Pur rendendo omaggio all’elevatezza morale e spirituale del profeta, molti critici pensano purtroppo che i profeti biblici rientrino in un fenomeno comune a tutti i popoli. Per questi critici i profeti non sarebbero altro che degli esaltati che artificialmente (con musica, danza e grida) pervenivano a uno stato di eccitazione in cui essi si sarebbero sentiti posseduti da Dio e si sarebbero immaginati di parlare a suo nome.
A quest’asserzione si può rispondere che basta aprire Isaia e Geremia o Ezechiele per convincersi che il profeta ebreo è tutt’altra cosa che un derviscio. L’antichità pagana non ci ha lasciato proprio nulla di se stessa che sia più eloquente del richiamo dei profeti ebrei alla giustizia e alla purezza morale. Quei profeti ebrei furono dei veri “apostoli” e si può dire che il loro apostolato dura tuttora, tanto è il frutto che essi hanno recato.
In ogni caso è bene esaminare profondamente il presunto contatto tra il profetismo biblico e quello extrabiblico, così da conoscere meglio sia le eventuali affinità sia le divergenze.
Estremo Oriente. H. A. Rowley, in Prophecy and Religion in Ancient China and Israel (London, 1956), volle tentare un raffronto tra i profeti biblici e i saggi cinesi, insistendo su Confucio (552-479 a. E. V.) che si riteneva “un inviato dal cielo” (Discorsi II,4, su Meti, 479-381 a. E. V.; su Mencio, 374-289 a. E. V.). Un punto di contatto è certamente che tanto i saggi cinesi che i profeti biblici condannarono l’ambizione e l’orgoglio dei dominatori. Entrambi lavorarono con passione per riformare la mentalità umana e sostituirla con la legge della giustizia. Sia saggi cinesi che profeti biblici non concepivano “l’età dell’oro” come un mondo utopistico o un Eden materiale, ma volevano soprattutto il regno della giustizia e del diritto. Vero, ma questo non rende per nulla i profeti della Bibbia assimilabili ai saggi cinesi. I saggi dell’antica Cina differiscono dai profeti d’Israele nella loro attitudine verso il culto. I profeti ebrei cercarono di spiritualizzare il culto, non di riformare i riti; avevano una concezione particolare di Dio e questa era dovuta al loro contatto con Dio e alla loro esperienza personale di Dio (il che era qualcosa di molto intimo nel loro essere). I saggi cinesi ignorano del tutto questo contatto personale con Dio. Ed è proprio qui che troviamo in carattere unico ed esclusivo del profetismo biblico.
Grecia. Il profetismo greco si esprime in due modi fondamentalmente diversi: il màntis (“posseduto”) che si rivolge all’aristocrazia; il cresmòlogo, che dà oracoli al popolo in nome della divinità.
Il màntis (come Cassandra o Tiresia) era in contatto con dei sovrani o (come Pitia) con dei luoghi di culto. La loro attività s’esplicava usualmente nel campo della magia: Tiresia, ad esempio, studiava gli uccelli per dedurne un responso. Quest’aspetto magico è assolutamente assente nel profetismo biblico, tanto è vero che i traduttori greci della Bibbia hanno del tutto evitato di ricorrere alla parola greca màntis per designare i veggenti e i profeti biblici. È pur vero che in alcuni casi i profeti greci assumono forme estatiche, come descritte da Luciano (Farsalia 5,161) e da Virgilio (Eneide 6,45-51). Tiresia e Cassandra si sentono, talora, ispirati dalla divinità senza alcuna previa operazione magica. Tuttavia, la sostanza dei loro messaggi riguarda eventi particolari che non hanno alcunché a che fare con una visione di un migliore avvenire (messianismo). In loro v’è il fato che domina tutto e cui non si può sfuggire!
I cresmologi (“dicitori di poemi”) si ritenevano ispirati direttamente dalla divinità ed erano improvvisamente presi da estasi o posseduti senza ricorrere alla tecnica divinatrice. È la caratteristica che godettero dall’8° al 6° secolo a. E. V., ma che poi perdettero nel 5° secolo, quando si ridussero al rango di puri ripetitori interpreti degli oracoli emessi dai loro predecessori. Era tutta gente del popolo che presentava quindi caratteri plebei e proletari. La loro missione non si svolgeva presso le corti, ma in mezzo al popolo. Passavano di paese in paese offrendo i loro oracoli e profetizzando l’immediato futuro. Vivendo poveramente di elemosina, predicevano solo dei piccoli fatti che interessavano il richiedente, proprio come gli indovini o “maghi” attuali. Non avevano perciò dottrine sociali da presentare alla gente, giacché il popolo non avrebbe potuto attuarle. È questa l’enorme differenza che crea un abisso tra loro e i profeti ebrei.
