sorprende. Gli altri decretano di fare o non fare: Non avere altri dèi (I), non fare sculture e immagini nel culto (II), non pronunciare il Nome su cose vuote (III), ricorda di santificare il sabato (IV), onora i genitori (V), non assassinare (VI), non commettere adulterio (VII), non rubare (VIII), non attestare il falso (IX). Dopo questa sequenza di ‘non fare / fai’, giunge il comando “non desiderare”. Ai più rischia di apparire un precetto di lieve importanza, meno incisivo degli altri, quasi impossibile da osservare. Eppure, è la difficoltà della sua comprensione che alla fine ci offre splendori inattesi di grandiosa bellezza.
Il decimo Comandamento non proibisce di anelare al miglioramento del nostro stato, di acquisire prosperità e di godere del benessere. Tutto ciò, infatti, è considerato nella Bibbia una benedizione di Dio. In Ger 22:14, chi progetta: “Mi costruirò una casa grande con camere spaziose al piano di sopra”, non è condannato perché costruisce e s’ingrandisce, ma perché lo fa in modo disonesto, perché “fa lavorare il prossimo per nulla, non gli paga il suo salario”: “Guai a colui che costruisce la sua casa senza giustizia” (v. 13). Il fedele Giobbe fu benedetto da Dio e “egli ebbe quattordicimila pecore, seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine” (Gb 42:12). Il decimo Comandamento proibisce di desiderare ciò che è degli altri, toccando così le vette della morale più alta.
È il caso di analizzare bene il verbo ebraico che è tradotto “non concupire” da NR e Did, “non devi desiderare” da TNM, “non desiderare” da CEI e da PdS. Il testo biblico dice לֹא תַחְמֹד (lo takhmòd). Si tratta del futuro del verbo חָמַד (khamàd) che indica il “desiderare” sia in senso negativo sia in senso positivo. Un senso positivo lo troviamo in Sl 68:16 (v. 17 nel Testo Masoretico): “Perché, o monti dalle molte cime, guardate con invidia al monte che Dio ha scelto [חָמַד (hhamàd), “ha desiderato” (cfr. TNM)] per sua dimora?”. Il senso negativo lo troviamo proprio nel decimo Comandamento: qui il “desiderare” assume il senso di “avere delle mire”. Già da questa diversità di valenza del verbo חָמַד (khamàd) si comprende come ci sia desiderio e desiderio. Nel passo del salmo appena citato, il desiderio di Dio relativo al monte Sion (Sl 132:13) è un desiderio sano e legittimo. Non così per Acan che confessando il suo peccato spiega: “Ho visto fra le spoglie un bel mantello di Scinear, duecento sicli d’argento e una sbarra d’oro del peso di cinquanta sicli; ho desiderato [אֶחְמְדֵם (ekhmedèm)] quelle cose e le ho prese”. – Gs 7:21.
Nella versione deuteronomica del decimo Comandamento si legge: “Non concupire [תַחְמֹד (takhmòd), “desidererai”] la moglie del tuo prossimo; non bramare [תִתְאַוֶּה (titavèh), “sarai avido”] la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo” (Dt 5:21). Qui, come si nota, vengono usati due verbi (tra parentesi, è basandosi su questi verbi che Agostino ne ricavò due Comandamenti, compensando così l’unione dei primi due): il primo – חָמַד (khamàd), “desiderare” – lo abbiamo già esaminato; il secondo è אָוָה (avàh) che significa “bramare” nel senso di essere avidi di qualcosa. Rispettando il significato peculiare dei due verbi, la versione deuteronomica dice nel nostro linguaggio: Non avere mire sulla moglie del tuo vicino, non essere avido circa le sue proprietà.
Come detto, c’è desiderio e desiderio. Il comando di non desiderare avidamente la proprietà altrui esclude azioni di forza per entrarne in possesso a tutti i costi, ma consente – ad esempio – di fare proposte d’acquisto, anche se ciò comporta ovviamente il desiderio di avere quelle cose. Fin qui il desiderio è legittimo: ci piacerebbe avere una data cosa e la chiediamo al suo proprietario, offrendoci di acquistarla. Ma se la cosa è rifiutata, occorre rinunciare: qui interviene il Comandamento a dirci di non essere avidi. Quando un desiderio illegittimo ci prende, è in facoltà di ciascuno annientare la passione sul nascere e volgere la mente altrove.
È meraviglioso questo Comandamento nel guidarci secondo l’insegnamento di Dio. Dopo averci detto di non commettere adulterio e di non rubare, dopo averci proibito tutto ciò che tocca la vita, la famiglia e la proprietà del nostro prossimo, ora Dio ci avverte che neppure il desiderio di ciò che appartiene al prossimo ci deve sfiorare. È stupendo come Dio penetra sottilmente nella nostra psicologia. È, infatti, il desiderio che muove la nostra psiche e ci porta a ritenere piccola cosa aggirare i precetti per soddisfare la nostra voglia. “Ciascuno è provato essendo attirato e adescato dal proprio desiderio. Quindi il desiderio, quando è divenuto fertile, partorisce il peccato”. – Gc 1:14,15 TNM.
Lo takhmòd (לֹא תַחְמֹד), “non desidererai”, diviene così norma generale che illumina tutto il nostro cammino e dà luce piena al comando di Lv 19:18: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”, che a ragione il rabbino del primo secolo Hillel e lo stesso Yeshùa (Mt 22:34-39) consideravano, insieme al comando di Dt 6:5, la sintesi di tutta la Toràh: “Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti”. – Mt 22:40.