Che dire però degli argomenti di autorità – già esaminati in precedenza – che sono il punto forte dell’interpretazione tradizionale che ritiene Giona un libro storico? Va detto che anche in passato non mancarono voci discordi. Alcuni contemporanei di Girolamo avevano opinioni diverse da lui, tanto che egli se ne lamenta (PL 25,1117). Nella sua Oratio II Apologetica (PG 35,505-508) Gregorio di Nazianzo (4° secolo) riferisce con compiacenza e simpatia l’interpretazione allegorica di Giona, tanto che una comprensione più profonda del libro rimedia a ciò che di strano e di assurdo vi si trova. Sembra che fosse stato Origène a suggerirgli questa interpretazione.
Teofilatto (11° secolo) ricorda, senza affatto biasimarla, l’opinione di coloro che negavano il carattere storico di Giona per riconoscervi solo il senso allegorico (PG 126,960-964). In più va detto che i cosiddetti “padri della Chiesa” non eccellevano di certo per acume e senso critico.
Ma che dire dell’opinione di Yeshùa? Questa è l’obiezione più forte e costituisce l’argomento più valido per gli storicisti.
“Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona. Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così il Figlio dell’uomo starà nel cuore della terra tre giorni e tre notti. I Niniviti compariranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco, qui c’è più che Giona!”. – Mt 12:39-41.
“Questa generazione è una generazione malvagia; chiede un segno ma nessun segno le sarà dato, tranne il segno di Giona. Infatti come Giona fu un segno per i Niniviti, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione”. – Lc 11:29,30.
Come potrebbe un dato parabolico servire da segno per un fatto storico reale quale la morte del Messia e la sua discesa nella tomba? Yeshùa non accenna qui alla sua resurrezione, ma alla sua umiliazione. Yeshùa vuol qui presentare la storia di Giona come segno del giudizio di Dio attuatosi in lui. Parlando dei niniviti Yeshùa dice: “Essi si ravvidero alla predicazione di Giona”.
Che dire? Chi conosce bene la Scrittura sa che spesso la Bibbia deduce segni e insegnamenti profondi non dal fatto storico in sé ma dal modo con cui esso è presentato dalla Bibbia (anche se non vi corrisponde sempre una realtà storica).
In Eb 7:3 l’autore ispirato trova un segno che non è reale, ma lo utilizza per come è presentato dalla Scrittura. Il passo dice:
“Melchisedec, re di Salem, era sacerdote del Dio altissimo. Egli andò incontro ad Abraamo, mentre questi ritornava dopo aver sconfitto dei re, e lo benedisse. E Abraamo diede a lui la decima di ogni cosa. Egli è anzitutto, traducendo il suo nome, Re di giustizia; e poi anche re di Salem, vale a dire Re di pace. È senza padre, senza madre, senza genealogia, senza inizio di giorni né fin di vita, simile quindi al Figlio di Dio. Questo Melchisedec rimane sacerdote in eterno”. – Eb 7:1-3.
Questo Melchisedec fu un personaggio reale, storico. Era “re di Salem, sacerdote”. “Egli andò incontro ad Abraamo”. Accettò da lui la decima parte del suo bottino. Questa è storia vera. Ma cosa dice la Bibbia di lui oltre a fornire questi dati storici? Di chi era figlio? Da dove veniva? Non è detto. L’autore di Eb prende spunto – essendo ispirato, non dimentichiamolo – da quest’assenza di dati per trovarvi un segno del nuovo sacerdozio di Yeshùa. Ma proprio perché Melchisedec fu un personaggio storico, egli aveva avuto senza il minimo dubbio sia un padre sia una madre; una genealogia sua doveva pure averla. Ma poiché la Bibbia tace questi particolari, l’autore di Eb vi vede un segno, tanto che può dichiarare che era “senza padre, senza madre, senza genealogia”. Non solo, ma si spinge molto più in là! Arriva a dire che era “senza inizio di giorni né fin di vita”. Questo, certamente non è vero storicamente. Se così fosse, Melchisedec sarebbe ancora vivente tra noi. Occorre conoscere bene la mentalità semita per capire bene la Scrittura. L’argomentazione fatta qui in Eb è molto profonda. A una mente occidentale sfugge. Qualcuno prende anche degli abbagli mostruosi: c’è chi è arrivato a dire che Melchisedec non era altro che Yeshùa apparso ad Abraamo. Ecco a che punto arriva la ristretta mente occidentale che ragiona con una logica piccola. Eb dice: “Simile quindi al Figlio di Dio”. Ma c’è altro su cui andare a fondo. Yeshùa una madre l’aveva, eccome. E anche un padre (Dio). La sua genealogia è scritta nella Bibbia. Non solo. Yeshùa nacque e morì. E allora? Dove è questa somiglianza con Melchisedec? Occorre capire il ragionamento semita che c’è dietro. Di cosa si discute lì in Eb? Qual è il contesto? Lo scopo del ragionamento è dichiarato in Eb7:11, dopo che tutta l’argomentazione su Melchisedec è terminata: “Se dunque la perfezione fosse stata possibile per mezzo del sacerdozio levitico . . .”.
