Ci sono anche coloro che danno un’interpretazione naturalistica del Cantico. Questa interpretazione vede nel Cantico una raccolta di cantici amorosi. Già una tradizione giudaica, attestata nella Mishnà (Toamith 1V,8), asseriva che le ragazze in età di matrimonio uscivano da Gerusalemme per recarsi nelle vigne danzando e cantando in un senso tutt’altro che mistico. “Uscite, figlie di Sion, ammirate il re Salomone con la corona di cui l’ha incoronato sua madre il giorno delle sue nozze, il giorno della gioia del suo cuore”. – 3:11; cfr. Pr 30:30,31.
Al contrario, Rabbi Aqiva (morto nel 135) o, secondo un’altra tradizione, R. Yohanan ben Nuri, dichiara che chi intona i versi del Cantico nei matrimoni ne fa un canto profano e non avrà posto nel mondo avvenire (Toseftà Sanhedrin 12,10). Tuttavia, non vi è qui motivo di supporre un abuso profano. Piuttosto si faceva strada la tendenza a soppiantare l’antico uso originario con il senso mistico.
Tra gli ebrei, Ibn Ezra respinse l’interpretazione allegorica per difendere il senso naturale ed ovvio. All’Accademia di Yamnia, circa nell’80 dell.E. V., si decise che il Cantico non si potesse leggere prima di avere trent’anni.
Tra i “cristiani” è nota l’interpretazione di Teodoro di Mopsuestia, della scuola più positiva di Antiochia, che nel 428 considerò il Cantico come un poemetto scritto da Salomone per esaltare la bellezza della sua moglie egiziana cui si fa riferimento in 1Re 3:1: “Sposò la figlia del faraone e la condusse nella città di Davide”. Teodoro, ritenendolo un semplice libro umano e privato, avrebbe voluto escluderlo dalla Bibbia. Questo ci fa venire in mente diversi studiosi moderni – del tipo fai-da-te – che, quando non capiscono certe pagine della Bibbia non esitano a prendere le forbici per tagliarle. La Chiesa, comunque, biasimò l’idea del Teodoro, che fu infine dichiarato eretico dal secondo Concilio di Costantinopoli del 553. Nel 1567, Luigi di Lione fu condannato per lo stesso motivo dall’Inquisizione. Nel 1778 J. G. Herder vide nel Cantico una raccolta di canti staccati di significato puramente erotico.
Una svolta decisiva nell’interpretazione naturalistica fu rappresentata dal protestante Budde che nel 1873 pubblicò un articolo intitolato Die syrische Droschtafel (“La tavola da trebbiare siriaca”). In questo scritto egli dava dei ragguagli sugli usi nuziali della regione siriaca che sembravano interessare il Cantico. In una certa regione della Siria, essendo stato molto raro il legno, tutta la tribù si serviva della trebbiatrice non solo per i lavori nei campi ma anche per alcune cerimonie. Tra queste, le cerimonie che si svolgevano nella cosiddetta “settimana del re”. Si tratta di una festa nuziale che dura, appunto, sette giorni, per lo più all’inizio della primavera. In questa festa lo sposo è considerato un re e la sposa una regina. La cerimonia esige per loro non solo vesti regali, ma anche una corte di amici e di amiche che assistono i due festeggiati e soprattutto il “trono”. Tale trono è formato dai tavoloni di legno della trebbia, portati nell’aia la mattina seguente lo sposalizio e ricoperti con tappeti e cuscini. Lì si siedono i due sposi durante i setti giorni della festa. I festeggiamenti consistono in conviti, canti e danze. Tra questi festeggiamenti ha una particolare importanza il wasf ovvero, in arabo, la “descrizione” delle bellezze della sposa. Vi è anche la cosiddetta “danza della spada”. Questa danza è eseguita dalla sposa la sera dello sposalizio, prima della prima notte nuziale. L’aia è illuminata da cataste accese. Un doppio coro di uomini e donne accompagna col canto i movimenti della danzatrice. Costei (la sposa), mentre cerca di far risaltare agli occhi dello sposo le proprie attrattive, brandisce una spada con cui tiene lontano da sé un giovane che, uscito dal coro ad un certo punto, avanza verso di lei con apparente intenzione di rapirla.