Un contenuto più sociale e un’analogia più profonda con i profeti biblici si può rinvenire nelle Opere e i giorni di Esiodo. Si tratta, infatti, di una religione di contadini beoti preoccupati dell’economia, del lavoro e della legalità. Esiodo sente il bisogno di giustizia, per il cui centro della sua religiosità sta in Dike, assistente di Zeus, che denuncia al trono del dio gli abusi di cui gli oranti sono vittime. L’idea della corruzione sociale apparenta Esiodo ad Amos, a Osea e agli altri profeti biblici dell’8° secolo a. E. V.. Ma ci troviamo qui nel campo della poesia e della sapienza, e non nel campo dell’ispirazione profetica. Per Esiodo la giustizia sta nell’ordinamento politico della città, nella difesa della proprietà e nella stabilità delle gerarchie sociali. Anche in Israele vi è la “saggezza”, ma i profeti biblici sono tutt’altra cosa. Per i profeti ebrei la giustizia è un attributo divino. È da Dio che si deve attendere la giustizia. La giustizia profetica non è una realtà nazionale ma una realtà sopranazionale e divina. È per questo che Clemente Alessandrino interpretava la saggezza greca soltanto come una provvidenziale preparazione alla rivelazione di Dio effettuata in Yeshùa, che era qualcosa di ben superiore. – Stromata I,5 PG 8,717.
Medio Oriente. Dominano due correnti: una sostiene che il profetismo biblico sarebbe un prodotto di un fenomeno comune a tutti i popoli dell’Oriente antico; l’altra ne limita la derivazione dalla Siria o da Mari.
Secondo la prima corrente, si pensa di trovare in Arabia la migliore spiegazione del termine nabì (“profeta”), che deriverebbe da nabaà (“parlare a nome di un altro”). È tuttavia assai discutibile poggiare una teoria su di un’ipotesi filologica ora ormai abbandonata dalla maggioranza degli studiosi che fanno notare che la parola nabì non si rinviene nell’arabo antico (si tratta invece di un’importazione in epoca tardiva attraverso l’ebraico). Nell’Islam l’indovino si chiamava hoèn (da kūn, “stare dinanzi” a Dio), parola che designava anche il sacerdote. Infatti, “nella pratica ordinaria il culto assumeva le tre forme del sacrificio, della processione e della divinazione” (E. Power, L’Islam, in Christus, Paris, pag. 737). È un indizio troppo misero anche quello di basare l’origine araba del profetismo sul fatto che i profeti portavano un mantello di pelo che sarebbe la sopravvivenza del mantello usato dai beduini (1Re 19:13; 2Re 1:8, cfr. con Zacc 13:4). Ancor più debole è la supposizione che le incisioni sulla pelle di cui parlerebbe 1Re 20:41 sarebbero la sopravvivenza dell’antico segno distintivo tribale tatuato sulla pelle (Chayne, in Enciclopedia Biblica colonna 3857). Si citano poi due documenti egizi. Si tratta della Profezia di Ipuwer, manoscritto che proviene dalla 19a o 20 a dinastia (1350-1100 a. E. V.), il cui contenuto risale forse al periodo tra l’Antico e Medio Impero (2300-2050 a. E. V.). In questo manoscritto si parlerebbe dell’avvento di un liberatore che avrebbe portato ordine e salvezza. Il manoscritto è però conservato molto male e l’egittologo A. H. Gardiner lo sottomise ad un serio esame, da cui risultò che doveva essere eliminato ogni annuncio profetico. I più seri egittologi concordano sul fatto che il manoscritto parla solo di una grande miseria causata da disordini civili. Il secondo testo è quello di Nefer-Rohu (che l’egittologo Posener legge, forse meglio, Neferti). Il testo attuale è della 18a dinastia, ma la sua composizione deve risalire a circa 500 anni prima, nel Medio Impero (12a dinastia). Tuttavia, il testo attribuisce la profezia a Nefer-Rohu, vissuto al tempo della 4a dinastia faraonica. In Nefer-Rohu vi è una nota morale, ma si tratta sempre di una giustizia procurata dal re perché autore dell’ordine. Non si tratta di una felicità causata da una conversione personale. Oltretutto, le profezie fatte da Nefer-Rohu (che riguardano l’avvento di un nuovo re) non furono pronunciate da lui, ma gli furono messe in bocca datandole al tempo del re Snefru della 4a dinastia (2630 a. E. V.), sebbene pronunciate al tempo di Amen-Em-Het I (1991-1961 a. E. V.). In ogni caso, nessuno dei due profeti egizi parla in nome di un dio o si presenta come ispirato da lui. Si tratta piuttosto di indovini. Niente a che fare quindi con i profeti ebrei.