Anche se è difficile, cerchiamo di spiegarlo in parole povere. Yeshùa non aveva un padre, una madre e una genealogia aaronnica. Non era un levita. Non avrebbe mai potuto essere quindi un sacerdote. “È noto infatti che il nostro Signore è nato dalla tribù di Giuda, per la quale Mosè non disse nulla riguardo al sacerdozio” (Eb 7:14). Eppure “Cristo venne come sommo sacerdote” (Eb 9:11, TNM). Com’è possibile? In Yeshùa si adempie la promessa di Dio “perché gli è resa questa testimonianza: ‘Tu sei sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedec’” (Eb 7:17). Ecco dunque che – al di là del fatto storico che sia Melchisedec che Yeshùa ebbero padre, madre, genealogia, nacquero e morirono – l’autore ispirato di Eb coglie nel semplice fatto che la Bibbia tace certi dati su Melchisedec un segno del nuovo sacerdozio eterno di Yeshùa. Nella vita celeste Yeshùa non nasce, non muore. Il suo sacerdozio è eterno, senza inizio e fine di giorni. Come Melchisedec. E tutto per un segno che di storico non ha proprio nulla.
Allo stesso modo, Yeshùa parla del “seno di Abraamo” (Lc 16:22) in cui il povero Lazzaro si trova. Seno? Eppure è solo un simbolo della felicità celeste. Lo stesso Lazzaro, insieme al ricco, non sono forse solo personaggi inventati che fanno parte di una parabola? Già. Ma la stessa Chiesa Cattolica, che pure riconosce trattarsi di una parabola, non si vergogna nella sua liturgia per i defunti di chiedere che la persona morta “abbia riposo con il povero Lazzaro” (“Cum Lazaro quondam papere”).
Nella parabola del samaritano, Yeshùa conclude: “Va’, e fa’ anche tu la stessa cosa” (Lc 10:37). Ossia: fai come ha fatto il samaritano. Fatto? Ma questo samaritano non era una persona fittizia che Yeshùa aveva appositamente inventato per la sua parabola? Certo che sì. Quindi, quel samaritano in realtà non fece nulla, dato che non era mai esistito. Ecco che un dato irreale, non storico, è preso come base per il fatto reale da compiersi.
Non poteva Yeshùa agire nello stesso modo anche nel caso di Giona qualora il libro di Giona fosse una parabola? Perché con il samaritano sì e con Giona no?
