“Questa sarà per voi una legge perenne: nel settimo mese, il decimo giorno del mese, vi umilierete e non farete nessun lavoro, né colui che è nativo del paese, né lo straniero che abita fra di voi. Poiché in quel giorno si farà l’espiazione per voi, per purificarvi; voi sarete purificati da tutti i vostri peccati, davanti al Signore. È per voi un sabato di riposo solenne e vi umilierete; è una legge perenne”. – Lv 16:29-31.
Questo giorno particolare cade il 10 di tishrì del calendario lunisolare ebraico (nostro settembre-ottobre). È un unoשַׁבַּת שַׁבָּתֹון, shabàt shabatòn (Lv 16:31), giorno di riposo solenne; “sabato” indipendentemente dal giorno della settimana in cui cade.
“Il decimo giorno di questo settimo mese sarà il giorno delle espiazioni [יֹום הַכִּפֻּרִים (yòm hakipurìm)]; avrete una santa convocazione, vi umilierete e offrirete al Signore dei sacrifici consumati dal fuoco. In quel giorno non farete nessun lavoro; poiché è un giorno di espiazione, destinato a fare espiazione per voi davanti al Signore, che è il vostro Dio. Poiché, ogni persona che non si umilierà in quel giorno, sarà tolta via dalla sua gente. Ogni persona che farà in quel giorno un lavoro qualsiasi, io la distruggerò dal mezzo del suo popolo. Non farete nessun lavoro. È una legge perenne, di generazione in generazione, in tutti i luoghi dove abiterete. Sarà per voi un sabato, giorno di completo riposo, e vi umilierete; il nono giorno del mese, dalla sera alla sera seguente, celebrerete il vostro sabato”. – Lv 23:27-32.
Letteralmente, יֹום הַכִּפֻּרִים (yòm hakipurìm) significa “giorno delle coperture”, a significare che in questo giorno sono coperti i peccati. Il sommo sacerdote d’Israele, il 10 di tishrì, offriva dei sacrifici per coprire i peccati, sia suoi sia degli altri sacerdoti e del popolo. L’anno del Giubileo iniziava sempre nel Giorno delle Espiazioni. – Lv 25:8-12.
“Il decimo giorno di questo settimo mese avrete una santa convocazione e vi umilierete; non farete nessun lavoro” (Nm 29:7). “Vi umilierete” ovvero “dovete affliggere le vostre anime” (TNM): si doveva digiunare (cfr. Is 58:5) dalla sera in cui iniziava il giorno 10 fino alla sera seguente. In At 27:9 è menzionato “il giorno del digiuno” ovvero lo yòm hakipurìm.
Questo giorno era così speciale e particolare che solo in questo giorno, il 10 di tishrì, il sommo sacerdote poteva entrare nel Santissimo, la stanza più interna del tabernacolo e poi del Tempio. Non gli era permesso farlo negli altri giorni dell’anno, perché l’ordine di Dio era di “non entrare in qualsiasi tempo nel santuario, di là dalla cortina” (Lv 16:2). Nel Santissimo “non entra che il sommo sacerdote una sola volta all’anno”. – Eb 9:7.
La procedura, in questo giorno così speciale, è descritta in Lv 16:3-31. In particolare va notato che “dalla comunità dei figli d’Israele” il sommo sacerdote doveva prendere “due capri per un sacrificio per il peccato” (v. 5). Dopo averli presentati “davanti al Signore”, doveva tirare “a sorte per vedere quale dei due debba essere del Signore e quale di Azazel. – Vv. 7,8.
Asasèl. La parola ebraica עֲזָאזֵל (asasèl) deriva da עז (es), “capra”, e dal verbo אזל (asàl), “andarsene”. Indica il capro, tirato a sorte, mandato via nel deserto dal sommo sacerdote. Questo nome compare quattro volte nella Bibbia, sempre a proposito del Giorno di Espiazione. – Lv 16:8,10,26.
Si tenga presente che l’offerta era unica e comprendeva “due capri per un sacrificio per il peccato” (Lv 16:5). Dopo aver tirato a sorte, il primo capro (riservato a Dio) era sacrificato subito: “Aaronne farà avvicinare il capro che è toccato in sorte al Signore, e l’offrirà come sacrificio per il peccato” (Lv 16:9). “Ma il capro che è toccato in sorte ad Azazel sarà messo vivo davanti al Signore, perché serva a fare l’espiazione per mandarlo poi ad Azazel nel deserto”. – Lv 16:10.
