Parte seconda (6:10-11:6). Conclusioni dell’Ecclesiaste.
Prima sezione. Nell’introduzione che precede questa parte (6:10-12) l’autore afferma che tutto è fissato da Dio e che l’uomo non può disputare con lui; è perfettamente inutile moltiplicare parole sull’argomento. Nessuno può conoscere ciò che è bene per l’uomo e ciò che il futuro gli riserva. Questi due temi sono poi trattati a lungo nella parte seconda del libro.
- L’uomo è incapace di conoscere la strada che gli conviene:
- tanto nei giorni della prosperità che in quelli dell’avversità (7:1-14). L’autore raccoglie dei proverbi per determinare meglio ciò che conviene fare nelle diverse circostanze, esaltando i vantaggi del dolore e delle avversità perché la fine di una cosa è meglio del suo inizio. La situazione, poi, è sempre la medesima, per cui non si può lodare di continuo il tempo passato. La sapienza è buona cosa e dona vita, ma essa non può correggere l’opera di Dio: si deve quindi ammettere che Dio ha fatto tanto ciò che è buono quanto quello che non lo è, tanto il bene che l’avversità.
- Giustizia e ingiustizia (7:15-24). Anche se la sapienza è più valida di dieci prefetti, di fatto però non vi è un uomo perfettamente giusto (v. 20). Perciò occorre stare bene attenti a non ritenersi troppo giusti o troppo savi:
“Non essere troppo giusto, e non farti troppo saggio: perché vorresti rovinarti?”. – 7:16.
Il v. 17 del cap. 7 richiede una buona traduzione. VR lo rende: “Non essere troppo empio, e non essere stolto; perché dovresti morire prima del tempo?”. Tuttavia, “non essere troppo empio” sembrerebbe ammettere l’empietà, seppure con moderazione. Questo non può essere il pensiero della Bibbia. TNM rimane sulla stessa linea, peggiorandola: “Non essere troppo malvagio”. Forse che si può essere un po’ malvagi e si sbaglia solo se si è troppo malvagi? L’ebraico ha אַל־תִּרְשַׁע הַרְבֵּה (al-tirshà harbèh), che – se è tradotto letteralmente – suona: “Non malvagerai [errato in italiano, ma è per darne l’idea] molto”. Ma non basta tradurre letteralmente. Non esiste solo il vocabolario, ma esistono anche i modi di dire propri della lingua. Se fosse solo אַל־תִּרְשַׁע (al-tirshà), “non malvagerai”, tradurremmo: “Non essere malvagio”. In Gb 34:12 abbiamo questo verbo usato proprio in questo senso: “Dio stesso non agisce malvagiamente [יַרְשִׁיעַ (yarshìya)]” (TNM). L’aggiunta di harbèh (הַרְבֵּה) non significa semplicemente l’aggiunta di un “molto” (che la traduzione aggiusta poi in “troppo”), ma indica l’intensificazione continuata: “Non moltiplicare la tua malvagità”. Già è sbagliato essere malvagio, ma se si moltiplicano le proprie azioni malvagie si rischia di ‘morire prima del tempo’, perché malvagità richiama malvagità con gli interessi.
- La donna e la follia (7:25-29). Investigando la sapienza tradizionale circa la donna, l’Ecclesiaste si accorda col dire che lei è un complesso di inganni e di tranelli: “Un uomo fra mille, l’ho trovato; ma una donna fra tutte, non l’ho trovata” (7:28). Tuttavia, anche l’uomo è ben poco saggio. Dio l’ha creato retto, ma egli ha deviato molto dalla giustizia originaria. – 7:29.
- Critica sul saggio e sul re (8:1-17). Osservando il suggerimento tradizionale che è bene ascoltare il saggio e ubbidire al re, l’Ecclesiaste osserva come anche il saggio ignori spesso la giusta risposta (v. 7) e il re possa signoreggiare impunemente (v. 9). Talora l’empio ha ricca sepoltura, mentre il saggio viene dimenticato con la sua morte (v. 10). La condanna del male non avviene subito, per cui l’uomo spesso tende a fare il male (v. 11). Contro il pensiero tradizionale che l’empio sarà punito senza vivere a lungo (v. 13), l’autore osserva – come Giobbe – che dei buoni soffrono e degli empi gioiscono (v. 14). Perciò l’uomo deve riconoscere la sua impotenza nello spiegare questi problemi.