Rimanendo nel Medio Oriente, viene ricordato che in Mesopotamia Hammurabi aveva il suo baru (“veggente”). Gli indovini mesopotamici formavano spesso una vera corporazione ereditaria. Tra le varie categorie di veggenti si notano i baru, gli shaìlu e i mahhu. Anche se il mahhu non è sempre collegato con le pratiche magiche, sembra che di regola i divinatori della Babilonia utilizzassero una tecnica divinatoria basata sull’esame degli uccelli, del fegato delle vittime e degli astri (specialmente della luna), e sulla lecanomanzia. Quindi, neppure qui un collegamento è riscontrabile con il profetismo biblico.
Una corrente molto diffusa ritiene che il profetismo biblico si ricolleghi a manifestazioni esistenti in Siria e che sarebbero state conosciute dagli ebrei dopo il loro ingresso in Canaan. È qui – fanno notare questi studiosi – che appare per la prima volta una forma estatica, mentre prima il profetismo ebraico era esercitato senza alcuna esaltazione psichica (come – ad esempio – nel caso di Debora sotto la sua palma, in Gdc 4:4). Presso i cananei appaiono danze frenetiche con la saltatio claudicans (saltellare zoppicando), incisioni personali e altro: “Fino a quando zoppicherete dai due lati? Se il Signore è Dio, seguitelo; se invece lo è Baal, seguite lui” (1Re 18:21); “[I profeti di Baal] saltavano intorno all’altare che avevano fatto” (Ibidem v. 26), “Si misero a gridare più forte, e a farsi delle incisioni addosso, secondo il loro costume” (Ibidem v. 28). Di queste manifestazioni parla anche Eliodoro (Aethiopica IV,17): “S’ergono saltando leggermente, ora zoppicando, ripiegando tutto il corpo come dei possessi, aggirandosi in circolo”. Un’estasi è ricordata nei testi di Ras Shama. Non possiamo negare che in Israele talvolta sia apparsa una manifestazione estatica simile a quella cananea. I profeti biblici a volte si sentirono invasati da una forza esteriore che li faceva agire in modo insolito. Di Sansone, quando si sentì riempito dallo spirito di Dio, di dice che “lo spirito del Signore investì Sansone, che, senza aver niente in mano, squartò la belva [un leone], come uno squarta un capretto” (Gdc 14:6). Si noti che il verbo ebraico itnabè (“profetizzare”) indicava anche il manifestare con entusiasmo spirituale, con parole, canti e gesti di esaltazione e di estasi: “Il Signore scese nella nuvola e parlò a Mosè; prese dello Spirito che era su di lui, e lo mise sui settanta anziani; e appena lo Spirito si fu posato su di loro, profetizzarono, ma poi smisero” (Nm 11:25). Si noti qui che il profetizzare non comportava in questo caso nessuna proclamazione di rivelazione, ma solo il comportamento; TNM traduce, infatti: “Avvenne che appena lo spirito si posò su di loro, allora agivano da profeti”. Allo stesso modo, in 1Sam 10:5 leggiamo: “Incontrerai una schiera di profeti che scendono dall’alto luogo, preceduti da saltèri, da timpani, da flauti, da cetre. Essi profetizzeranno”. Anche qui il profetizzare è dato solo dal loro comportamento, tanto che a Saul viene detto: “Lo spirito del Signore t’investirà, e tu profetizzerai con loro e sarai cambiato in un altro uomo” (v. 6). Così anche in 1Sam 19:20,21,23,24 (TNM): “Lo spirito di Dio fu sui messaggeri di Saul, e anche loro si comportavano da profeti”, “Mandò immediatamente altri messaggeri, e anche loro si comportavano da profeti. Saul mandò dunque di nuovo messaggeri, il terzo gruppo, e anche loro si comportavano da profeti”, “Lo spirito di Dio fu su di lui, sì, su di lui, ed egli continuò a camminare e continuò a comportarsi da profeta”, “Anche lui si spogliava delle sue vesti e si comportava, anche lui, da profeta davanti a Samuele, e, caduto, giacque nudo tutto quel giorno e tutta quella notte. Perciò dicevano: ‘Anche Saul è tra i profeti?’”. Questo “comportarsi da profeta” poteva essere causato anche da uno spirito malvagio, come nel caso di Saul: “Lo spirito cattivo di Dio divenne operante su Saul, così che si comportò da profeta dentro la casa” (1Sam 18:10, TNM); anche se sarebbe meglio non tradurre “lo spirito cattivo di Dio” (Dio non ha certo uno spirito cattivo, mai), ma: “Un cattivo spirito, permesso da Dio, si impossessò di Saul” (NR). Questo tipo di comportamento strano (nel linguaggio biblico: “profetizzare”) era tipico anche dei profeti di Baal: “Invocavano con quanto fiato avevano e si facevano incisioni secondo la loro abitudine con daghe e lance, finché si fecero scorrere il sangue addosso […] e continuavano a comportarsi da profeti” (1Re 18:28,29, TNM). Era tipico anche dei falsi profeti. – 1Re 22:10; Ger 14:14.
