Il nome originale ebraico del libro biblico di Ecclesiaste è קֹהֶלֶת (qohèlet): “Parole dell’Ecclesiaste [קֹהֶלֶת (qohèlet)], figlio di Davide, re di Gerusalemme” (Ec 1:1). Si tratta di un participio maschile con desinenza femminile. Questo tipo di participi designava in origine l’attività o la missione di un uomo. Quindi, qohèlet indica l’ufficio di “predicatore” e si potrebbe tradurre con “sermonista” delle assemblee pubbliche. La nota di TNM a Ec 7:27 è oggettivamente esatta, ma va spiegata meglio; essa dice: “Il verbo e il soggetto sono entrambi femm.[inili]”. Riguardo al nome, abbiamo già spiegato che è un participio maschile con desinenza femminile. In quanto al verbo, vero è che qui è al femminile, ma si tratta evidentemente di un errore dello scriba. Si paragoni, infatti, il passo di Ec 7:27 con quello di 12:8:
Ec 7:27 |
אָמְרָה קֹהֶלֶת amràh qohèlet disse [al femminile] ecclesiaste |
Ec 12:8 |
אָמַר הַקֹּוהֶלֶת amàr haqohèlet disse [al maschile] l’ecclesiaste |
Il verbo di cui qui abbiamo il participio deriva da קהל (qahàl), “assemblea”. Il verbo qahàl significa “convocare un’assemblea” (greco ἐκκλησία, ekklesìa; parola composta da ἐκ, “da”, e da una parola derivata dal verbo καλέω, “chiamare”).
Nomi simili (participi maschili con desinenza femminile) abbondano per periodo postesilico. Come, ad esempio, sofèret (femminile di sofèr, “scriba”) che si trova in Esd 2:55 e che TNM scambia per nome proprio traducendolo “Soferet”! Qui l’ebraico ha diversi nomi propri, ma l’unico con l’articolo è proprio sofèret (hasofèret, “lo scriba”).
Si noti il testo ebraico di Esd 2:55:
בְּנֵי עַבְדֵי שְׁלֹמֹה בְּנֵי־סֹטַי בְּנֵי־הַסֹּפֶרֶת בְּנֵי פְרוּדָא
benè avdè shlomòh benè-sotày benè-hasofèret benè ferudà
figli servitori Salomone figli-Sotai figli-lo scriba figli Peruda
Anche in Esd 2:57 abbiamo un nome simile (maschile con desinenza al femminile): פֹּכֶרֶת הַצְּבָיִים (pochèret hatzevayìm), “chi prende le gazzelle al laccio”; che TNM interpreta nuovamente come nome proprio e che traduce con “Pocheret-Azzebaim”!
Autore
Pur non nominandosi espressamente, l’autore s’identifica con Salomone, come risulta dal titolo: “Parole dell’Ecclesiaste, figlio di Davide, re di Gerusalemme” (1:1). Più avanti si parla delle sue costruzioni, delle sue ricchezze e del suo lusso: “Io intrapresi grandi lavori; mi costruii case; mi piantai vigne; mi feci giardini, parchi, e vi piantai alberi fruttiferi di ogni specie; mi costruii stagni per irrigare con essi il bosco dove crescevano gli alberi; comprai servi e serve, ed ebbi dei servi nati in casa; ebbi pure greggi e armenti, in gran numero, più di tutti quelli che erano stati prima di me a Gerusalemme; accumulai argento, oro, e le ricchezze dei re e delle provincie; mi procurai dei cantanti e delle cantanti e ciò che fa la delizia dei figli degli uomini, cioè donne in gran numero. Così divenni grande e superai tutti quelli che erano stati prima di me a Gerusalemme”. – 2:4-9.
È da questo libro dell’Ecclesiaste che sorse – forse dopo la stesura del libro apocrifo della Sapienza (che già presenta Salomone in buona luce) – la leggenda rabbinica che il grande re gerosolimitano si sarebbe convertito in vecchiaia dalle sue colpe. Frutto di tale ravvedimento sarebbe stato appunto l’Ecclesiaste. “Dicono gli ebrei che questo libro sia di Salomone, il quale fece penitenza per aver confidato nella sapienza e nella ricchezza e per aver offeso Dio a causa delle mogli” (Girolamo, In Ecclesiastem 1,12; cfr. anche il Talmud palestinese Sanhedrin 2,6b, 20 c, Gittim bab. 68 b; Meqh. 7a; Targum a. l.; Agostino, De Civitate Dei 20,3 PL 41,661). Tuttavia, la presunta conversione del monarca non è confermata da documenti anteriori.
Come se non bastasse, l’attribuzione del libro a Salomone è contraddetta da molti altri indizi del libro stesso, per cui oggi la sua origine salomonica non è più condivisa da alcuno studioso (eccezion fatta per i dirigenti americani dei Testimoni di Geova, che – non essendo seri studiosi – in queste cose si attengono sempre alle vedute ecclesiastiche antiche).