Quest’ultimo verso (Lv 16:10) va chiarito, perché la traduzione potrebbe confondere il lettore. Infatti, leggendo che il capro “è toccato in sorte ad Azazel” e che tale capro va mandato “poi ad Azazel”, ci si potrebbe domandare quanti Azazel ci siano, dato che il capro stesso è Azazel.
Nel testo ebraico, la prima parte del verso dice letteralmente: “E il capro che salì su esso la sorte per Asasèl”; e qui è chiaro che tirando a sorte, questa designava un capro per essere Asasèl ovvero che doveva considerasi come Asasèl. L’ebraico ha לַעֲזָאזֵל (laasasèl); il prefisso ל (l) non significa solo “per” e “a” ma può indicare anche lo scopo o il risultato di un’azione. Qui l’azione è il tirare a sorte e il risultato è la designazione di uno dei due capri; si potrebbe meglio tradurre: “Il capro su cui gravò la sorte affinché [fosse] Azazel”.
La seconda parte del verso, nell’ebraico dice letteralmente: “Si farà stare vivo davanti a Yhvh per espiare per esso per inviare esso לַעֲזָאזֵל [laasasèl] verso il deserto”. Si ha di nuovo il prefisso ל (l). Questo prefisso ha ben nove significati diversi, tra i cui “riguardo a”. La traduzione potrebbe essere: “Si farà stare vivo davanti a Yhvh per l’espiazione per esso, per mandarlo – riguardo ad Azazel – nel deserto”. Siccome entrambi i capri erano per l’espiazione del peccato, si specifica qui che quello da mandare nel deserto è Azazel.
Mentre il primo capro era ucciso dal sommo sacerdote, il secondo era lasciato morire da solo nel deserto. “Aaronne poserà tutte e due le mani sul capo del capro vivo, confesserà su di lui tutte le iniquità dei figli d’Israele, tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati e li metterà sulla testa del capro; poi, per mano di un uomo che ha questo incarico, lo manderà via nel deserto. Quel capro porterà su di sé tutte le loro iniquità in una regione solitaria; esso sarà lasciato andare nel deserto”. – Lv 16:21,22.
Così, i peccati di tutta Israele erano cancellati, sparivano nel deserto come il capro su cui erano stati posti. “Come è lontano l’oriente dall’occidente, così ha egli allontanato da noi le nostre colpe”. – Sl 103:12.
Un giorno particolarmente santo. La santità di questo giorno è evidenziata dalla combinazione di due parole che la Bibbia usa. Il 10 di tishrì è un uno שַׁבַּת שַׁבָּתֹון (shabàt shabatòn) (Lv 16:31), il sabato dei sabati. Perché lo yòm hakipurìm, il Giorno delle Espiazioni, si distingue ed è il “sabato” più santo?
È perché il sacrificio di espiazione riconcilia tutti con Dio. Questo sacrificio di espiazione è Yeshùa, senza il quale non si avrebbe accesso a Dio. “Questa sarà per voi una legge perenne: nel settimo mese, il decimo giorno del mese, vi umilierete e non farete nessun lavoro, né colui che è nativo del paese, né lo straniero che abita fra di voi” (Lv 16:29). Anche gli stranieri, i gentili, noi, tutti quelli che entrano a far parte del popolo di Dio, sono tenuti a osservarlo. “Ogni persona che non si umilierà in quel giorno, sarà tolta via dalla sua gente” (Lv 23:29), esclusa dal popolo di Dio.
L’ingresso nel Santissimo. Nel tabernacolo (la tenda trasportabile usata come tempio) e poi nel Tempio di Gerusalemme, c’era un locale interno chiamato “Santissimo” (Es 26:33; 1Re 6:16); in ebraico קֹדֶשׁ הַקֳּדָשִׁים (qòdesh haqodashìm), “santo dei santi”. Questo comparto più interno era cubico. Nel Tempio gerosolimitano questa stanza “aveva venti cubiti di lunghezza, corrispondenti alla larghezza della casa, e venti cubiti di larghezza” ed era ricoperta “d’oro finissimo” (2Cron 3:8). Un cubito era pari a 0,45 m, per cui il Santissimo misurava quasi 9 m di spigolo. Nel Tempio, sia le pareti sia il soffitto erano di legno di cedro rivestito d’oro; le pareti erano ornate da cherubini scolpiti, simbolo della sovranità di Dio. – 1Re 6:16,29; 2Cron 3:7,8.