Il profetismo del culto di Baal (detto Baal saltationis) fu introdotto in Israele dalla regina Izebel (1Re 18:19), ma si trattò di un fenomeno concernente il culto di Baal e non della spiritualità ebraica. Il saltellare zoppicando e il farsi incisioni appartenevano a questo culto pagano. Sembra che TNM non comprenda per niente quest’aspetto, dato che traduce: “Fino a quando zoppicherete su due differenti opinioni?” (1Re 18:21, TNM). Lo zoppicare rituale pagano dei profeti di Baal viene scambiato per uno ‘zoppicare su due opinioni’!, concetto occidentale che tra l’altro non viene neppure espresso così, ma – casomai – con il “tenere il piede in due scarpe”. Sono i profeti di Baal che “zoppicavano intorno all’altare” (v. 26, TNM). Forse la mancata comprensione è dovuta al fatto che le parole di Elia sullo zoppicare seguono la frase “Elia si accostò quindi a tutto il popolo e disse” (v. 21, TNM) e precedono la frase “Se il [vero] Dio è Geova, seguitelo; ma se è Baal, seguite lui” (Ibidem, TNM). Se la confusione è causata da questa lettura, occorre dire che il contesto stabilisce che sia il popolo d’Israele sia i 400 profeti di Baal erano presenti: “Manda a radunare tutto Israele presso di me sul monte Carmelo e anche i quattrocentocinquanta profeti di Baal […]. E Acab mandava fra tutti i figli d’Israele e radunava i profeti [di Baal] sul monte Carmelo” (vv. 19,20, TNM). Erano quindi presenti sia il popolo sia i profeti pagani. Il discorso di Elia è rivolto a tutt’e due i gruppi insieme. Elia domanda agli israeliti fino a quando intendono continuare a “zoppicare” praticando il culto di Baal, tanto che poi li sfida: “Voi dovete invocare il nome del vostro dio, e io, da parte mia, invocherò il nome di Geova”. – V. 24, TNM.
Il profetismo biblico, pur avendo in alcuni casi manifestazioni simili a quelle cananee, non può ritenersi originato da Canaan. La dimostrazione è che esso appare anche prima dell’ingresso in Canaan (Miryàm, in Es 15:20; Aaronne, ibidem; Mosè, in Dt 34:10; i settanta anziani, in Nm 11:25). Mancano poi i segni caratteristici del baalismo, come lo zoppicare nel rito pagano. L’opposizione netta dei profeti biblici al culto di Baal rende impossibile che essi abbiano tratto la loro origine dal culto di Baal. Solo alcune manifestazioni profetiche al tempo di Samuele possono spiegarsi con l’influsso del baalismo, ma questo non basta per sostenere l’origine cananea del profetismo biblico che usualmente si presenta senza i caratteri estatici (di fenomeni estatici se ne parla solo per Daniele ed Ezechiele). In più, le manifestazioni estatiche cananee erano provocate, mentre i profeti biblici parlano come inviati di Dio da cui erano afferrati improvvisamente senza alcuna preparazione. Il profeta biblico parla personalmente e coscientemente in nome di Dio, mentre negli estatici era la divinità che si esprimeva senza la consapevolezza della persona.
