In tempi recenti gli studiosi accostano il nome “Abaquq” all’assiro hambaququ che designa un ortaggio, mentre prima si preferiva dargli il valore di “abbraccio”. Il nome ebraico è חֲבַקּוּק (Khavaqùq). Viene  trascritto di solito con la “c” al posto della “q” (Abacuc), ma sarebbe meglio mantenere la “q”: Abaqùq. Purtroppo, la lettera ebraica qof (ק, q), è spesso trascurata e assimilata alla c con suono duro. È un errore che rammenta quello infantile di scrivere quaderno con la c iniziale.

   Di questo profeta non sappiamo nulla. Abbiamo solo un dato che è puramente leggendario e non possiamo neppure fidarci della genealogia che tale testo ci presenta. Di Abaquq ci rimane solo un piccolo libro di tre soli capitoli, accolto dalla Bibbia nella serie dei dodici profeti minori.

Data di composizione

   Non abbiamo alcuna indicazione che ci permetta di datare con precisione il tempo in cui il profeta Abaquq visse. Il suo libro parla di “caldei” (1:6), ebraico כַּשְׂדִּים (Kasdìm). Tuttavia, il nome di “caldei” fu applicato nel corso dei secoli a diversi popoli: babilonesi, persiani, greci e romani. Se li intendiamo come caldei-babilonesi, dovremmo collocare Abacuc in un tempo in cui i babilonesi non avevano ancora invaso la Giudea e avviata la successiva deportazione dei giudei.

     L’epoca della battaglia di Carchemish potrebbe adattarsi bene, almeno per i primi due capitoli (605 a. E. V.). Alcuni ritengono che il capitolo 3 (che è un salmo) sia posteriore, poiché non è commentato da Pesar Khabaqùq trovato a Qumràn. Ma non mancano gli studiosi che ritengono genuino anche il capitolo 3. Forse questo salmo (capitolo 3) fu trasmesso nella liturgia indipendentemente dal libro e poi in seguito inserito nel libro.

Contenuto del libro

   Capitolo 1. Di fronte al pericolo del sovrano (babilonese?) che ha un potere senza legge, Abaquq si lascia andare ad un grido di perplessità: “Fino a quando griderò, o Signore, senza che tu mi dia ascolto? Io grido a te: ‘Violenza!’ e tu non salvi” (Ab 1:2). Gli sembra strano che, dominando Dio tutta la storia, il Signore possa permettere ai caldei (forse babilonesi) di inghiottire così facilmente le nazioni: “Perché mi fai vedere l’iniquità e tolleri lo spettacolo della perversità? Mi stanno davanti rapina e violenza” (Ab 1:3). I caldei sono invasori che praticano un concetto di giustizia tutto loro: “È un popolo terribile e spaventoso; da lui stesso procede il suo diritto e la sua grandezza” (Ab 1:7). Il loro dio è la loro stessa potenza: “Passano come il vento; passano oltre e si rendono colpevoli; questa loro forza è il loro dio”. – Ab 1:11.

   Anche il popolo ebraico è colpevole, ma sempre meno di costoro. Il profeta, angosciato, domanda dunque se Dio – che ha “gli occhi troppo puri per sopportare la vista del male” e che non può “tollerare lo spettacolo dell’iniquità” –  non dovrà punire anche questa gentaglia crudele: “Perché guardi i perfidi e taci quando il malvagio divora l’uomo che è più giusto di lui?”. – Ab 1:13.

   Capitolo 2. Dio non dà una risposta immediata al dilemma di Abaquq. Questi si mette allora in fiduciosa attesa della risposta divina: “Io starò al mio posto di guardia, mi metterò sopra una torre, e starò attento a quello che il Signore mi dirà, e a quello che dovrò rispondere circa la rimostranza che ho fatta” (Ab 2:1). Alla fine Dio gli dice solo che occorre avere fede e attendere l’adempimento della visione: “È una visione per un tempo già fissato; essa si affretta verso il suo termine e non mentirà; se tarda, aspettala; poiché certamente verrà; e non tarderà. […] Il giusto per la sua fede vivrà”. –  Ab 2:3,4.