La luce Shekinàh. Nel Santissimo non c’erano candelabri e la luce solare non vi entrava. C’era però una cassa sacra, “l’arca del patto” (Gs 3:6; Eb 9:4) o ‘arca della testimonianza’ (Es 25:22), con un coperchio d’oro massiccio, su cui erano fissati due cherubini d’oro, uno di fronte all’altro, con il capo chinato e con le ali allungate verso l’alto e coprenti l’arca (Es 25:10,11,17-22;37:6-9). Questo coperchio era anche chiamato “propiziatorio” (Es 25:17; Eb 9:5). Dio aveva detto: “Io apparirò nella nuvola sul propiziatorio” (Lv 16:2; cfr. 1Sam 4:4). Evidentemente era la nuvola, la fonte di luce, essendo la nuvola luminosa. Gli ebrei chiamano questa luce שכינה (shekinàh), la cui etimologia è connessa al verbo ebraico לשכון (lishchòn), “dimorare”; la luce shekinàh indica quindi la dimora, l’abitazione o presenza di Dio.
Della Nuova Gerusalemme, vista in visione dall’apostolo Giovanni, questi dice: “La città non ha bisogno di sole, né di luna che la illumini, perché la gloria di Dio la illumina, e l’Agnello è la sua lampada”. – Ap 21:23.
La cortina. Il Santissimo era protetto al suo ingresso da una cortina, un “velo, di filo violaceo, porporino, scarlatto e di lino fino ritorto con dei cherubini artisticamente lavorati” (Es 36:35). Questa cortina non poteva essere oltrepassata da nessuno, mai. Solo il sommo sacerdote poteva oltrepassarla ed entrare nel Santissimo, e poteva farlo solo una volta l’anno, nel Giorno delle Espiazioni. – Lv 16:2.
Quando Yeshùa, sulla croce, “avendo di nuovo gridato con gran voce, rese lo spirito”, accadde una cosa straordinaria: “La cortina del tempio si squarciò in due, da cima a fondo” (Mt 27:50,51). Lo scrittore di Eb spiega:
“[Nel Santissimo] non entra che il sommo sacerdote una sola volta all’anno, non senza sangue, che egli offre per se stesso e per i peccati del popolo. Lo Spirito Santo voleva con questo significare che la via al santuario non era ancora manifestata finché restava ancora in piedi il primo tabernacolo. Questo è una figura per il tempo presente. I doni e i sacrifici offerti secondo quel sistema non possono, quanto alla coscienza, rendere perfetto colui che offre il culto, perché si tratta solo di cibi, di bevande e di varie abluzioni, insomma, di regole carnali imposte fino al tempo di una loro riforma. Ma venuto Cristo, sommo sacerdote dei beni futuri, egli, attraverso un tabernacolo più grande e più perfetto, non fatto da mano d’uomo, cioè, non di questa creazione, è entrato una volta per sempre nel luogo santissimo, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue. Così ci ha acquistato una redenzione eterna”. – Eb 9:7-12.
“Cristo non è entrato in un luogo santissimo fatto da mano d’uomo, figura del vero; ma nel cielo stesso, per comparire ora alla presenza di Dio per noi”. – Eb 9:24.
Il velo o cortina separava il luogo santo o Tempio (Es 38:24; 2Cron 29:5; At 21:28) dal Santissimo, la parte più interna e nascosta del Tempio, il Santo dei Santi, dove Dio era presente nella Shekinàh. Era una barriera per la comunità d’Israele. Poteva essere valicata solo una volta l’anno e solo dal sommo sacerdote, nel Giorno delle Espiazioni. Nel momento in cui Yeshùa morì, il velo si squarciò in due. Da allora in poi è possibile incontrare Dio nel Santo dei Santi, il che significa che possiamo accedere a Dio nel nome di suo figlio, Yeshùa, proclamato da Dio “sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec”. – Eb 5:10.
