Prima parte. Investigazione del pensatore ispirato sulla vita. – Ec 1:12-6:9.

   Introduzione: vanità della sapienza. Si può dividere in due parti a motivo della stessa finale. La prima parte dell’introduzione (1:12-15) termina al v. 14 con la finale: “Tutto è vanità, è un correre dietro al vento”, con il versetto 15 che è complementare: “Ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può essere contato”; non tutti i traduttori lo comprendono, per cui staccano il v. 15 (TNM cambia addirittura paragrafo). La seconda parte dell’introduzione (1:16-18) termina con la finale: “Anche questo è un correre dietro al vento” (v. 17), con il v. 18 complementare: “Infatti, dov’è molta saggezza c’è molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore”. Nella prima parte l’autore mostra che nelle sue ricerche si è accorto che tutto è pura vanità sterile e priva di concretezza: tutto sfugge come il vento. La stessa acquisizione della sapienza è una caccia dietro al vento; la sapienza, anzi, non fa che accrescere l’affanno.

   La ricerca del piacere è vanità. Ne ha fatta esperienza l’autore che si è dato a ricercarne ogni forma, ma senza alcun vantaggio. Egli ha costruito grandi edifici, non si è privato di alcuna soddisfazione, ma dovette concludere che tutto è pura vanità. – 2:1-11.

   Studiando la sapienza e la follia (2:12-17) l’Ecclesiaste ha notato che pure la sapienza è senza frutto duraturo, perché tutto si deve lasciare con la morte. A dispetto della dottrina tradizionale che insegnava la superiorità della sapienza (2:13,14a), la medesima sorte colpisce il saggio e lo stolto. Dove sta allora la superiorità della sapienza? Tutto è vanità!

“Il sapiente vede dove va, lo stolto invece cammina nel buio. Ma tutti e due fanno la stessa fine”. – 2:14, PdS.

   TNM, che fa traduzioni sempre un po’ oscure, traduce 2:14b come se fosse un indovinello: “E ho conosciuto, anch’io, che c’è un’eventualità che capita a tutti loro”. L’ebraico ha letteralmente: “E conobbi anche io che sorte unica accadrà a tutti loro”. Non si tratta di “un’eventualità” (chissà mai quale), ma di una “sorte unica” (מִּקְרֶה אֶחָד, miqrèh ekhàd; ekhàd è lo stesso aggettivo applicato al Dio unico): la morte.

   Il frutto del lavoro viene esaminato in quattro sezioni.

  1. Nella prima (2:18-26) l’autore osserva che i soldi che uno s’è fatti devono essere lasciati ad un altro, che può poi mostrarsi saggio oppure stolto. Anche questo è vanità (2:18,19). Ad ogni modo, chi eredita è pur sempre qualcuno che non ha faticato per guadagnarsi quel denaro (2:20,21). Meglio quindi godere dei beni che si possiedono; ma questa letizia è pur sempre qualcosa donato da Dio e del tutto incerto. – 2:24-26.
  2. Nella seconda sezione (3:1-4:6) l’autore nota come sia molto difficile agire proprio nel momento giusto: mentre tutto l’universo è regolato in modo che per ogni cosa vi è un momento adatto, l’uomo – al contrario – non sa adattarsi a questo ritmo (3:9-11). È quindi meglio godere il frutto della propria fatica (3:12,13), poiché noi non possiamo cambiare ciò che Dio ha fatto (3:14,15). Alquanto incomprensibile è la traduzione che TNM fa della parte finale di 3:15:

TNM

Testo biblico

“E il [vero] Dio stesso continua a cercare ciò che si persegue”

וְהָאֱלֹהִים יְבַקֵּשׁ אֶת־נִרְדָּף

vehaelohìm yvaqèsh et-nirdàch

e il Dio ricercherà in seguito

   L’espressione ebraica significa che Dio “riconduce ciò ch’è passato”. Non si comprende il senso dato da TNM: cosa è mai “ciò che si persegue”? Comunque, la Bibbia non dice così. Il contesto è: “Ciò che è accaduto, era già stato, e ciò che deve avvenire si è già verificato” (v. 15a, TNM), per cui Dio “ricerca quello che è passato”. – Did.