Paolo fa lo stesso. In 2Tm 3:8 scrive: “E come Iannè e Iambrè si opposero a Mosè, così anche costoro si oppongono alla verità: uomini dalla mente corrotta, che non hanno dato buona prova quanto alla fede”. Iannè e Iambrè? E chi sono mai? Questi nomi si cercheranno invano nella Bibbia. La Scrittura non li menziona. E come faceva Paolo a conoscerli? Non certo di persona, poiché dice che “si opposero a Mosè”. Per avere notizie di loro occorre riferirsi al Targum dello Pseudo Ionatan che afferma trattarsi di figli di Balaam. Paolo poté attingere da quella tradizione? Forse. Oppure attinse da un libro apocrifo: Iannes et Mambres Liber, un’opera nota a Plinio il Vecchio (Hist. Nat. 30,2,2), scritta prima del 65 a. E. V.. Altre fonti li danno come due personaggi preminenti della corte del faraone egizio, forse sacerdoti che praticavano la magia, i quali si opposero più volte a Mosè e ad Aaronne (Es 7:11,12,22;8:17-19;9:11). Altre fonti (sempre non bibliche) come Numenio, Apuleio, un testo di Qumràn e diversi scritti apocrifi menzionano uno o entrambi questi uomini. Ma chi furono? Per Paolo non era importante il dato storico. Non si preoccupa neppure di citare da una tradizione apocrifa. A lui interessa l’esempio – storico o no – per il suo discorso.
Non è l’unico caso in cui Paolo si comporta così. “[Gli israeliti nel deserto] bevvero tutti la stessa bevanda spirituale, perché bevevano alla roccia spirituale che li seguiva; e questa roccia era Cristo” (1Cor 10:4). Quella roccia era Cristo? Ma sì, allusione chiarissima. Per un mediorientale dei tempi biblici. Ma, oggi, non mancano coloro che affermano che quella roccia era davvero Yeshùa. Naturalmente si tratta di moderni occidentali. Yeshùa trasformato in roccia da cui gli ebrei bevvero proprio acqua. Blasfemo. Irriverente, nel migliore dei casi. Paolo dice – nel suo linguaggio semita – che se gli ebrei sopravvissero alla morte per sete (Dio provvide loro, infatti, acqua da una roccia) lo dovettero a Yeshùa che da loro doveva venire. Tutti estinti per sete o sopravvissuti? Popolo estinto senza discendenti e quindi senza possibilità che da loro venisse il Messia oppure popolo sopravvissuto grazie al fatto che da loro doveva venire Yeshùa? Popolo sopravvissuto all’estinzione per sete in vista di Yeshùa. “Quel masso di roccia significava il Cristo” (TNM). Paolo non teme di usare un evento della storia di Israele come segno che lui reinterpreta: “Or queste cose avvennero per servire da esempio a noi” (1Cor 10:6). Ma siamo poi così sicuri che la citazione di Paolo si riferisca a un fatto storico? È menzionato nella Bibbia? Qualcuno, frettolosamente, potrebbe pensare che il riferimento sia a Nm 20:11: “Mosè alzò la mano, percosse la roccia con il suo bastone due volte, e ne uscì acqua in abbondanza; e la comunità e il suo bestiame bevvero”. Questo evento certamente fu storico. Ma Paolo non dice semplicemente che gli ebrei bevvero dal masso di roccia. Dice che “bevevano alla roccia spirituale che li seguiva”. Non risulta dalla Bibbia che una roccia seguisse gli ebrei nel deserto. In verità, Paolo attinge da una tradizione ebraica non biblica. Il punto è che egli non si preoccupa della storicità del fatto: gli serve da base per la sua applicazione. E questo basta.