L’incenso. Nel Giorno delle Espiazioni il sommo sacerdote doveva anche fare così: “Prenderà un turibolo pieno di carboni accesi, tolti dall’altare davanti al Signore, e due manciate di incenso aromatico polverizzato; e porterà ogni cosa di là dalla cortina. Metterà l’incenso sul fuoco davanti al Signore, affinché la nuvola dell’incenso copra il propiziatorio che è sulla testimonianza”. – Lv 16:12,13.
“La mia preghiera sia in tua presenza come l’incenso”. – Sl 141:2.
La preghiera è detta “ora del profumo” (Lc 1:10), alludendo all’incenso che veniva bruciato. “Le coppe d’oro piene di profumi” di Ap 5:8 “sono le preghiere dei santi”.
“Venne un altro angelo con un incensiere d’oro; si fermò presso l’altare e gli furono dati molti profumi affinché li offrisse con le preghiere di tutti i santi sull’altare d’oro posto davanti al trono. E dalla mano dell’angelo il fumo degli aromi salì davanti a Dio insieme alle preghiere dei santi”. – Ap 8:3,4.
L’altare non doveva essere dissacrato da incenso profano, in questo giorno. Sarebbe stata un’offesa a Dio e un insulto al sacrificio di Yeshùa.
L’incenso usato era un miscuglio di balsami e resine aromatiche che era bruciato lentamente, sprigionando una fragranza particolare. La formula, la ricetta per l’incenso era divina, data direttamente da Dio: “Prenditi degli aromi, della resina, della conchiglia profumata, del galbano, degli aromi con incenso puro, in dosi uguali; ne farai un profumo composto secondo l’arte del profumiere, salato, puro, santo; ne ridurrai una parte in minutissima polvere e ne porrai davanti alla testimonianza nella tenda di convegno, dove io mi incontrerò con te: esso sarà per voi cosa santissima. Del profumo che farai, non ne farete altro della stessa composizione per uso vostro; sarà per te cosa santa, consacrata al Signore. Chiunque ne farà di uguale per odorarlo, sarà eliminato dal suo popolo”. – Es 30:34-38.
I rabbini ebrei aggiunsero poi altri ingredienti all’incenso usato nel Tempio. La formula data da Dio prevedeva quattro ingredienti; si arrivò a usarne ben 13 (cfr. Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, V, 218). Moshe ben Maimon, grande pensatore ebreo del 12° secolo, più noto come Maimonide, dice che tra gli ingredienti aggiunti c’erano ambra, cassia, cinnamomo, mirra, zafferano e nardo.
L’incenso sacro era bruciato ogni mattina e ogni sera (Es 30:7,8; 2Cron 13:11), ma solo una volta l’anno, nel Giorno delle Espiazioni, era portato dal sommo sacerdote nel Santissimo, dove si faceva fumare. – Lv 16:12,13.
Con il dilagare dell’apostasia, i giudei arrivarono a chiudere il Tempo, smettendo di offrire incenso, tanto che in 2Cron 29:7 si lamenta: “Hanno chiuso le porte del tempio, hanno lasciato spegnere la lampada, hanno smesso di offrire l’incenso e i sacrifici nel santuario del nostro Dio” (PdS). “Tolsero via tutti gli altari sui quali si offrivano incensi, e li gettarono nel torrente Chidron” (2Cron 30:14). La cosa peggiore fu che offrirono incenso agli idoli (Ez 8:10,11). Disgustarono talmente Dio che egli arrivò a dire: “Smettete di portare offerte inutili; l’incenso io lo detesto”. – Is 1:13.
Il significato. Il significato più importante del Giorno delle Espiazioni è che dobbiamo tenere sempre a mente che è solo Yeshùa che ci può riconciliare con Dio e ci dà l’accesso a lui (Eb 9:22-28). Senza Yeshùa saremmo morti, perché la pena per ogni peccato è la morte (Rm 6:23). Questa è la bellezza del sacrificio di Yeshùa, manifestazione del grande amore di Dio.