Su questa base etnografica il Budde interpretò il Cantico come una serie di canti da usarsi nella settimana delle nozze.
Usi nuziali ebraici
La domanda è: tale uso dello Hauran (zona della Siria) esistevano anche presso gli ebrei del tempo antico? Uno studio minuzioso ed esauriente dimostrerà che non v’è motivo per dubitarne.
Circa gli usi ebraici riguardanti le nozze, dalla Bibbia e dalla letteratura rabbinica dei tempi biblici possiamo dedurre quanto segue.
► Le nozze includevano una settimana di feste: “Giacobbe fece così, e finì la settimana di quello sposalizio” (Gn 29:28). “Suo padre scese a trovare quella donna e là Sansone fece un convito; perché tale era il costume dei giovani. Appena i parenti della sposa videro Sansone, invitarono trenta compagni perché stessero con lui. Sansone disse loro: ‘Io vi proporrò un enigma; se voi me lo spiegate entro i sette giorni del convito e se l’indovinate . . .’ Lei [la moglie di Sansone] pianse presso di lui, per i sette giorni che durava il convito; il settimo giorno Sansone glielo spiegò, perché lo tormentava; e lei spiegò l’enigma ai figli del suo popolo” (Gdc 14:10-17). La festa nuziale durava proprio sette giorni precisi, come si nota dal v. 18: “Gli uomini della città, il settimo giorno, prima che tramontasse il sole”, proprio mentre scadevano i sette giorni, fu data la soluzione dell’enigma.
La durata di sette giorni viene fatta risalire dai rabbini a varie illustri persone bibliche come Giacobbe, Mosè, Sansone. – Pirqè Rabbi Eliezer zer XVI, Praga 1784, pag. 8 b; Mosè J. Ket 1,1.
► Le nozze ebraiche prevedevano anche gli amici dello sposo: “Appena i parenti della sposa videro Sansone, invitarono trenta compagni perché stessero con lui” (Gdc 14:11); “Possono gli amici dello sposo digiunare, mentre lo sposo è con loro? Finché hanno con sé lo sposo, non possono digiunare” (Mr 2:19; cfr. Mt 9:15; Lc 5:34; Gv 3:29). La letteratura ebraica extrabiblica, ma dei tempi biblici, conferma: “Ed ecco alzando gli occhi videro un corteo numeroso e festante e lo sposo con gli amici e fratelli, che avanzava incontro al corteo, con tamburi e strumenti musicali e grande apparato”. – 1Maccabei 9:39, CEI.
► La solennità nuziale aveva inizio con un “corteo solenne” (1Maccabei 9:37, CEI) in cui lo sposo era rivestito da re e la sposa da regina, con una corona sul loro capo (Pirqè Rabbi Eliezer zer XVI, Praga 1784, pag. 8 b; M. Sot IX,14). Quest’uso è confermato nella Bibbia da Is 61:10: “Io mi rallegrerò grandemente nel Signore, l’anima mia esulterà nel mio Dio; poiché egli mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto nel mantello della giustizia, come uno sposo che si adorna di un diadema, come una sposa che si adorna dei suoi gioielli”. Anche Cant 3:11 fa riferimento a questa usanza: “Uscite, figlie di Sion, ammirate il re Salomone con la corona di cui l’ha incoronato sua madre il giorno delle sue nozze, il giorno della gioia del suo cuore”. Qui ricorre per “corona” il vocabolo ataràh (עֲטָרָה), lo stesso che ricorre in M. Sot 1 c (cfr. anche Eduyòth I,11; Kelìm XXII,4;XXIII,4). In Tr Semaliòth XI, b. Ket 17 a è detto che il re Agrippa cedette il passo ad una sposa che procedeva in corteo dicendole: “Io porto la corona di continuo, mentre tu la porti solo in questa circostanza”. Quest’usanza è richiamata nella Bibbia da Ez 16:12 in cui Dio, parlando a Gerusalemme – dopo averle detto in modo figurativo: “Ti feci un giuramento, entrai in un patto con te . . . e tu fosti mia” (v. 8) – le ricorda: “Ti misi un anello al naso, dei pendenti agli orecchi e una magnifica corona [עֲטָרָה (ataràh)] in capo”.
