Che cosa sappiamo del Dio d’Israele? La risposta a questa importantissima domanda può venirci solo dalla Sacra Scrittura, in particolare dalle Scritture Ebraiche o Tanàch. Le Scritture Greche, che pure contengono la rivelazione di Dio attraverso Yeshùa, vanno comprese alla luce di quelle ebraiche. La domanda, allora, diventa: Che cosa dice il Tanàch del Dio d’Israele?
Per una seria analisi, non va privilegiata una parte delle Scritture Ebraiche a discapito di un’altra. È dal Tanàch nel suo insieme che possiamo trarre una vera teologia. Neppure si deve fare l’errore di mettere al centro un solo tema, come ad esempio l’alleanza di Dio con gli ebrei o l’elezione d’Israele o, perfino, la salvezza.
Le Scritture Greche hanno al centro, senza ombra di dubbio, la morte e la risurrezione di Yeshùa. La situazione del Tanàch, però, è del tutto diversa. Con ciò, intendiamo dire che non è corretto cercare un centro teologico nel Tanàch, ma occorre guardare al suo insieme. È questo il giusto approccio.
Come si presenta il Tanàch? Possiamo dire che le Scritture Ebraiche raccontano una storia: la storia di Dio con l’umanità e, in particolare, con il popolo d’Israele. Questo racconto è storico, basato su accadimenti concreti. Ed è qui, negli accadimenti, che va ricercata la vera teologia del Tanàch, non nei concetti, come invece sarebbe più propensa a fare la mente occidentale.
Tutti gli accadimenti del passato, la cui narrazione è conservata nel Tanàch, hanno una precisa struttura. Non dobbiamo pensare di poter semplicemente sintetizzare quelli accadimenti in una specie di tabella, per ricavarne la struttura. Questo è l’errore che fece Gerhard von Rad, che affermò che “ri-raccontare la storia è la via più legittima per una teologia per parlare dell’Antico Testamento” (Teologia dell’Antico Testamento, Paideia, Brescia, 1974, Vol. 1, pag. 131). Ma come si fa a ri-raccontare il libro biblico di Proverbi o quello dei Salmi?
La struttura del Tanàch, consegnataci dagli ebrei, che furono i custodi della Sacra Scrittura (cfr. Rm 9:4), è costituita da una triplice tripartizione: Toràh (Insegnamento), Nevyìm (Profeti) e Ketuvìm (Scritti), le cui iniziali formano l’acronimo di Tanàch:
Ta |
ת |
תורה |
Toràh |
Insegnamento |
Na |
נ |
נביאים |
Nevyìm |
Profeti |
Ch |
כ > ך |
כתובים |
Ketuvìm |
Scritti |
Questa struttura fu riconosciuta anche dal giudeo Yeshùa quando disse: “Si dovevano compiere tutte le cose scritte di me nella legge di Mosè, nei profeti e nei Salmi” (Lc 24:44), stando qui “Salmi” per l’intera sezione degli altri scritti, essendone la sezione più corposa.
Nelle narrazioni dei libri storici, da Genesi alle Cronache, la parola di Dio diventa accadimento. Negli altri libri che compongono il Tanàch troviamo la risposta di coloro nei quali Dio operò, il suo popolo.
Il che, per rispondere alla domanda su cosa dice il Tanàch del Dio d’Israele, ci riportata alle Scritture Ebraiche. Non si tratta però di un cane che si morde la coda, e neppure di un lungo giro che ci riporta all’inizio. Ritrovare questa via è stato importante per escludere il fossilizzarsi su una sola questione, riducendo il Tanàch a un singolo concetto, come di solito fanno gli studiosi, soffermandosi chi su l’elezione, chi sul patto, chi sulla fede, chi sull’annuncio, chi sulla redenzione, chi sull’escatologia e chi su altro ancora. Anzi, è proprio usando questi termini tecnici che tali studiosi si allontanano dal linguaggio biblico, il quale è molto concreto e non è impostato sui vocaboli ma sui verbi, che esprimono – appunto – azioni, non concetti.
Quest’ultima considerazione fatta sui verbi è molto importante e non va trascurata: ci suggerisce, infatti, che per scoprire cosa il Tanàch dice di Dio occorre partire dalle strutture verbali. Questo approccio, che potrebbe stupire l’odierno occidentale, richiede un cambio nel nostro modo di pensare. Oggigiorno, nel mondo occidentale, che è il nostro, siamo abituati a pensare per concetti e idee. Ecco allora il rischio di andare a cercare nel Tanàch proprio dei concetti, delle nozioni, come si farebbe studiando un classico della nostra letteratura. Non c’è niente di più lontano dalla mentalità semitica, che aborriva le astrazioni. Nel Tanàch va ricercata l’azione, l’azione di Dio con il suo popolo. Per fare un esempio concreto: anziché cercare nel Tanàch il concetto di salvezza, dovremmo cercarvi i gesti e le azioni di salvezza.