“Noi eravamo ancora incapaci di avvicinarci a Dio, quando Cristo, nel tempo stabilito, morì per i peccatori. È difficile che qualcuno sia disposto a morire per un uomo onesto; al massimo si potrebbe forse trovare qualcuno disposto a dare la propria vita per un uomo buono. Cristo invece è morto per noi, quando eravamo ancora peccatori: questa è la prova che Dio ci ama. Ma non basta: ora Dio per mezzo della morte di Cristo ci ha messi nella giusta relazione con sé; a maggior ragione ci salverà dal castigo, per mezzo di lui. Noi eravamo suoi nemici, eppure Dio ci ha riconciliati a sé mediante la morte del Figlio suo; a maggior ragione ci salverà mediante la vita di Cristo, dopo averci riconciliati. E non basta! Addirittura possiamo vantarci di fronte a Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, perché ora, grazie a lui, Dio ci ha riconciliati con sé”. – Rm 5:6-11, PdS.
Ecco perché dobbiamo osservare il Giorno delle Espiazioni, digiunando come prescritto da Dio (Nm 29:7). Con il digiuno ci rendiamo conto di quanto fragili e deboli siamo sia fisicamente sia spiritualmente. Noi ci affliggiamo con il digiuno, negandoci ciò che i nostri corpi fisici richiedono. Lo scopo principale del digiuno nel Giorno delle Espiazioni è di rompere le catene inique che satana ha messe su tutti. Digiunando ci rendiamo conto che noi non siamo nulla e che è solo attraverso la grazia di Dio che noi siamo tenuti in vita. Attraverso il digiuno ci si rende conto di quanto il nostro corpo non possa vivere senza cibo. Il significato spirituale è che non possiamo avere la vita senza il cibo spirituale, che è lo spirito santo di Dio. È un’esperienza molto umiliante che ci aiuta ad avvicinarci a Dio in timore e umiltà. In Is 58:1-5 è detto cosa succede quando non digiuniamo con il giusto scopo e con la seria intenzione di affliggere noi stessi. Dobbiamo perciò prestare attenzione per comprendere e rispettare la serietà di questa santa giornata, di questo שַׁבַּת שַׁבָּתֹון, shabàt shabatòn (Lv 16:31), sabato di riposo solenne.
Il giusto atteggiamento che deve accompagnare il nostro umiliante digiuno, in ubbidienza davanti a Dio, è anche atteggiamento di speranza e di amore, confidando nelle promesse del potente Dio d’Israele.
Dice Dio:
“Per digiuno io intendo un’altra cosa: rompere le catene dell’ingiustizia, rimuovere ogni peso che opprime gli uomini, rendere la libertà agli oppressi e spezzare ogni legame che li schiaccia. Digiunare significa dividere il pane con chi ha fame, aprire la casa ai poveri senza tetto, dare un vestito a chi non ne ha, non abbandonare il proprio simile. Allora sarà per te, popolo mio, l’alba di un nuovo giorno, i tuoi mali guariranno presto. Ti comporterai davvero in modo giusto e il Signore ti proteggerà con la sua presenza. Quando lo chiamerai egli ti risponderà; chiederai aiuto e lui dirà: ‘Eccomi’. Se tu smetti di opprimere gli altri, di disprezzarli, di parlarne male, allora la luce scaccerà l’oscurità in cui vivi. Se dividi il tuo cibo con chi ha fame e sazi il povero, la luce del pieno giorno ti illuminerà. Il Signore ti guiderà sempre: ti sazierà anche in mezzo al deserto e ti restituirà le forze. Sarai rigoglioso come un giardino ben irrigato, come una sorgente che non si prosciuga. Allora rialzerai le vecchie rovine, le ricostruirai sulle fondamenta abbandonate da tanto tempo. Sarai conosciuto come ‘Il popolo che ripara le spaccature delle mura e ricostruisce la città per riabilitarla’. Il Signore aggiunge: Se rinunzi a lavorare di sabato, il mio santo giorno; se lo consideri come un giorno di gioia da rispettare perché è consacrato a me; se l’onori rinunziando a metterti in cammino e a fare contratti, allora troverai la tua gioia in me, il Signore. Ti porterò in trionfo ovunque, anche sui monti. Ti godrai la terra che io ho dato in possesso a Giacobbe, il tuo antenato. Io, il Signore, lo prometto”. – Is 58:6-14, PdS.