Yeshùa e Paolo non furono i soli a usare questo metodo applicativo. Un altro semita, Giuda, scrive: “L’arcangelo Michele, quando contendeva con il diavolo disputando per il corpo di Mosè, non osò pronunziare contro di lui un giudizio ingiurioso, ma disse: ‘Ti sgridi il Signore!’” (Gda 9). Questo episodio si cercherà invano nella Bibbia: non c’è. L’unico riferimento che abbiamo sul corpo di Mosè è in Dt 34:5,6: “Mosè, servo del Signore, morì là nel paese di Moab, come il Signore aveva comandato. E il Signore lo seppellì nella valle, nel paese di Moab, di fronte a Bet-Peor; e nessuno fino a oggi ha mai saputo dove è la sua tomba”. A Mosè non fu permesso di entrare nella Terra Promessa. Egli rimase indietro, in territorio moabita, mentre il popolo proseguiva. Lì morì. La Bibbia, con il suo linguaggio ebraico concreto dice che “il Signore lo seppellì”, nel senso che Mosè si affidò a Dio (o qualcuno – di certo un moderno occidentale – pensa che Dio stesso gli scavasse una fossa?). Ma allora da dove prese Giuda l’idea dell’arcangelo Michele che “contendeva con il diavolo disputando per il corpo di Mosè”? Lo prese dal libro apocrifo di Enoc (scritto verso il 70 E. V.). Origène testimonia che l’episodio si trovava lì (De Principi 3,2,1 PG 11,303). Giuda avrebbe potuto anche riferirsi direttamente alla tradizione che fu alla base dell’apocrifo. Infatti, al v. 14 della sua lettera, Giuda menziona l’apocrifo: “Anche per costoro profetizzò Enoc”. La sua citazione al v. 9 è fatta a memoria. Del libro apocrifo di Enoc è stato trovato un frammento greco ad Akhmimum. Dice così: “Ecco, viene con le sue miriadi di santi per compiere il giudizio su tutti e distruggerà tutti gli empi, convincerà ognuno di tutte le opere di empietà che commisero e delle parole insolenti che proferirono tutti quelli che sparlarono contro di lui da peccatori empi ” (Enoc 1:9). E Giuda, citandolo, scrive: “Anche per costoro profetizzò Enoc, settimo dopo Adamo, dicendo: ‘Ecco, il Signore è venuto con le sue sante miriadi per giudicare tutti; per convincere tutti gli empi di tutte le opere di empietà da loro commesse e di tutti gli insulti che gli empi peccatori hanno pronunciati contro di lui’. – Gda 14,15.
Sembra proprio che il credente (moderno e occidentale) rifiuti questo modo di fare semita perché non corrisponde alla sua mentalità. I Testimoni di Geova sono un esempio di questo cieco rifiuto. Il loro direttivo scrive: “Il libro di Enoc è un testo apocrifo e pseudepigrafo. […] Nella Bibbia solo il libro di Giuda riporta le parole profetiche di Enoc: “Ecco, Geova è venuto con le sue sante miriadi, per eseguir giudizio contro tutti, e per convincere tutti gli empi di tutte le loro empie opere che hanno empiamente fatto e di tutte le cose offensive che gli empi peccatori hanno detto contro di lui”. (Giuda 14, 15) Molti studiosi affermano che la profezia di Enoc contro i suoi empi contemporanei sia una citazione diretta dal libro di Enoc. È possibile che Giuda si sia basato su un libro apocrifo inattendibile?” (La Torre di Guardia del 15 settembre 2001, pag. 30). Ecco emersa la propria idea su come dovrebbe comportarsi uno scrittore ispirato: “È possibile che”? Secondo loro, no. Ma allora come mai Giuda cita proprio Enoc? Di questo siamo sicuri, dato che abbiamo il frammento dell’apocrifo. La Torre di Guardia prosegue: “Le Scritture non rivelano in che modo Giuda fosse venuto a conoscenza della profezia di Enoc. Potrebbe aver semplicemente citato una fonte comune, una tradizione attendibile giunta fino a lui dai tempi antichi” (Ibidem). Si noti: ora si tratta di una “fonte attendibile” (corsivo aggiunto), mentre prima la domanda retorica era: “È possibile che Giuda si sia basato su un libro apocrifo inattendibile?” (Ibidem, corsivo aggiunto). Riassumendo: Giuda non avrebbe mai usato una fonte inattendibile come un apocrifo, però potrebbe aver usato la stessa tradizione attendibile che è alla base dell’apocrifo. Non è un’affermazione del tutto contraddittoria? Di là da questi tentativi di ragionamento confuso, una cosa è ben certa: Giuda fa una citazione di Enoc e il frammento dell’apocrifo su cui appare tale citazione lo possediamo. Il bello è che viene poi candidamente detto: “A quanto pare Paolo fece qualcosa di simile quando menzionò per nome Ianne e Iambre, gli altrimenti anonimi maghi della corte del faraone che si opposero a Mosè”. – Ibidem.