La storia biblica
La storia raccontata del Tanàch, di che tipo è? Non è storia come intesa modernamente. Nella storiografia moderna non c’è posto per Dio. Nella storia biblica gli accadimenti avvengono tra Dio e la sua creazione, quindi Dio interagisce nella storia. Per gli ebrei non esisteva realtà senza l’agire di Dio. La Bibbia inizia con queste parole: “Nel principio Dio creò i cieli e la terra” (Gn 1:1), e ciò già manda in frantumi la distinzione che l’uomo fa tra natura e storia. Dio da subito, da sempre, è continuamente all’opera in tutto, in ogni cosa, come riconobbe anche Yeshùa: “Il Padre mio opera fino ad ora”. – Gv 5:17.
La storia biblica si dispiega simultaneamente in tre ambiti:
Al centro sta la storia del popolo di Dio. Questa storia può essere esposta storicamente e cronologicamente; è la storia politica della nazione eletta tra le altre nazioni.
In un cerchio più ampio c’è la storia ebraica delle famiglie, delle generazioni nella loro sfera personale. Questa storia è apolitica.
Nel cerchio più ampio troviamo la storia dell’umanità sparsa su tutta la terra, divisa in nazioni, nel suo insieme.
Nel primi 11 capitoli della Genesi troviamo la storia delle origini, chiamata dai biblisti preistoria biblica. In Gn 11-50 si ha la storia dei patriarchi e del popolo di Dio, dall’Esodo all’ingresso nella Terra Promessa. Già da Gn 12:1-3 si vede però che la promessa fatta da Dio ad Abraamo non si limita ad Israele ma si estende a tutte le nazioni della terra: “Il Signore disse ad Abramo: «Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò; io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra»”.
La storia della salvezza
“Storia della salvezza” è espressione moderna sorta del 19° secolo e che esprime il concetto di storia che si aveva nel 19° secolo. Nella Bibbia ebraica non si ha quel limitato concetto di salvezza, perché nelle Scritture Ebraiche l’evento tra Dio e l’essere umano non si limita alla storia delle azioni di salvezza compiute da Dio. È pur vero che la storia d’Israele inizia con l’azione liberatrice di Dio, che è un’azione divina di salvezza, e ciò rientra nella “storia della salvezza” comunemente intesa, tuttavia, nella Bibbia c’è di più: c’è anche il giudizio divino. La storia biblica non contempla solo Dio che salva, ma anche Dio che giudica. Ogni realtà, nelle sue molteplici forme, vede l’agire di Dio. Ogni realtà è mossa dalla parola di Dio, parola che provoca una risposta.
La parola di Dio nel Tanàch
Il senso vero di Dio è nella sua parola e nel suo agire. Che cosa significa “parola” nel Tanàch? Per noi si tratta del suo contenuto, dell’idea che esprime. Nella Bibbia è l’azione che si verifica tra chi parla e chi ascolta: la parola provoca una risposta. Nella mentalità moderna la parola è identificata con il suo contenuto e può essere oggetto di riflessione. In tal modo, però, si separa la parola di Dio dal suo accadere. Una volta separata, diventa un’entità a sé stante da studiare. Ogni parola di Dio, nondimeno, è connessa a ciò che avviene tra Dio e l’umanità. Tolta da questo contesto, non è più parola di Dio in senso biblico.
La parola come annuncio. Con questo senso la troviamo nella profezia. Questa parola-annuncio può comunicare la salvezza oppure il giudizio: promette oppure condanna.
La parola come insegnamento. Nella Toràh troviamo questo tipo di parola e al centro della Toràh ci sono i dieci Comandamenti, che la Bibbia chiama le “dieci parole” (עֲשֶׂרֶת הַדְּבָרִים, asèret hadvaìym, – Es 34:28).
La parola nel culto. Nel culto le parole sono rivolte al popolo e quelle dei partecipanti assumono funzione di lode a Dio, di confessione, di risposta liturgica come l’“amen”. La parola di Dio è proclamata nel culto e conservata immutata nelle azioni sacre. Se però tale parola non è ascoltata anche nella vita quotidiana, non ha effetto.