Il procedimento del libro è solo un artificio letterario, una figura retorica, una personificazione (prosopopea) per meglio presentare l’inutilità dei beni terreni. Chi meglio di Salomone poteva essere il personaggio più adatto per una confessione di questo genere? Che tutto ciò sia un puro artificio letterario risulta da quanto dice lo stesso scrittore sacro in contrasto con la sua presunta origine salomonica:
- “Io, l’Ecclesiaste, sono stato re d’Israele a Gerusalemme” (1:12), il che suppone che lo scrittore ora non lo sia più. Comprendendo l’implicazione, TNM aggiusta la traduzione: “Sono divenuto re su Israele a Gerusalemme”. Ma l’aggiustamento inganna solo il lettore della traduzione. L’ebraico rimane lì con la sua dichiarazione: “Sono stato [הָיִיתִי (haìyty)] re”. Ora, haìty può essere tradotto con “sono stato”, “fui” o “ero”, ma si ratta sempre di una situazione passata che non c’è più. Inoltre, analizzando bene il testo si nota che lo scrittore dice: “Sono stato re d’Israele a Gerusalemme”. Questa precisazione fa supporre che al tempo in cui si scrive non vi fossero più re viventi a Gerusalemme. Il che avvenne solo dopo la divisione del regno unito nei due regni di Giuda e di Israele. Dato che Salomone rimase re fino al termine della sua vita, come può dire: “Sono stato re”? La spiegazione migliore ci viene presentata da espressioni egiziane simili, dove tale forma letteraria è posta sulla bocca del faraone già morto come suo testamento letterario. Tale forma si trova scritta nelle iscrizioni tombali egizie.
- “Io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno regnato prima di me a Gerusalemme” (1:16). Si noti il plurale: “Tutti quelli che hanno regnato a Gerusalemme”. Tale plurale si adatta male a Salomone, che – prima di lui – ebbe come re a Gerusalemme soltanto Davide, suo padre. Saul, primo re di Israele, non fu a Gerusalemme (2Sam 5:6,7,9). TNM inganna di nuovo il lettore con la sua traduzione: “Più di chiunque sia stato prima di me a Gerusalemme”, mettendo il singolare “chiunque” (che comunque non sposta di molto il problema) e traducendo “a Gerusalemme” contro l’ebraico “su Gerusalemme” (עַל־יְרוּשָׁלִָם, al-yerushalàym).
- Colui che parla in Ecclesiaste non è il Salomone della storia, che – secondo il libro di Re – fu il costruttore del Tempio e fu un giudice giusto, dotato di mirabile sapienza divina (si rammenti il famoso giudizio di Salomone in 1Re 3). In Ecclesiaste traspare invece tutta la corruzione di un governo dispotico orientale. Vi si parla delle oppressioni governative (8:9), del favoreggiamento degli inetti: “C’è un male che ho visto sotto il sole, un errore che proviene da chi governa: che, cioè, la stoltezza occupa posti altissimi” (10:5,6). Ci sono perfino rivoluzioni: “Mi sono messo poi a considerare tutte le oppressioni che si commettono sotto il sole; ed ecco, le lacrime degli oppressi, i quali non hanno chi li consoli; da parte dei loro oppressori c’è la violenza, mentre quelli non hanno chi li consoli” (4:1); “Ho visto degli schiavi a cavallo e dei prìncipi camminare a piedi come gli schiavi” (10:7). Vi si parla di spionaggio: “Non maledire il re, neppure con il pensiero; e non maledire il ricco nella camera dove dormi; poiché un uccello del cielo potrebbe spargerne la voce e un messaggero alato pubblicare la cosa” (10:20). Qualche studioso pensa addirittura a un governo simile a quello seleucida del 2° secolo a. E. V., vale a dire il governo siriaco, con Antiochia per capitale, prima della riscossa maccabaica, quando la civiltà pagana attirava non pochi giudei.
Per tutte queste ragioni Salomone non può essere il qohèlet del libro, tanto più che questi nel suo epilogo si presenta non come un sovrano ma come un semplice saggio maestro di popoli:
“L’Ecclesiaste, oltre a essere un saggio, ha anche insegnato al popolo la scienza, e ha ponderato, scrutato e messo in ordine un gran numero di sentenze. L’Ecclesiaste si è applicato a trovare parole gradevoli; esse sono state scritte con rettitudine, e sono parole di verità. Le parole dei saggi sono come degli stimoli, e le collezioni delle sentenze sono come chiodi ben piantati; esse sono date da un solo pastore. Del resto, figlio mio, sta’ in guardia: si fanno dei libri in numero infinito; molto studiare è una fatica per il corpo. Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto per l’uomo. Dio infatti farà venire in giudizio ogni opera, tutto ciò che è occulto, sia bene, sia male”. – 12:11-16.
Per ovviare a tutte le difficoltà presentate, qualche studioso ha formulato l’ipotesi che non si tratti proprio di Salomone ma di un discendente di Davide. Questa ipotesi si basa sull’espressione iniziale di 1:1: “Parole dell’Ecclesiaste, figlio di Davide” (בֶּנ־דָּוִד, ben-Davìd). Vero è che l’espressione ben (“figlio”) può riferirsi non a un figlio diretto ma a un discendente. Yeshùa stesso è detto “figlio di Davide” (Lc 18:38;20:41), pur essendone un lontano discendente. Tuttavia, la descrizione della sapienza e dell’attività edilizia di Salomone si adatta meglio a Salomone che a un altro re davidico.
Come è possibile, allora, che il libro possa essere riferito proprio a Salomone senza che questi ne sia davvero l’autore? Di certo non c’è nessun desiderio di ingannare il lettore. V’è solo un artificio retorico per dare più importanza ai propri detti mettendoli sulla bocca di Salomone. A scandalizzarsi è solo il religioso occidentale. L’ebreo capisce benissimo: Ora che lui è morto, rivedendo la sua vita, non avrebbe potuto parlare diversamente da quello che il Predicatore gli fa dire. È interessante notare che il Talmud riferisce anche l’opinione che l’autore del libro fosse Ezechia e il suo collegio; si veda Pr 25:1: “Ecco altri proverbi di Salomone, raccolti dalla gente di Ezechia, re di Giuda”.