   Esiste poi nel mondo una grande ingiustizia: mentre la sapienza tradizionale ammetteva che vi era un giudizio per ogni cosa al momento opportuno, l’Ecclesiaste osserva che in realtà non vi è un fondamento per affermare che vi sia un giudizio, poiché non appare alcuna differenza tra l’uomo e la bestia sia nella vita sia nella morte (3:18-20). Non c’è quindi nulla di meglio per l’uomo che gioire del frutto del suo lavoro, pensando che egli non può sapere nulla di quel che avverrà in futuro (3:22). È perciò in condizioni migliori chi non è ancora nato, perché ignora l’esistenza del male che si attua sotto il sole. – 4:1-3.

“Ho anche visto sotto il sole che nel luogo stabilito per giudicare c’è empietà, e che nel luogo stabilito per la giustizia c’è empietà”. – 3:16.

“Mi sono messo poi a considerare tutte le oppressioni che si commettono sotto il sole; ed ecco, le lacrime degli oppressi, i quali non hanno chi li consoli; da parte dei loro oppressori c’è la violenza, mentre quelli non hanno chi li consoli”. – 4:1.

   Uno compie del lavoro che gli frutta, ed ecco subito l’invidia che rode gli altri e che lo turba. Tutto è quindi vanità e un correre dietro al vento. Sarebbe quindi logico divenire dei fannulloni e incrociare le braccia come fanno molti, ma anche ciò non è  bene. È meglio lavorare, ma non eccessivamente: lavorare – come dice l’autore – con una mano sola. – 4:5,6.

  1. Terza sezione (4:7-16): meglio accompagnati che soli. È bene avere un altro che possa far tesoro dei benefici che si traggono dalla propria fatica. Seguono poi esempi che mettono in risalto il vantaggio di non trovarsi soli: in due, uno rialza chi cade; ci si riscalda a vicenda; si affronta meglio un avversario. Tuttavia, l’altra persona può costituire anche un danno, come nel caso di un vecchio che si vede offuscato da un giovane che, a sua volta, è seguito da una folla innumerevole che finirà con lo stancarsi anche di lui. Perciò, anche questo è vanità e un correre dietro al vento.
  2. Quarta sezione (4:17-6:9): in questa sezione finale della prima parte l’autore raccoglie una serie di detti sapienziali sulla verbosità. Dio non ha bisogno di molte parole, né si lascia ingannare dai molti discorsi retorici con cui l’uomo si lusinga di accattivarsene l’attenzione (cfr. Mt 6:7: “Nel pregare non usate troppe parole come fanno i pagani, i quali pensano di essere esauditi per il gran numero delle loro parole”). Una preghiera troppo prolissa è simile ai sogni in cui la mente si sbizzarrisce in interminabili figure inconcludenti e prive di nesso tra loro (4:17-5:2). È molto meglio stare attenti a non pronunciare voti inutilmente, voti che non si possono poi mantenere: se si sono fatti, bisogna attuarli senza indugio. Oltre a moltiplicare le parole, l’uomo ama moltiplicare il denaro, ma tale brama insaziabile è accompagnata da un aumento di “amici” che cercano solo di approfittare di tale ricchezza; a quel punto il benestante deve rassegnarsi e stare lì a vedere. Anche qui è molto meglio accontentarsi del frutto del proprio lavoro. Infatti, l’uomo esce nudo dal seno materno e nudo se ne va nel soggiorno dei morti: non vale quindi la pena di consumarsi nella brama di accumulare sempre di più (5:7-19). Inoltre, talvolta l’uomo non ha neppure la possibilità di godere i beni che possiede ed è un estraneo a trarne vantaggio. Essendo l’appetito umano insaziabile, ne deriva che il saggio non ha al riguardo alcun vantaggio sullo stolto. Anche se è meglio godere ciò che si ha sotto gli occhi che andare vagando dietro a desideri irrealizzabili, si tratta pur sempre di “un correre dietro al vento”. – 6:1-9.