Con la pubblicazione dei testi di Mari il problema del profetismo entrò in una nuova fase. Mari era un’antica città amorrita, di cui (tra il 1931 e il 1951) furono scoperte nelle rovine del palazzo reale ben 20.000 tavolette cuneiformi risalenti alla prima metà del secondo millennio a. E. V.. Si trattava quindi di tavolette molto importanti per la storia dell’epoca patriarcale. Mari era posta in località siriana sulla riva occidentale dell’Eufrate. A Mari, oltre all’esistenza della divinazione, appaiono già dal tempo di Hammurabi (18° secolo a. E. V.) alcune forme tipiche del profetismo ebraico. Dalle lettere di Mari, oltre ad un profetismo cultuale costituito da sacerdoti-indovini (baru) e oltre ad un gruppo di persone a carattere estatico (mahhu), appare anche il profeta direttamente chiamato da un dio che gli comunica la sua volontà indipendentemente da qualsiasi preparazione magica.
Queste scoperte hanno posto fine alle ipotesi che erano state formulate da alcuni critici che sostenevano che le manifestazioni profetiche ebraiche del periodo pre-monarchico fossero degli anacronismi perché sarebbero state delle proiezioni nel passato di situazioni posteriori. Oggi – dopo la scoperta delle lettere di Mari – sappiamo con certezza che non c’è più ragione di dubitare della storicità e delle veridicità biblica circa il profetismo. La documentazione di Mari attesta che già nel 18° secolo a. E. V. queste manifestazioni erano presenti presso quei pagani, per cui non c’è motivo di dubitare delle manifestazioni profetiche ebraiche che sono posteriori. Per quanto riguarda le somiglianze tra le manifestazioni di Mari e quelle di Israele non dobbiamo lasciarci impressionare dalle forme che sembrano all’apparenza simili. Bisogna invece guardare alla sostanza, e questa è profondamente diversa. Questa diversità verte su tre punti.
- Mentre presso i popoli pagani è sempre un dio che invia il suo rappresentante, presso Israele i profeti sono invece inviati da Yhvh che è l’unico Dio vero ed esistente. Il monoteismo biblico mai, come nei profeti, appare proprio nel suo più fulgido splendore.
- I messaggi al di fuori della Bibbia sono in genere spiritualmente molto poveri. Presso i pagani basta esporre un problema a un dio e quel dio ci penserà. Basta edificargli un tempio e tutto sarà risolto. È sufficiente offrire un sacrificio per credere di cambiare la sorte del paese. (Si noti la somiglianza con le moderne “apparizioni della Madonna”: nelle apparizioni viene fatta la richiesta di erigere una chiesa e di fare sacrifici sotto forma di preghiere e di rinunce). Per i profeti della Bibbia, al contrario, occorre cambiare la propria condotta morale da parte di tutti – popolo e classe dirigente -, togliere l’oppressione e l’alterigia, adorare l’unico vero Dio senza nessuna forma idolatria. Per i profeti i sacrifici a nulla valgono, ma occorre cambiare l’intento del proprio animo. Ci troviamo qui in un campo che il profetismo non biblico non tocca neppure. Anche presso i sumeri, dove sembrerebbe che tali idee appaiano nella religiosità, tutto è legato alla costruzione di un tempio. È dunque alla differenza sostanziale del messaggio che dobbiamo guardare, nonostante tutte le formule simili. È nella sostanza del messaggio profetico della Bibbia che si vedono la mano di Dio e l’ispirazione.
- Le predizioni bibliche si trovano in condizioni nettamente superiori alle predizioni di altri popoli. Le predizioni pagane sono predizioni che rientrano nel campo della congettura e di cui non sappiamo per nulla se si siano avverate o no; si tratta poi spesso di predizioni che rientrano in testi dalla stesura così posteriore che non ci si può fidare della loro storicità (si veda, ad esempio, ciò che riguarda Nefer-Rohu in Egitto, già trattato sopra). Per i testi profetici biblici, al contrario, abbiamo la certezza che essi sono stati composti in epoca anteriore agli eventi. E sappiamo che non sono stati composti per glorificare il popolo, ma per profetizzare mali imminenti o futuri, rimandando l’esaltazione a un solo piccolo rimanente di persone (messianismo).
Da tutte le precedenti osservazioni si deve concludere che il profetismo biblico è del tutto diverso da quello non biblico, nonostante alcune affinità esteriori che non vanno sopravalutate.