Comunque, una gran verità – su cui c’è da riflettere – viene detta: “Il modo in cui Giuda ricevette le informazioni relative al messaggio di Enoc contro gli empi è un particolare di secondaria importanza. Possiamo considerarle attendibili per il fatto che Giuda scrisse sotto ispirazione divina. (2 Timoteo 3:16)” (Ibidem). Peccato però che questa verità venga poi subito messa da parte ritornando alla chiusura della propria mentalità: “Lo spirito santo di Dio non gli avrebbe permesso di citare informazioni non veritiere” (Ibidem). Il punto importante – appena accennato e poi rimangiato – è questo: “Il modo in cui Giuda ricevette le informazioni relative al messaggio di Enoc contro gli empi è un particolare di secondaria importanza” (Ibidem, corsivo aggiunto). A Giuda poco interessava, da semita, la storicità del fatto. Quello che contava per lui era l’insegnamento che voleva dare.
L’errore di valutazione commesso dal direttivo di New York è questo: “Possiamo considerarle attendibili per il fatto che Giuda scrisse sotto ispirazione divina” (Ibidem). Questa è la tipica mentalità del credente occidentale: è citato nella Bibbia, quindi è ispirato. Non è sempre così. Non è per nulla detto che una citazione renda la fonte da cui si cita ispirata. Una prova? Eccola: “Uno di essi, loro proprio profeta, disse: ‘I cretesi sono sempre bugiardi, dannose bestie selvagge, oziosi ghiottoni’. Questa testimonianza è verace” (Tito 1:12,13, TNM). Qui Paolo cita il greco Epimenide. Non solo lo cita, riportando parole sue, ma dice anche che la “testimonianza è verace”. Questa citazione – fatta da uno scrittore ispirato della Bibbia – rende gli scritti di Epimenide ispirati? Neanche per sogno. Eppure Paolo, alla maniera semita, lo definisce un loro “profeta”. Epimenide era un poeta – non un profeta – cretese del 6° secolo a. E. V.. Il suo giudizio sugli antichi cretesi era condiviso dai greci, tanto che per loro “cretese” divenne sinonimo di bugiardo. Perché, allora, “profeta”? Perché disse una verità. Verità ispirata? Ma no. Però verità.
Questi esempi dovrebbero avvicinarci al modo di pensare mediorientale, così diverso dal nostro (o, meglio: il nostro così diverso dal loro, quello biblico).
“I Niniviti compariranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno” (Mt 12:41). Sono parole di Yeshùa. Cosa vogliono dire? Nel modo di esprimersi semita, significano quello che gli occidentali direbbero così: I niniviti della parabola, con il loro esempio condanneranno gli ebrei che non si convertirono alla predicazione Yeshùa che è superiore a Giona. Sarebbe come dire: Il buon samaritano vi condannerà nel giorno del giudizio, lui che ebbe misericordia verso uno straniero, mentre voi non ne avete avuta. Con queste applicazioni il semita non intende attestare una reale esistenza dei personaggi. È un po’ come se noi dicessimo che è rischioso per una donna sola addentrarsi in un bosco: potrebbe capitarle quello che capitò a Cappuccetto Rosso. La bambina Cappuccetto Rosso è una persona fittizia, mai esistita. Di certo non incontrò mai un lupo cattivo. Ma l’ammonizione è realistica e un brutto incontro sarebbe un fatto reale.
Yeshùa, dopo aver parlato di Giona, continua con un racconto che è solo una parabola e un’allegoria: quella di un demonio che si allontana da una persona, va nel deserto, vuol ritornare nel posto di prima perché vi stava meglio ma trova l’individuo già liberato, per cui torna con altri sette spiriti peggiori e vi riprende dimora rendendo la situazione di quella persona peggiore della precedente (Mt 12:43-45). Sono tutte espressioni tratte dal pensiero semitico di quel tempo, che in quella forma non sono storicamente vere, ma che sono espresse quasi fossero una realtà.
“Così avverrà anche a questa malvagia generazione” (Mt 12:45), conclude Yeshùa dopo aver detto cosa accadde all’uomo impossessato dagli otto spiriti demoniaci. “Così avverrà”. Yeshùa stava forse profetizzando che quella generazione sarebbe stata invasa da demòni che erano prima passati dal deserto? Ma no. Nel suo linguaggio semita intendeva dire che quella generazione, purificata per un momento da Yeshùa, avrà una sorte peggiore di quella che aveva prima.