   Quest’atteggiamento di fiduciosa attesa con fede in Dio fu reinterpretato nelle Scritture Greche come una giustificazione per la fede: “La giustizia di Dio è rivelata da fede a fede, com’è scritto: ‘Il giusto per fede vivrà’”. – Rm 1:17; cfr. Gal 3:11.

   In cinque strofe inizianti con cinque “guai a” il profeta descrive la rovina dei colpevoli:

 

הֹוי (hòy), “guai [a]”

“Guai a chi […]”

2:6

“Guai a colui che […]”

2:9

“Guai a colui che […]”

2:12

“Guai a colui che […]”

2:15

“Guai a chi […]”

2:19

 

   Capitolo 3. Salmo che costituisce un poema liturgico in cui l’autore contempla Yhvh che avanza trionfante per liberare il suo popolo.

“Signore, Signore,

ho sentito palare di quel che hai fatto,

ho avuto timore e rispetto per la tua opera.

Falla rivivere nella nostra vita,

falla conoscere agli uomini.”

“Tu sei andato in soccorso al tuo popolo.”

“Io trovo la mia gioia nel Signore,

sono felice perché Dio è il mio salvatore.

Dio, il Signore, è la mia forza.”

Ab 3:2,13,18,19, PdS.

   Peccato che i Testimoni di Geova definiscano questo stupendo poema come “canto funebre del capitolo 3” (Perspicacia nello studio delle Scritture Vol. 1, pag. 12, alla voce “Abacuc”). Non c’è proprio nulla di funebre. La soprascritta recita: “Oracolo che il profeta Abacuc ebbe in visione”. – Ab 1:1.

Valore letterario e spirituale

   Abaquq detiene un posto eminente tra gli scritti profetici perché la sua lingua non presenta alcun sintomo di decadenza, come invece si rinviene in Geremia ed Ezechiele.

   Moralmente e spiritualmente Abaquq è un patriota che manifesta a Dio il suo dolore e reclama la rovina dei dominatori che si aprono la via verso la Palestina e l’Egitto, minacciando di schiacciare la Giudea. La sua coscienza non può ammettere che gente così fortunata possa essere tanto empia e crudele. In quest’aspetto è meno profondo di Geremia che insiste sull’ineluttabilità del castigo come espiazione di colpa e come prova redentrice.

   È rimasta celebre la frase di Abaquq: “Il giusto vivrà per la sua fede” (Ab 2:4, ND). Il testo ebraico ha בֶּאֱמוּנָתֹו (beemunatò) che dovrebbe essere reso “per la sua fedeltà”. TNM traduce con precisione il vocabolo: “In quanto al giusto, continuerà a vivere per la sua fedeltà”, anche se la frase è resa con un’elaborazione che manca nell’ebraico:

וְצַדִּיק בֶּאֱמוּנָתֹו יִחְיֶה

vetzadìq beemunatò yikhyèh

e [il] giusto per sua fedeltà vivrà

   La parola ebraica qui usata – אֱמוּנָה (emunàh) – indica la stabilità, l’immobilità, la solidità; sia di cose sia di persone. Qui ha dunque il senso di “fermezza”, di fedeltà. Designa appunto l’atteggiamento del credente che rimane “saldo come vedendo Colui che è invisibile” (Eb 11:27, TNM), contro ogni contraria apparenza esteriore. “’Il mio giusto per fede vivrà; e se si tira indietro, l’anima mia non lo gradisce’. Ora, noi non siamo di quelli che si tirano indietro a loro perdizione, ma di quelli che hanno fede per ottenere la vita” (Eb 10:38,39). “Tu, o Signore, sei uno scudo attorno a me, sei la mia gloria, colui che mi rialza il capo”. – Sl 3:3.