► Vi era poi un convito, come risulta da numerosi passi biblici. “Labano radunò tutta la gente del luogo e fece un banchetto” (Gn 29:22). “Suo padre scese a trovare quella donna e là Sansone fece un convito” (Gdc 14:10). In Ger 16:8,9 si parla di “convito”, menzionando pure “il canto dello sposo e il canto della sposa”. – Cant. Rabba 2,2.
► Durante i sette giorni della festa nuziale si svolgevano dei giochi (Gdc 14:12) e delle danze tipiche, fra cui anche quella della spada (Sahga da sahqa). Dice Dio in Ger 31:4 alla sua nazione: “Io ti ricostruirò, e tu sarai ricostruita, vergine d’Israele! Tu sarai di nuovo adorna dei tuoi tamburelli, e uscirai in mezzo alle danze di quelli che gioiscono”. La danza della spada potrebbe essere indicata in Cant 7:1, in cui la Sulammita balla la “danza a due schiere”. L’ebraico ha maanàym, alquanto incomprensibile, tanto che TNM lo traduce (in 6:13) “due campi”, salvo aggiungere nella nota in calce: “O, ‘danza di Maanaim’”, scambiando il vocabolo ebraico per nome proprio.
► Durante quei giorni si celebrava la bellezza degli sposi, specialmente della sposa. In Sl 78:63 si dice di Israele che “le loro vergini non ebbero canto nuziale”, espressione che nell’ebraico suona: “Le sue vergini non furon lodate” (TNM; “’Lodate’, cioè in canti nuziali”, nota in calce di TNM). – Talmud Babilonese, Ket 17 a.
► Si è detto prima che nell’antica Siria tra i vari festeggiamenti nuziali c’era il wasf ovvero la “descrizione” dello sposo e della sposa. Questo termine è molto usato anche dai siri moderni. Queste “descrizioni” nel Cantico appaiono in:
4:1-7: “Come sei bella amica mia, come sei bella! I tuoi occhi, dietro il tuo velo, somigliano a quelli delle colombe; i tuoi capelli sono come un gregge di capre, sospese ai fianchi del monte di Galaad. I tuoi denti sono come un branco di pecore tosate che tornano dal lavatoio; tutte hanno dei gemelli, non ce n’è una che sia sterile. Le tue labbra somigliano a un filo scarlatto, la tua bocca è graziosa; le tue gote, dietro il tuo velo, sono come un pezzo di melagrana. Il tuo collo è come la torre di Davide, costruita per essere un’armeria; mille scudi vi sono appesi, tutti gli scudi dei valorosi. Le tue mammelle sono due gemelli di gazzella che pascolano tra i gigli. Prima che spiri la brezza del giorno e che le ombre fuggano, io andrò al monte della mirra e al colle dell’incenso. Tu sei tutta bella, amica mia, e non c’è nessun difetto in te”.
5:10-16: “L’amico mio è bianco e vermiglio, e si distingue fra diecimila. Il suo capo è oro finissimo, le sue chiome sono crespe, nere come il corvo. I suoi occhi paiono colombe in riva a ruscelli, che si lavano nel latte, montati nei castoni di un anello. Le sue gote sono come un’aia d’aromi, come aiuole di fiori odorosi; le sue labbra sono gigli, e stillano mirra liquida. Le sue mani sono anelli d’oro, incastonati di berilli; il suo corpo è d’avorio lucente, coperto di zaffiri. Le sue gambe sono colonne di marmo, fondate su basi d’oro puro. Il suo aspetto è come il Libano, superbo come i cedri. Il suo palato è tutto dolcezza, tutta la sua persona è un incanto. Tal è l’amore mio, tal è l’amico mio, o figlie di Gerusalemme”.
6:4-7: “Amica mia, tu sei bella come Tirza, vaga come Gerusalemme, tremenda come un esercito a bandiere spiegate. Distogli da me i tuoi occhi, che mi turbano. I tuoi capelli sono come un gregge di capre, sospese ai fianchi di Galaad. I tuoi denti sono come un branco di pecore, che tornano dal lavatoio; tutte hanno dei gemelli, non ce n’è una che sia sterile; le tue gote, dietro il tuo velo, sono come un pezzo di melagrana”.