“L’uomo è impotente a spiegare quello che si fa sotto il sole; egli ha un bell’affaticarsi a cercarne la spiegazione; non riesce a trovarla; e anche se il saggio pretende di saperla, non però può trovarla”. – 8:17.
Si noti l’inclusione tra il “saggio” del v. 1 e del v. 17. All’inizio veniva lodato: “Chi è come il saggio? E chi conosce la spiegazione delle cose? La saggezza di un uomo gli rischiara il viso, e la durezza del suo volto ne è mutata” (v. 1). Poi, dopo le considerazioni fatte, la conclusione è che “l’uomo è impotente a spiegare quello che si fa sotto il sole; egli ha un bell’affaticarsi a cercarne la spiegazione; non riesce a trovarla; e anche se il saggio pretende di saperla, non però può trovarla”. – V. 17.
Seconda sezione: L’uomo ignora ciò che l’attende (come affermato nell’introduzione). – 9:1-11:6.
Lo studio dell’Ecclesiaste si articola qui in sei paragrafi che trattano diversi soggetti. I richiami finali sono: L’uomo ignora; non c’è possibilità di conoscenza.
- L’uomo ignora il futuro (9:1-6). Contro la tesi tradizionale che il giusto è nelle mani di Dio (9:1a), l’autore osserva che ciò non appare. L’uomo ignora se Dio gli è favorevole o no, poiché le stesse cose accadono sia ai giusti che agli empi, e alla fine entrambi muoiono (v. 3). Ad ogni modo, è pur sempre meglio essere vivi che morti: “Un cane vivo vale più di un leone morto” (v. 4). Infatti, il vivo almeno sa che deve morire, ma il morto nulla sa di ciò che avviene sulla terra. – Vv. 5,6.
- Vivere gioiosamente (9:7-10). Dato che i morti non possono conoscere né lavorare né essere saggi nello sheòl, occorre godere tutto quel che si può durante la vita terrena; Dio, infatti, è colui che ci dà questa possibilità, e tale è il suo volere.
- L’uomo non è padrone delle circostanze (9:11,12). Non basta essere agili per correre, tutto dipende dalle circostanze e dal tempo opportuno. Ma l’uomo non conosce il momento adatto per agire e spesso l’avversità costringe l’uomo nelle sue reti.
- L’uomo ignora quel che sta per succedere (9:13-10:15). Il saggio povero può salvare una città assediata, ma il ricordo di lui perisce; e un peccato può rovinare tutto, come una mosca putrida rovina l’olio più prezioso (9:14-10:1). Uno stolto può diventare principe, un principe può andare a piedi come uno schiavo. Incidenti ne possono accadere sempre, come cadere in una fossa o essere morso da una serpe (10:2-7). Anche molte parole giovano a nulla perché l’uomo ignora ciò che accadrà in seguito. – 10:12-15.
- L’uomo ignora il male che sta per accadere (10:16-11:2). Anche se ignora il male che può accadergli, l’uomo deve stare attento a non diventare pigro e indolente ( v. 18), egli deve vigilare sui suoi stessi pensieri perché con facilità quel che si pensa può essere intuito: “Un uccello del cielo potrebbe spargerne la voce e un messaggero alato pubblicare la cosa” (10:20). L’uomo deve anche stare attento a non mettere tutto il suo guadagno in un sol luogo, perché ignora come esso andrà a finire.
- Fare del bene finché si ha tempo (11:3-6). Nonostante le incertezze presentate, occorre lavorare lo stesso e non fermarsi, poiché quel che deve avvenire avverrà ugualmente così come accade che piova o come cade un albero (v. 3). Chi è troppo cauto non fa più nulla (v. 4): occorre quindi agire lo stesso, anche se s’ignora quel che avverrà. Proprio come non si sa come il respiro arrivi al bimbo che è nel seno della madre, così l’uomo non sa come Dio lavori nel mondo e non sa che bene lo attende. – V. 6.