7:2-8: “Come sono belli i tuoi piedi nei tuoi calzari, o figlia di principe! I contorni delle tue anche sono come monili, opera di mano d’artefice. Il tuo seno è una tazza rotonda, dove non manca mai vino profumato. Il tuo corpo è un mucchio di grano, circondato di gigli. Le tue mammelle sembrano due gemelli di gazzella. Il tuo collo è come una torre d’avorio; i tuoi occhi sono come le piscine di Chesbon presso la porta di Bat-Rabbim. Il tuo naso è come la torre del Libano, che guarda verso Damasco. Il tuo capo si eleva come il Carmelo, e la chioma del tuo capo sembra di porpora; un re è incatenato dalle tue trecce! Quanto sei bella, quanto sei piacevole, amore mio, in mezzo alle delizie! La tua statura è simile alla palma, le tue mammelle a grappoli d’uva”.
In queste descrizioni pare, secondo alcuni, che il poeta ispirato vi veda delle qualità. Infatti, secondo B. S. J. Isserlin (Song of Songs IV:4) il poeta ebreo si sarebbe interessato poco alle forme apparenti delle cose e delle persone. La descrizione delle parti del corpo indicherebbe, secondo lo studioso, anche particolari doti spirituali. Il collo come una torre simboleggerebbe bene l’atteggiamento fiero di una ragazza inaccessibile, il suo orgoglio e la sua purezza verginale. Le immagini dei fiori ne evocherebbero il fascino. Le immagini del grano indicherebbero la sua voluttà e il vigore del suo corpo.
Secondo noi questo procedimento è solo arbitrario. E, in più, è frutto di una mentalità occidentale. Per l’ebreo biblico, infatti, non è l’immagine che evoca la realtà, ma proprio il contrario: la realtà, già presupposta, serve a spiegare l’immagine. Per fare un esempio, quando l’ebreo Yeshùa disse: “Continuate a far questo in ricordo di me” (Lc 22:19, TNM), riferendosi al pane e al vino, gli occidentali vedono nel pane e nel vino degli emblemi che rammentano il corpo e il sangue di Yeshùa. Per loro l’immagine spiega ed evoca la realtà del sacrificio di Yeshùa. Per gli ebrei non era così. Il corpo e il sangue di Yeshùa sono la realtà già presupposta che spiega l’immagine che rinnova quella realtà. È per questo che Paolo dice: “Ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore” (1Cor 11:26); l’immagine è così forte che quasi rinnova la sua morte. Yeshùa, infatti, disse: “Questo è il mio corpo” (Lc 22:19). Intuendo qualcosa del genere (la forza dell’immagine), i cattolici si spinsero oltre, vedendovi la transustanziazione (con la solita lettura occidentale alla lettera, non biblica, del forte significato ebraico). All’estremo opposto, ma sempre leggendo all’occidentale, per combattere l’errata dottrina cattolica, altri vi vogliono vedere dei simboli e traducono: “Questo significa il mio corpo” (TNM), traduzione efficace per combattere l’assurdità della dottrina della transustanziazione, ma sviante per la comprensione del significato ebraico.
La poesia ebraica – e così anche nella poesia del Cantico -, più che evocare le qualità possedute, evoca in modo esistenziale l’impressione ricevuta da ciò che appare. L’ebreo è pratico: evoca sensazioni, non una qualità astratta. Il poeta ispirato rende partecipi i lettori della gioia e dell’emozione provate dai due amanti alla loro reciproca presenza. Il vino, la mirra, l’incenso, il grano, il miele, il latte, l’olio e i frutti che vi sono menzionati eccitano i sensi, non il ragionamento. Molte immagini eccitano la vista: “I tuoi occhi, dietro il velo, sono come colombe. I tuoi capelli ondeggiano come un gregge che scende dalle pendici di Galaad” (4:1, PdS); “Vòltati, vòltati, Sulamita, vòltati, vòltati, e lasciati guardare!” (7:1, PdS). Altre eccitano le sensazioni tattili: “Come sono belli i tuoi piedi nei sandali, principessa. Le curve dei tuoi fianchi sono davvero un’opera d’arte” (7:2, PdS). Altre immagini eccitano l’odorato: “Prima che soffi la brezza della sera e le ombre si allunghino, verrò di certo alla tua montagna profumata di mirra e alla tua collina d’incenso”. – 4:6, PdS.